Una ricerca lunga un decennio, un ponte tra due mondi. Il nuovo album di Yazz Ahmed, trombettista britannica originaria del Bahrein è il più stratificato della sua discografia. Non solo per la sua ricchezza sonora - comunque notevole - ma per il modo in cui jazz britannico e tradizione musicale mediorientale si intrecciano in un affresco cangiante. Da una parte, l’elettricità urbana della fusion contemporanea, con geometrie irregolari, l'imprevedibilità. Dall’altra, i richiami profondi alla musica del Golfo, scale inusuali per l’orecchio occidentale, canti che echeggiano storie di viaggi e desiderio. Ne nasce un album in cui gli stati d’animo si succedono con fluidità, passando da impennate dinamiche su tempi composti a episodi atmosferici densi di attesa.
"A Paradise In The Hold" è al tempo stesso una sintesi e una nuova frontiera per il percorso di Ahmed nel jazz. A segnare una differenza rispetto ai lavori precedenti è soprattutto il ruolo più centrale della voce. Se nei primi album appariva solo sporadicamente, qui si fa strada in più brani, con un ventaglio espressivo ampio. "Mermaid’s Tears" e "Dancing Barefoot" riprendono la compostezza delle jazz song più eleganti, con qualcosa dell’austerità degli Azimuth di Norma Winstone o del John Greaves di "Songs". Ma anche il legame con la tradizione vocale mediorientale trova un suo spazio, evidente in "She Stands On The Shore" e "Waiting For The Dawn", dove Natacha Atlas contribuisce con la sua interpretazione evocativa.
L’album, che ha una lunga gestazione, nasce da un viaggio compiuto nel 2014, quando Ahmed torna in Bahrein per riscoprire le proprie radici musicali. Nei mercati di Manama trova vecchie registrazioni dei canti dei pescatori di perle, nei negozi di libri poesie nuziali che celebrano la bellezza attraverso la natura, mentre l’incontro con i cerchi di percussioni collettive femminili la porta a esplorare ulteriormente il magnetismo delle sovrapposizioni ritmiche. Un elemento, questo, che risalta specialmente nei brani più lunghi e avventurosi: in "Though My Eyes Go To Sleep, My Heart Does Not Forget You" affondi di clarinetto basso, tintinnii di vibrafono e battiti di mano si intrecciano in una trama ispirata agli iqa‘at, intricati schemi poliritmici della tradizione araba. La title track segue schemi simili, ma con un flusso più liquido e magmatico, che richiama i gorghi elettrici di "Bitches Brew".
"Her Light", il brano più camaleontico, è invece un susseguirsi di svolte impreviste, che apre su un incipit frenetico, spezzato fra batteria, clarinetto basso e piano, e prosegue con repentini cambi di atmosfera e soluzioni stilistiche, tra impennate esplosive e aperture più ariose.
Il lato evocativo è sempre stato un tratto distintivo della trombettista britannico-bahreinita, ma qui emerge con una lucidità nuova, anche nei dettagli timbrici: archetti di metallo e tappi di bottiglia sul vibrafono, percussioni che riecheggiano le cerimonie del Golfo, voci registrate in contesti intimi e quotidiani. Non il suo album più immediato, ma quello in cui le molteplici anime della sua ricerca si compenetrano maggiormente. Un’ora e dieci di musica, tra le più dense e variopinte dell’anno.
27/03/2025