La tendenza al rallentamento e alle frammentazioni sonore, che ha portato a individuare nella prima metà degli anni 90 l’origine di una nuova declinazione compositiva applicata al “rock”, non ha prodotto quali uniche eredità quelle – importantissime – generalmente classificate nel post-rock a base chitarristica e nello slow-core ma, più o meno in parallelo ai primi passi di quest’ultimo, è stata applicata anche ad ambiti cantautorali a prevalenza acustica, prossimi a richiami latamente folk, ma non per questo alieni dall’esplorazione sonora. Gli albori dell’etichetta Jagjaguwar presentano alcuni ottimi e misconosciuti esempi legati a tale impostazione, riscontrabile nell’unica opera dei South e in quelle del loro mentore Patrick Phelan, nonché nei quattro album di delicato folk elettro-acustico “da camera”, fatti uscire tra il 1996 e il 2000 dai Drunk.
È proprio dall’esperienza dei Drunk che traggono origine gli Spokane, all’inizio non esattamente una vera e propria band dalla line-up definita, quanto invece un progetto artistico gravitante intorno alla figura di Rick Alverson, già cantante e chitarrista dei Drunk, e aperto a collaborazioni di tanti musicisti legati alla “scena” e all’etichetta di comune appartenenza. Accanto al cantautore originario di Richmond, si affaccia poi la voce sottile di Courtney Bowles – già presente nell’ultimo album dei Drunk, “Tableside Manners” – che in seguito costituirà il nucleo fondamentale e costante della band, non solo incrementando la sua presenza vocale, ma fornendo altresì un importante contributo alle ritmiche.
Il primo album degli Spokane è in realtà una mini-raccolta di materiale sparso, come testimonia il suo stesso titolo: Leisure And Other Songs (otto brani per meno di mezz’ora di durata) viene registrato e vede la luce quasi in parallelo con l’ultima opera dei Drunk, rispetto alla quale non vi sono sostanziali differenze, poiché essa già vedeva l’esperienza di quella band declinare verso i territori di soffice minimalismo, ulteriormente sviluppati dalla nuova formazione. Sono ben otto gli artisti che partecipano alla realizzazione dell’album; oltre alla presenza, ancora molto timida, della Bowles, a dare forma sapientemente indefinita alle composizioni di Alverson, vi sono, tra gli altri, Patrick Phelan (piano, chitarre, basso) e Via Nuon (Bevel) alla chitarra elettrica, anch’egli collaboratore di Alverson già ai tempi dei Drunk.
I contorni dei semplici brani di Leisure And Other Songs sono sempre sfumati, il cantato dimesso e quasi distaccato, mentre esili melodie, disegnate in prevalenza dalla chitarra acustica e dal pianoforte, delineano un cantautorato intimo, che rinvia all’asciutto lirismo di Mark Kozelek, tuttavia applicato alla narrazione di storie di ordinaria quotidianità provenienti da una sonnacchiosa America di provincia, che affiora in musica attraverso le note nostalgiche del violino, del pianoforte e finanche del vibrafono. Non è, infatti, l’America delle radici folk-country quella cui si rifà Alverson, né quella del sofferto spleen dei classici cantautori, quanto piuttosto quella della contemplazione di grandi spazi desolati e immobili, la cui colonna sonora non può essere che quella di una piccola “banda da camera” dai movimenti precisi e indolenti. Più o meno a tale immagine venivano del resto accostati i Drunk, e anche in questo il debutto discografico degli Spokane non se ne discosta in maniera notevole, nonostante la lieve grazia apportata dal pianoforte e dalla chitarra di Phelan e i richiami quasi espliciti ai primi Low, percepibili in brani quali “Dark Eyes” e “The Making Of Americans”. Inoltre, benché l’incedere complessivo dei brani permanga generalmente morbido e sonnolento, la lentezza non è ancora elevata a paradigma espressivo, poiché in Leisure And Other Songs sono presenti anche composizioni più varie e articolate, quali “By The Bend” e “Automaton”.
