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I freak dell'era folktronica

Cultori del folk americano, infaticabili manipolatori di suoni e rumori in studio, i Books sono tra i pionieri della folktronica. La loro è la storia di due freak postmoderni, divisi da origini e background, ma uniti dalla passione per la musica e dal gusto per l'ironia. E ora già li chiamano "Simon & Glitchfunkle"

di Claudio Fabretti

La musica dei Books è un puzzle che si scompone e ricompone a ogni ascolto. Di certo vi è solo l'origine: la tradizione folk-country e bluegrass americana; il resto è la sua triturazione in un ammasso di frattaglie sonore che solo a tratti lasciano balenare una parvenza di "forma-canzone". I ferri del mestiere del duo americano-olandese formato da Nick "Zammuto" Willscher e Paul De Jong sono, da un lato, le forbici del taglia e cuci, che divorano i suoni facendoli a pezzetti, dall'altro, il "mastice", ovvero la collezione di sample e found sound (la "libreria" da cui ironicamente prendono il nome), che va a integrare collage musicali del tutto inediti. Con i vari Mum, Colleen, Four Tet e Manitoba, i Books si possono annoverare tra i pionieri di quel groviglio di radici acustiche e manipolazioni digitali che va sotto il nome di "folktronica".

Il libro di Nick Zammuto e Paul De Jong comincia nel 2000, quando i due si incontrano a New York. I loro background non potrebbero essere più differenti. Zammuto - padre italo-americano, madre tedesca - studia chimica e arti visive, prima di trasferirsi nella Grande Mela dove si dedica alla musica sintetico-organica, tentando anche di sbarcare il lunario come cuoco. De Jong ha invece le note nel Dna: figlio di musicisti, suona il violoncello dall'età di 5 anni, quindi si specializza nel teatro dell'assurdo, componendo colonne sonore per balletti e diplomandosi in musica; trasferitosi a New York, studia alla Manhattan School Of Music e insegna violoncello, assistendo il novantenne pioniere della musica elettronica Otto Luening.
Zammuto e De Jong, però, si accorgono ben presto di condividere un grande amore musicale, quello per la tradizione folk americana, oltre a una curiosità morbosa per la ricerca dei "campioni", che siano frasi rubate alla strada, brandelli sonori o rumori d'ogni sorta. Passioni che avevano già spinto Zammuto a incidere su cd-rom una trilogia elettronica dal titolo "Solutiore Of Stareau" (1998-2000), il cui terzo capitolo sarà poi ristampato come "Willsher" (Apt B, 2000). Attingendo dalle loro personali collezioni di suoni e sample, i due cominciano così a cucinare le loro bizzarre polpette musicali, insaporite sempre da massicce dosi di humour.

Quando i loro primi collage arrivano sulla scrivania di Tom Steinle, boss della Tomlab, per i Books inizia ufficialmente l'avventura. Invitati a realizzare un album sulla lunga distanza entro il 2002, i due lavorano prevalentemente on the road: De Jong si divide tra New York e l'Olanda, mentre Zammuto, in preda a un'improvvisa crisi mistica, lascia tutto per scalare a piedi le 2.200 miglia dell'Appalachian Trail, dal Maine alla Georgia. Nonostante la distanza, i due si tengono in contatto attraverso telefonate e fitti scambi di mini-disc. Solo quando Zammuto si stabilisce a New York, lavorando come aiuto-gestore di un albergo, l'album può finalmente venire alla luce nelle gelide cantine dell'Elmer's Inn.

