L'operazione è di apparente semplicità e di complessità sostanziale quanto ardua. Pochi gli step sulla carta: prendere otto brani di un grande nome in aria di festeggiamento dei cinquant'anni di carriera come Angelo Branduardi, scegliendoli fra noti e meno noti, più o meno remoti, più o meno caratterizzati; chiamare un pianista classico-curioso di talento, esperienza e grande gusto come Alessandro Russo; realizzare con questi ingredienti un album tributo che sfugga alle logiche della cover, come dell'agiografia. Dunque, nulla di semplice ça va sans dire. La formula è quella dell'"adattamento gentile" che Fabio Cinti stesso ha coniato per la sua versione de "La voce del padrone" di Battiato, già Premio Tenco 2018 nella categoria "interprete di canzoni".
In questo adattamento mancano però gli archi e, nell'ottica del concept di Cinti, è giusto così. Risuonare Branduardi con un quartetto sarebbe equivalso a giocare sullo stesso terreno dell'originale, rinunciando al piacevole effetto "straniante" che nell'album per Battiato era l'ingrediente principe. L'essenza del gioco invece qui rimane la medesima. Adottando un rispetto filologico ma "orizzontale", nel senso di non devoto, non preoccupato, ma moderno e laico già nelle intenzioni, si scommette nel sottolineare la classicità a pieno titolo del repertorio affrontato.
E qui si tratta di riconoscere a un autore di culto, ma mai celebrato quanto si dovrebbe, i grandi meriti che gli competono. Angelo Branduardi ha firmato album importantissimi nel panorama del cantautorato italiano e ha saputo anche andare oltre, cimentandosi con la musica da film, con i pastiche linguistici, con il patrimonio eurocolto, con la musica etnica, con l'avanguardia, con il rock e il pop, con il sacro e il profano, con le murder ballad, con le zone alte delle classifiche, come con l'underground. Insomma, il viaggio dall'impulso originario all'espressione, che Branduardi da sempre persegue con amore e dedizione sopraffini, conduce dalla base classica all'universo. Cinti lo compie al contrario, con quel tocco di meticolosità, caparbiamente votata a rigore ed eleganza. E l'esperimento riesce, spingendosi oltre i risultati già pregevoli dell'album-tributo precedente.
"Il dono del cervo", "Confessioni di un malandrino" e una versione fra Tenores de Bitti e Nicola Piovani di "Alla Fiera dell'Est" sono gli appuntamenti preposti a fare da gancio a un ascolto più epidermico. Come spesso accade in questi casi, gli episodi più interessanti saranno però da ricercarsi altrove: in ripescaggi forbiti come la splendida "Fou de Love", dove Branduardi sperimentava una stratificazione di lingue e dialetti che sapeva ancor più di antifascismo che di antico. O ancora colpiscono l'attualizzazione quasi brechtiana de "La Luna", il pathos de "La Volpe", la leggiadria cortigiana di "Casanova" e la rarefazione cristallina di "Sotto il tiglio", dalle cui liriche viene la citazione che dà il titolo alla raccolta.
Ci piacerebbe che esperimenti così viaggiassero trasversalmente fra i vari mondi cui, senza mai davvero appartenervi, rimandano e che venissero intesi per quello che sono: un atto d'amore. Soprattutto per la musica.
31/05/2024