Quello che però questa raccolta, in parte disorganica, riesce da subito a chiarire è la poetica perseguita da Alverson e l’immaginario che la ispira, esemplificato dalle ultime strofe del brano iniziale, “Barge”: “I spent the afternoon in no certain way, staring at a barge out on the bay. It barely moved, but the sound of horse’s hooves echoed through the day….”.
L’ampiezza di collaboratori e la genesi non omogenea del primo lavoro lasciava presagire gli Spokane quale un progetto estemporaneo e probabilmente non destinato a vita autonoma; così invece non sarà, poiché ben presto, sciolti definitivamente i Drunk, la nuova band si assesta in un trio (Alverson, la Bowles e Karl Runge al violino e violoncello), che necessita appena del supporto occasionale di una chitarra elettrica e, in questa formazione-base, nel breve lasso di un paio di mesi, all’inizio del 2001 realizza un Ep e un album. Il primo, Close Quarters, uscito per la serie di mini-album della spagnola Acuarela, vede ampliarsi notevolmente l’apporto alla band di Courtney Bowles, adesso impegnata alle ritmiche e al glockenspiel e presente con maggiore decisione alla voce, ormai costantemente intrecciata a quella di Alverson. Nei cinque brani contenuti nell’Ep, la band accentua e affina la propensione verso melodie lente e minimali, ma dall’immediato impatto emotivo; non mancano, tuttavia, passaggi sorprendenti, come una cover dei Bauhaus “All We Ever Wanted Was Everything” – nella quale il brano viene tradotto in una veste eterea e idilliaca, interrotta da flebili distorsioni chitarristiche – e soprattutto “Good Fortune”, piccolo gioiello costituito soltanto da ritmiche sfumate, delicati tocchi di glockenspiel e archi da brivido.
Il coevo album The Proud Graduates parte dai medesimi presupposti e si attesta all’incirca sulle stesse caratteristiche, pur presentando rimarcabili differenze tra le sue due parti. Nella prima, è la melodia a prendere il sopravvento in delicatissimi cammei poco più che sussurrati (come nel caso della title track) nei quali le note della chitarra si diradano ed è il violino a entrare sempre più spesso a conferire ritmo e movimento a brani più lunghi e articolati che in passato, nei quali la fisionomia compositiva di Alverson risulta più decisa e delineata, dimostrandosi in grado di cimentarsi con registri espressivi dalle diverse sfaccettature, ancorché definiti dai medesimi connotati di fondo. Prova ne è l’utilizzo di field recordings di voci lontane nel delicato strumentale “Other Rooms”, così come il romanticismo bucolico della splendida “The Absentee”, brano sorprendentemente up tempo, ove timidi inserti elettrici, uniti a violino e glockenspiel, sembrano quasi accostarsi alla declinazione, in una leggiadra chiave folk-pop, del post-rock orchestrale di matrice canadese.
La notevole frequenza delle uscite degli Spokane viene mantenuta, a nemmeno un anno di distanza da The Proud Graduates, con Able Bodies, album composto di soli sette brani e ancora una volta dalla durata di circa mezz’ora, alla cui produzione e registrazione partecipa Daniel Burton degli Early Day Miners. E, se già nelle opere precedenti, poteva azzardarsi un parallelo tra i due progetti artistici, individuando negli Spokane una sorta di declinazione in chiave prevalentemente acustica dei paesaggi sonori della band dell’Indiana, in Able Bodies l’affinità sonora si rafforza in maniera sensibile, grazie alla supervisione di Burton, ma anche al contributo in sede di esecuzione, al violino e al violoncello, di Maggie Polk e Molly Kien, entrate a far parte in pianta stabile degli Early Day Miners in occasione del loro coevo, splendido “Let Us Garlands Bring”.
Frutto della collaborazione sono arpeggi acustici meglio definiti e soprattutto ritmiche più pronunciate fin quasi a lambire connotati post-rock in “On The Stair”, la cui immancabile lentezza sfocia in un finale quasi ambientale, tra suoni e dilatazioni spettrali, altresì presenti nella breve title track. All’ormai consolidato songwriting di Alverson, che dà forma a composizioni sempre più dimesse e scheletriche, si affiancano in quest’album arrangiamenti dai lontani contorni folk e spesso impreziositi dal romanticismo degli archi delle due preziose “ospiti”, ora delicato contorno al lieve dialogo tra le voci (nella sorprendentemente solare “In Houses”), ora impegnati in accenni di post-rock orchestrale in chiave acustica (“Quiet Normal Life”), ora infine lasciati protagonisti nella chiusura “da camera” della conclusiva “The Made Bed”.
