Benvenuti nella ridente città di Paradise, numero di abitanti 10. Forse è il luogo in cui abbiamo sempre desiderato arrivare, forse è semplicemente un angolo dove ritirarsi per la pensione. Nella realtà esiste davvero, e si trova da qualche parte nelle campagne dell'Indiana. Ma per Christian Lee Hutson appartiene a una dimensione immaginale, dove abitano i personaggi delle sue canzoni: "Quando finalmente ne abbiamo abbastanza del mondo, andiamo a Paradise e costruiamo le nostre piccole case di fronte al cimitero".
"Paradise Pop. 10", capitolo n. 3 della discografia del songwriter americano, è ancora una volta una collezione di racconti che sembrano rubati a qualche pagina di Raymond Carver, tratteggiati con una penna intrisa di un'ironia malinconica. E se l'immaginetta di Elliott Smith continua a campeggiare sulle sue storie, stavolta è più a quello di "Figure 8" che viene spontaneo pensare, con le sue screziature di elettricità e la sua varietà di tinte.
La partenza, però, è più minimalista che mai, con la rarefatta ballata pianistica "Tiger" che - non a caso - prende le mosse dalla figura di un'attrice e va a sfumare in una cornice di applausi: "Mi piaceva l'idea di cominciare in un teatro, visto che in qualche modo il disco è come una piccola pièce teatrale, a cui ho dato vita con tutti i miei personaggi".
"In my imagination/ I'm sitting on the fence", sussurra Hutson, "Between the life we almost had/ And whatever's coming next". Proprio questo senso di transizione e di incertezza è uno dei temi centrali dell'album, che riflette i cambiamenti intervenuti nella vita di Hutson con il trasloco da Los Angeles a New York, dove "Paradise Pop. 10" ha preso forma (significativamente, negli studi Figure 8 Recording di Brooklyn...). Non è un disco fatto di radici e di luoghi familiari, ma di panorami visti dal finestrino di un aereo, come nell'immagine scelta per la copertina.
Ci pensa subito il riff di "Carousel Horses" a mettere in mostra il lato più muscolare del cantautorato di Hutson, con Phoebe Bridgers e Maya Hawke ai cori - ovvero le due complici essenziali dell'album, la prima accreditata anche come produttrice e la seconda come co-autrice della maggior parte dei brani. Intorno a un arpeggio alla Leonard Cohen, "Autopilot" racconta la tentazione di romanticizzare il passato e di torturarsi con il rimpianto ("Call it autopilot/ Or a midlife crisis/ Sounds like hindsight bias"), mentre la morbidezza della melodia di "Water Ballet" accompagna una disamina spietata di quel senso di inadeguatezza che impedisce di vivere le cose fino in fondo ("I needed еverything to be perfеct/ And when it was, I thought I didn't deserve it").
Le canzoni di "Paradise Pop. 10", insomma, sono quasi una seduta di psicoterapia, in cui per riuscire a guardarsi dentro occorre sempre proiettare il proprio intimo all'esterno, sulla finzione di un personaggio: "I write fan fiction of life/ I could write you a happier part", confessa Hutson in "Fan Fiction", affidando a un delicato acquerello acustico il momento più autobiografico del disco.
Se le venature country di "Candyland", intessute di un violino agreste, spostano le coordinate verso i territori dell'Americana, la danza vaporosa di "After Hours" sembra fatta apposta per cullare i nostalgici dei Mojave 3. Ma per il finale di "Beauty School" Hutson decide di recuperare un'apparente spensieratezza, tra gli accenti più marcati della batteria e della chitarra elettrica e la voce di Katy Kirby: "È come un invito ad accettare il tempo presente e se stessi. Quando continui a rivivere i momenti della tua vita, è come se ti muovessi al contrario e venissi risucchiato dal passato. Bisogna girarsi nella direzione giusta". "In the mirror universe/ Time is moving in reverse/ I'm gonna turn my life around/ Everything is different now".
28/11/2024