Emancipatosi dal ruolo di batterista dei Radiohead, Philip Selway si misura con una scrittura ancor più ambiziosa, rinnovando le suggestioni folk-pop del secondo album solista "Weatherhouse".
"Strange Dance" è lo slancio più generoso del musicista inglese: non solo Selway cede la bacchetta alla bravissima Valentina Magaletti, ma affida ad Adrian Utley dei Portishead il ruolo di cerimoniere delle eleganti e cinematiche sonorità. È evidente l'intenzione di sviluppare le nuance orchestrali sperimentate con la colonna sonora di "Let Me Go", da qui la scelta di collaboratori del tutto funzionali alle evoluzioni chamber-folk del progetto: completano la squadra Hannah Peel alle tastiere, Laura Moody agli archi e ottoni, la polistrumentista Quinta e la produttrice Marta Salogni.
Un calibrato e accorto uso di archi e synth tiene le fila di "Strange Dance". Le canzoni prediligono la semplicità all'enfasi, la voce spesso si confonde nell'architettura degli arrangiamenti, ma quel che accade in questi dieci acquerelli sonori non è del tutto prevedibile.
Musicalmente ricche, le composizioni di Selway si contraddistinguono più per sfumature e dettagli: la tensione emotiva a volte è flebile, fatta eccezione per il singolo "Picking Up Pieces" che si regge su un intelligente equilibrio tra tempi ritmici e sonorità orchestrali in stile Radiohead. Alle più ariose "Little Things" e "The Heart Of It All" sono affidate le melodie più sentimentali e malinconiche, perfette colonne sonore di un film immaginario, che risultano comunque austere e mai smisurate. Una formula che funziona ancora meglio nella più oscura e intricata "There'll Be Better Days".
"Strange Dance" è un album denso ma non greve. Un disco emotivamente autarchico che raramente si concede a un ascolto superficiale, anche quando Philip Selway alza la posta in gioco con un tripudio di vibrafoni, archi, dissolvenze e cambi tonali nella lunga "What Keeps You Awake At Night" o invoca le algide vesti dell'elettronica in "Salt Air". Le sonorità mancano volutamente di ardore e restano apparentemente opache, con la voce sempre più simile a un sussurro.
Sono in verità molte le variabili che animano il nuovo album di Selway: la tensione orchestrale e il contrappunto ritmico della tenebrosa "Check For Signs Of Life" ha un brio che rimanda ai Portishead e ai Vanishing Twin, la title track accenna residui blues e industrial con tonalità affini al Tom Waits di "Bone Machine", mentre "Make It Go Away" sposta l'asse verso il cantautorato folk-psych.
È infine un album agrodolce, "Strange Dance". Uno sforzo deciso di Philip Selway verso l'autonomia stilistica, in un disco decisamente più corale e articolato dei precedenti. Un progetto forse non sempre a fuoco, ma lodevole e soprattutto pronto a regalare qualche brivido sottopelle e non fugace a chi avrà la pazienza di concedergli più di un ascolto.
24/03/2023