"All Avail" si avvicina pericolosamente a ciò che potremmo definire un bad trip. Che questo possa essere un pregio o un difetto, dipende dalla prospettiva: forse è entrambe le cose. La formula è questa: un sound collage di voci e percussioni distorte, arricchite da filtri, echi e spazi acustici che si manifestano, si mimetizzano e poi svaniscono; questa cascata di campionamenti è adagiata su un tappeto morbido di bassi scuri e rimbombi, o meglio, ciò che resta di una cassa, percepibile solo nelle sue frequenze più profonde. Il risultato è un santuario di mutazioni psichedeliche, tra lamenti e pulsioni tribali, tutti ritratti come pitture rupestri sotto Lsd, in un'eredità che, per quanto grossolanamente etichettabile come ambient-dub, si avvicina più a "Island Diamonds" delle Pocahaunted che alle ultime esplorazioni cibernetiche di Xenia Reaper e Alpo.
Le sei jam si distendono per oltre quaranta minuti, esaltando incoerenze e arcaicismi. Non è nell'ordine delle cose che X Or Size, progetto dell'americano Josiah Wolfson (già compagno di Sean McCann nel duo drone The Geese), trova la sua essenza. Anzi, è proprio nel caos, nell'assenza di strutture, loop e nella resa agli eventi incontrollabili; gli strumenti elettronici sono piegati a un rituale sciamanico, piuttosto che a un sound design pulito e raffinato. Il senso di questi viaggi allucinatori raggiunge il suo culmine in "Ceremonism", dove un vortice di sample vocali si abbatte furiosamente su percussioni e fiati, tutto tagliuzzato, ripetuto, distorto e ridotto a dimensioni che sembrano accessibili solo attraverso forti dosi di psichedelici: è come Huerco S in una condizione di depersonalizzazione, un Madteo privo della sua anima.
Il disordine è il principio cardine che struttura l'opera, ma è anche un'arma a doppio taglio, che genera momenti di eccessiva prolissità, una logorrea frammentata, un balbettio distorto che inevitabilmente riduce l'attenzione, salvo poi riprendere il filo del discorso e restituirgli un significato, sottile ma tangibile ("Lathe D'Just").
E' un'opera che oscilla costantemente tra smarrimento e fervore mistico, tra confusione e anarco-primitivismo ("Osso"), e solo nella conclusiva title track sembra trovare un equilibrio, la fine di un'isteria allucinogena, dove crepitii in bassa risoluzione accompagnano un drone astrale, il bagliore onirico di una stella lontana. Forse non sarà il disco più coerente dell'anno, ma chi se ne importa, dopotutto?
09/03/2025