Inedito melting pot tra sonorità glitch e partiture elettro-acustiche, Thought For Food (2002) spiazza l'ascoltatore fin dalle prime note, seminando una serie di "indizi" da raccogliere pazientemente per arrivare a decifrarne l'enigma. E' una continua "caccia al tesoro" alla ricerca dei suoni e delle loro potenzialità espressive, in un gioco sottile di addizioni (di ritmi, di sample, di strumenti) e sottrazioni (lo sfumare del tutto in languori ambientali, fino al silenzio, componente tutt'altro che secondaria del disco). Tre elementi fungono da scheletro: la chitarra acustica, i ricami di violino (o violoncello) e i frammenti vocali. Attorno a questa triade, si dipanano le matasse di nenie folk completamente stravolte: accordi spezzettati e ricostruiti con un programma di editing audio, in un'opera di cut-up non troppo distante dalle tecniche d'avanguardia di John Cage. Si aggiungono solo altri sparuti interventi strumentali - refoli di synth, frasi d'organetto, sporadiche percussioni o linee di basso ("Mikey Bass") - ma sempre risucchiati in un vortice di ticchettii, fruscii, bleep e loop.
Il genio obliquo di Brian Eno, l'irriverenza dei Faust, ma anche il classicismo stralunato della Penguin Cafè Orchestra aleggiano in queste dodici mini-composizioni da camera per freak dell'era folktronica. Anche l'apparente nonsense dei sample vocali si riconduce a una particolarissima logica: in "Read, Eat, Sleep", ad esempio, su un tappeto di arpeggi acustici e campanelli sintetici, le voci scandiscono le parole "r-e-a-d- e-a-t- s-l-e-e-p", per poi alternare differenti dizioni del termine "aleatoric", finché la voce principale spiega: "By digitizing thunder and traffic noises, Georgia was able to compose aleatoric music", descrivendo così il processo di formazione di una fantomatica "musica aleatoria".

I campioni vocali sono i più disparati (e spassosi). Sono cronache sportive nell'iniziale "Enjoy Your Worries, You May Never Have Them Again". Sono un conto alla rovescia in "All Our Base Are Belong To Them", trafitto da accordi rumorosi di chitarra, con il cantato "reale" (l'unico del disco) che riecheggia la floydiana "Mother". Su "Contempt", un dialogo maschile rispolvera le domande che Brigitte Bardot rivolgeva al marito nell'omonimo film di Jean-Luc Godard ("What about my ankles, do you like them?", "My thighs... do you think they're pretty?") in uno sketch surreale, mandato al ralenti e avvolto in cadenze da valzer nel duetto tra chitarra e violino. "Motherless Bastard" è il piccolo dramma di un bambino abbandonato ("You have no mother and father... they left, they went somewhere else"), immerso in una dolce piece bucolica alla Fahey, per chitarra, violoncello e grancassa.
Altrove, i files dei Books si abbandonano a deliri di pura matrice dadaista, rilasciando afrori latinoamericani in "All Bad Ends All", smarrendosi nelle brume ambientali di "Thankyoubranch" o inscenando la pantomima di "Deaf Kids". Unico brano di senso (quasi) compiuto è quella "Getting The Done Job" per banjo e voce (doppia) che sembra rimescolare le carte al songwriting di Richard Thompson. Chiude il sipario un "Silenzio", pronunciato in italiano.

Eccentrica giostra di input sonori, Thought For Food porta la biblioteca della ditta Zammuto-De Jong nel salotto buono dell'underground, facendo gridare al miracolo della "folktronica". Ai Books, forse, manca solo un piccolo sforzo verso una definitiva sintesi del loro "collagismo", tanto seducente quanto, a tratti, dispersivo.

Incoraggiati dall'imprevisto exploit, i due trasferiscono il loro studio in un piccolo e gelido appartamento a North Adams, nel Massachussets, cominciando a lavorare al loro secondo album, The Lemon Of Pink, che esce sempre per Tomlab nel 2003. Al loro fianco c'è l'amica Anne Doerner, che presta la sua limpida ugola alle loro alchimie. Per la prima volta, dunque, il duo si avvale anche di "vocals" originali.

La laptop music dei Books, stavolta, passa al setaccio la storia del Giappone, dal Medioevo a oggi, rivisitandola in una galleria di pannelli sonori naif. Microelettronica, corde, archi, voci (in inglese, giapponese e - ancora una volta - italiano) si incastonano in nuovi collage-canzone, simili a vasi comunicanti di un'osmosi a getto continuo. Tredici sonatine da camera che, rispetto all'esordio, pagano il prezzo del "già sentito", acquistando però in raffinatezza e confezione formale. Insomma: a seconda dei gusti, è il classico "album della maturità" o il primo indizio di un possibile manierismo.
L'ouverture di "The Lemon Of Pink Pt. 1" è tutta un programma: in un minuto si succedono un riff di piano catturato da un vecchio vinile gracchiante, un banjo, frammenti sparsi di violino e una voce femminile campionata che ripete la frase che dà il titolo all'album, prima che il canto "umano" della Doerner prenda il sopravvento. Nella seconda parte, invece, la title track si tramuta in un bozzetto astratto per violoncello.

