Ci ha provato Katy Perry, a tentoni, senza una direzione precisa che le indicasse il percorso, ma ce l'ha messa tutta per smarcarsi dall'immagine di bambolona d'America e realizzare un album più personale, composito, da cui lasciar trasparire un'immagine diversa, ben più sfaccettata rispetto ai coloratissimi carrozzoni pop del passato. Il risultato, "Witness", ha ricevuto talmente tanti spernacchiamenti (a parere di chi scrive più che ingiustificati) che non ci è poi voluto molto perché dalle parti della superstar di "Firework" si corresse ai ripari, e si etichettasse un pur primo tentativo di smarcamento come una strampalata parentesi da dimenticare in fretta e furia.
Tre anni dopo, con una lunga ma costante trafila di singoli a prepararne la venuta, "Smile" è la perfetta sintesi di un'immagine e di un'estetica tornate indietro di 180 gradi, il rassicurante ripristino di un linguaggio mansueto, privo di spigoli, funzionale a rabbonire, coprire di un finissimo strato di zucchero a velo ogni ostacolo. In uno scenario, come quello del 2020, che ha visto il rientro in classifica di grande musica pop, un approccio del genere appare fortemente limitante.
Non che tutto sia da buttare, anzi, i brani di lancio testimoniano comunque una scrittura pop di livello, che all'attitudine bombastica di vari singoli del catalogo di Katy Perry contrappongono una maggiore rilassatezza, una gestione della composizione più sfumata e sottile. Dalle rapidissime cascate di note che si rincorrono nella dolceamara "Never Really Over" (riconoscibile la produzione scintillante di Zedd, col quale la cantante ha nuovamente collaborato per la tesa electro-dance di "365") alle brezze acustiche su cui si adagia la languida melodia di "Harleys In Hawaii", la popstar si è raramente trovata così a suo agio nelle diverse sfumature del suo timbro, tanto fragile e nostalgica quanto sensuale e rilassata, senza alcuna caduta di tono. E se la title track tira fuori l'esplosività che ha caratterizzato tutto il primo quinquennio di carriera, riesce comunque a non buttarla in caciara e a concentrare tutta l'enfasi sulla produzione, che si fa tramite del messaggio di speranza e positività attraverso propulsive spinte electro.
Ben più che nei precedenti album, la produzione qui effettivamente brilla di luce propria, confeziona un prodotto di assoluta coesione, che sa come elevare, anche solo di un gradino, pure la scrittura più appannata. Ne sono dimostrazione la grintosa progressione house di "Teary Eyes", che potrebbe funzionare benissimo anche da sola (di certo la penna qui è alquanto tiepida), o il tocco funktronico di "Champagne Problems", che prova a inserirsi nell'attuale dibattito dance con un approccio più frastagliato e dinamico, privo però dello spirito di una Dua Lipa (che giocherebbe anche di un bel contrasto con lo spleen del testo). E se "Resilient" vorrebbe certificare la forza di Perry, il suo ritrovato slancio alla vita, la scintilla non scatta mai, nemmeno il velo umbratile alla Allie X che ammanta gli staccati sintetici riesce a fornire un pizzico di vita a un tracciato melodico fin troppo risaputo.
Non vi è dubbio che si tratti di un disco importante nel percorso della popstar, che qui coglie l'occasione per parlare di riscatto e rinascita personale, ma un approccio così "safe" e dilavato quanto a testi e melodie finisce con l'appiattire inesorabilmente l'intera raccolta; l'impressione generale è che ben più che per il pubblico, questo sia il classico progetto utile a chi lo ha realizzato.
15/09/2020