"143" è la storia di una volontà tardiva di riscatto, di un'ostinazione mal riposta, di una fantasia che impedisce di vedere la situazione con la dovuta chiarezza. "143" è anche la storia di come non gestire il lancio di un album, di tutti gli errori da non commettere se si vuole tentare di salvare la propria carriera. Da qualsiasi angolazione si voglia vedere il tutto, la conclusione che si può trarre in merito al sesto album di Katy Perry è la stessa, e può essere riassunta con una sola parola: disperazione.
Dopo sette anni di insuccessi e un generale cambio di guardia che ha reso rapidamente vetusto il pop caramelloso della fu popstar dei record, la californiana disponeva ormai di ben poche cartucce da sparare per riacquisire il consenso perduto, al punto che serviva un miracolo per cambiare la rotta. Presentato già da un gruppo di singoli ben poco accattivanti, il nuovo disco non solo non è il miracolo sperato, ma anzi prosegue sulla stessa spirale discendente del precedente "Smile", ribadendo l'amore per un'estetica e un sound abbondantemente scaduti ma soprattutto ponendosi al centro di un crocevia pieno di contraddizioni, difficili da sanare. La musica pop, nel mentre, è passata decisamente oltre.
Certo è che l'aver deciso (e quindi l'aver poi difeso con gran pervicacia) di farsi produrre il disco da Dr. Luke, caduto in disgrazia dopo la lunga disputa legale con Kesha Sebert e dopo che tutti i nomi di peso hanno deciso di interrompere ogni tipo di collaborazione, non ha minimamente aiutato alla promozione dell'album, a maggior ragione con un singolo di lancio come "Woman's World", stanco motivetto Edm che vorrebbe perorare la causa del female-empowerment ma che non fa altro che evidenziare una profonda dissonanza di intenti. Un pezzo del genere risulta ancor più pretestuoso se a questo seguono brani che vanificano ogni pretesa lirica, ogni tentativo di comunicazione. Fermo ai festival dance dominati da David Guetta e Avicii, con qualche spruzzata di trap a creare una sponda col mondo hip-hop (si vedano tre delle quattro collaborazioni in scaletta), l'intero disco si muove su coordinate stilistiche che non si spostano di un passo dal 2013, con tutti gli annessi e connessi che ciò comporta.
Zompettanti motivetti dance-pop adatti per una qualsiasi playlist di negozio da abbigliamento ("Crush"), tramonti piano-house in pura scia streamingcore ("Lifetimes"), rimaneggiamenti malcelati di vecchie hit (sfido a non ritrovare echi di "Firework" in "All The Love"): laddove ai tempi di "One Of The Boys" e "Prism" il tutto riusciva a mantenersi in piedi grazie a un contesto favorevole e una buona dose di gusto camp che male non fa, a condannare ogni singolo brano di "143" è la triste attitudine generalista, un'autoimposta seriosità che in un lavoro dai toni dance è semplicemente letale.
Il peggior colpevole? "I'm His, He's Mine", brano che avrebbe avuto tutto da guadagnarci nello sfruttare il campionamento rallentato di "Gypsy Woman" in chiave ironica ma che spegne ogni entusiasmo interpolandolo senza alcuna creatività nell'ennesimo motivo trap-bass in circolazione. Finanche Doechii, solitamente più vispa e pungente, qui finisce per non apportare alcun contributo: a confronto la sample-mania di Ava Max riesce quasi a risultare raffinata.
Tra un riadattamento apocrifo di "Unholy" ("Gorgeous", con la stessa Kim Petras a fare nuovamente da spalla), drop antiquati quanto il primo Skrillex ("Artificial"), anemici motivi electropop ("Truth"), resta convinta la sensazione di volersi aggrappare a un momento in cui tutto ancora era in grado di incuriosire e smuovere ampi numeri, l'estrema mossa di chi non ha saputo sfruttare un pur interessante scarto laterale, preferendo l'usato sicuro. Tanto sicuro però alla fine non è stato; difficilissimo valutare se a questo punto a Katy Perry si presenterà un'altra chance.
23/09/2024