Giocando coi suoni come Hervé Tullet aveva fatto coi colori nel quasi omonimo libro per bimbi "Pink Lemon", i Books si dilettano con stratagemmi e gag d'ogni sorta, muovendosi con una levità di tocco degna del miglior O'Rourke. Fanno recitare (in italiano) a una voce femminile i mesi dell'anno (l'inquieta sonata per violoncello di "S Is For Everysing"), mettono in mano a un cyborg lo spartito (inizialmente) country di "Tokyo" (su cui compare perfino la voce di una hostess a bordo di un aereo della Japan Airlines), trapiantano venature electro in tessiture post-rock ("There Is No There", con un bell'assolo finale di banjo), farfugliano bisbigli eccitati e risolini nei 55 secondi di "PS", citano finanche la "Medea" di Pier Paolo Pasolini ("Non c'è niente di naturale nella natura, ragazzo mio") in "Take Time". L'apoteosi roots-folk del disco è invece la più composta "Don't Even Sing About It", dove lo spirito impazzito di Will Oldham si aggira tra carillon di corde, echi western e svisate di violoncello.

Gioiello di dadaismo folk, The Lemon Of Pink si propone come il perfezionamento di un progetto nato quasi per gioco e divenuto uno dei "casi" più clamorosi del panorama indie degli ultimi anni. Nel frattempo, Zammuto e De Jong continuano ad ampliare la loro biblioteca di "found sound" e di registrazioni strumentali. Il noto produttore radiofonico Gregory Whitehead propone loro di comporre la colonna sonora del suo dramma radiofonico (premiato con il Sony Award) "The Loneliest Radio", che debutta alla Bbc nell'autunno del 2003. I Books si esibiscono, quindi, nel loro primo concerto, proprio insieme a Whitehead, in occasione del Third Coast Audio Festival di Chicago (ottobre 2003). Parallelamente al loro lavoro sul suono, i due cominciano anche a sviluppare una biblioteca di immagini, che va a riempire il loro sito web.

Abbandonato il gelido appartamento-studio di North Adams per una più accogliente casa vittoriana, sempre nel Massachusetts, i due pionieri della folktronica proseguono con Lost And Safe (2005) l'opera di ibridazione tra strumenti acustici tradizionali (violoncello, chitarra, mandolino, banjo) e marchingegni elettronici. In più, l'album incorpora un nuovo set di suoni e di trattamenti strumentali, includendo tastiera vintage e registrazioni elettroacustiche casalinghe. Il duo spinge di più sull'integrazione tra testi originali e campioni, nel tentativo di dar forma a qualcosa di più vicino al concetto di "canzone" e di valorizzare i progressi di Zammuto al canto. Ne scaturiscono 11 tracce che, se perdono qualcosa in genialità e imprevedibilità, riescono comunque a conservare la freschezza di una formula che, alla terza prova, rischiava di mostrare la corda.

Ecco, allora, i Books imbarcarsi in gondola per "Venice", souvenir esotico incentrato su un dialogo asincrono voce-musica, con tanto di frasi rubate in italiano ("così, più in là"), caldi beat e applausi campionati di contorno. L'animata descrizione dell'enigmatico Mr.Maps è resa surreale dal trambusto delle percussioni ("An animated description of Mr. Maps"); mentre in "If Not Now, Whenever" è addirittura lo squillo di un telefono a contrappuntare chitarra e voci. Altre volte i Books suonano come la versione glitch di Simon & Garfunkel ("Smells Like Content", sorta di serenata acustica scarnificata, o la conclusiva ballata in punta di voce di "Twelve Fold Chain"). Nei momenti più contemplativi, i due si rifugiano in una ambient-music da sonnambuli sublimata dall'iniziale "A Little Longing Goes Away": pochi accordi ad abbozzare un etereo acquerello, bisbigli, ronzii, lievi dissonanze; praticamente una ballata country vivisezionata e decomposta. Questa propensione alle sonorità soffuse torna in "Vogt Dig For Kloppervok", dove una intro d'archi sfocia in un campionario di glitcherie assortite, con un arpeggio di chitarra che tenta di mantenere un minimo di rotta in un maremoto di voci trattate, ticchettii di percussioni, porte che si aprono e si chiudono. Le forbici dei Books riescono a fare a pezzettini finanche un potenziale rap ("Be Good To Them Always"), tramutandolo in un videogame al ralenti per voci campionate, percussioni saltellanti e vertigini di tastiere; e il testo non è meno beffardo: "Oh how sadly we mortals are deceived by our own imagination", recita una strofa.

Il repertorio di trucchi del duo resta ampio, ma forse comincia a patire la mancanza di un supporto più "musicale". Paradossalmente, proprio il tentativo di dare vita a un album di "canzoni", a una sorta di "cantautorato" sui generis, è l'aspetto meno riuscito del disco.
Nel frattempo, i Books lavorano alla preparazione dello show da portare in tournée (che conterrà sia esibizioni musicali che raccolte di suoni e video) e vengono ingaggiati dal Ministero della Cultura francese per realizzare una colonna sonora per ascensori già ribattezzata "elevator music", in omaggio alla "Music For Airports" di eniana memoria.

Imbattersi nel post-folk dei Books è come sprofondare in un lungo "stream of consciousness", a tratti serio, altre volte puramente canzonatorio. Un esercizio di stimolazione intellettuale certamente intrigante, anche se a volte appesantito da qualche manierismo di troppo. Come ogni rompicapo che si rispetti, richiede pazienza, curiosità, capacità d'osservazione, ma alla fine riesce a ripagare l'ascoltatore, lasciandogli anche il sorriso sulle labbra per via di quella (auto)ironia sottile che ha sempre garantito ai due di non tracimare in un cerebralismo da dissezionatori di cadaveri (musicali). Come si fa, d'altronde, a non simpatizzare con due provetti avanguardisti che dicono "chiamateci pure Simon and Glitchfunkle"? E poi in fondo è solo musica da ascoltare per sentirsi al sicuro quando ci si è perduti. O viceversa?

Dopo uno iato lungo un quinquennio, costellato di cambiamenti nelle vite dei due titolari del marchio Books e accompagnato dal difficile approdo all'etichetta Temporary Residence, il duo torna a farsi sentire nel 2010 con The Way Out, album che offre una nuova declinazione della consueta mole di suoni, campionamenti e schegge melodiche.

Dall'infinito campionario sonoro che lo ha reso celebre, il duo estrae battiti e loop avvolgenti, inusitate cadenze sixties, accenni corali, timide torsioni lunge-pop, propulsioni retrofuturiste, acide derive ossessive, incursioni acustiche, ironiche citazioni hip hop, sciabordii ipnotici, giocose chincaglierie analogiche e persino trasognate narcolessie da slowcore rimaneggiato e stravolto.

 

In The Way Out, il caos organizzato dei Books comincia tuttavia a mostrare la corda, oltrepassando la sottile linea che separa la compiutezza di un'opera da un esercizio intellettuale fine a se stesso. E questo è, in definitiva, un album che si diverte nel gioco a incastri di suoni e stili, la cui missione appare quella di tratteggiare messaggi sub-liminali piuttosto che quella di offrire un prodotto finito e coerente, seppur nella vorticosa varietà alla quale del resto i precedenti lavori erano tutt'altro che estranei. Surreale, a suo modo godibile e senz'altro capace di catturare attenzioni, The Way Out restituisce i Books a una tipologia di manipolazioni arty ma altrettanto autoreferenziali, pallidi tentativi di riproporre (de)costruzioni solo per brevi tratti in grado di dare un senso a un puzzle troppo intricato per essere ridotto a mera estetica. Dopo il perdersi e ritrovarsi dell'album precedente, una via d'uscita sembra adesso quanto mai necessaria.

Contributo di Raffaello Russo ("The Way Out")

Books

Discografia

Thought For Food (Tomlab, 2002)

7,5

The Lemon Of Pink (Tomlab, 2003)

8

Lost And Safe (Tomlab, 2005)

6,5

The Way Out (Temporary Residence, 2010)
Pietra miliare
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