Nonostante le collaborazioni e i tanti riferimenti, spesso lasciati soltanto appena accennati, Able Bodies non segna una modifica sostanziale nel percorso della band, dedita alla creazione di bozzetti sonori sempre più lenti e curati, sui quali, tuttavia, l’innesto di elementi ulteriori produce un effetto positivo soprattutto dal punto di vista formale ma riesce solo in parte a conferire valore aggiunto alle composizioni di Alverson.
Da Able Bodies trascorre ancora una volta poco più di un anno perché gli Spokane si ripresentino con un nuovo album e una formazione ormai assestata in un trio, nel quale Rick e Courtney vengono adesso affiancati dal bassista Robert Donne, già attivo in alcuni lavori dei Labradford, nonché nel progetto Aix En Klemm.
L’ingresso in pianta stabile di Donne nella band segna una piccola svolta nella lenta evoluzione nel suo suono, cui aggiunge arrangiamenti e lentezze armoniche, filtrate con discrezione dal synth. In Measurement, tuttavia, alla novità dell’apporto di ambientazioni sonore astratte e dilatate, corrisponde anche il totale ripiegamento su se stesso del songwriting di Rick Alverson, adesso interamente proteso verso un isolazionismo tanto sonoro quanto poetico, nel quale non sono quasi più ravvisabili le timide aperture verso l’esterno di brani quali “The Absentee” o “In Houses”. Se si eccettuano, infatti, le melodie appena più definite di “Caution”, Measurement appare come il risultato della ricerca di un “grado zero” della lentezza e del minimalismo espressivo, nel quale i temi ricorrenti del trascorrere del tempo e dell’inevitabile caducità del reale trovano svolgimento in canzoni scheletriche, spesso costituite da pochissime note adagiate su flutti ambientali e frequenze elettronicamente disturbate, che pure non giungono quasi mai a “sporcare” le esili trame armoniche disegnate da voci sempre più eteree ed evanescenti, ma fanno con esse corpo unico (“Protocol”, “Cities”).
Tra paesaggi incantati al rallentatore (“Addition”), ritmiche quasi impercettibili e sinistre descrizioni ambientali (“An Ideal History”, il finale di “Protocol”), Measurement è da considerarsi la vera e propria sublimazione del mood dimesso e dell’attitudine compositiva di Rick Alverson, sempre più distante dalle proprie remote origini folk e sempre più proteso verso una forma di peculiare ambient-core, che al comune denominatore della lentezza, unisce songwriting introverso e astrattezze in bilico tra strumentazione acustica ed elettronica.
A questo piccolo capolavoro di grazia indolente e trasognata, segue un’inusuale e prolungato iato nelle produzioni degli Spokane: quasi quattro anni, nel corso dei quali avverrà ben poco, se non lo sviluppo del progetto solista ambient-elettronico di Donne, a nome Cristal, e il cimentarsi di Alverson con altro genere di lentezza, attraverso la collaborazione coni Gregor Samsa, nell’album “55:12”.
Il successivo, quinto album della band, Little Hours, prosegue e – se possibile – accentua la parsimonia sonora e la cupezza del mood dell’opera precedente. Si tratta, infatti, di un lavoro quasi completamente incentrato sulle sospensioni temporali, sulla dilatazione estrema degli interstizi tra una nota e l’altra, sulla paziente distillazione dei suoni, resa ancora più solenne dalla presenza quasi costante del pianoforte, vero protagonista dell’album, attraverso scarne armonie di sole due o tre note, oppure suoni sparsi, che costituiscono lo scheletro sul quale si sostengono le melodie incantate accennate dalle voci, sempre più eteree ed astratte, di Rick Alverson e Courtney Bowles. Ad eccezione dei due spettrali passaggi ambientali di “Building” e “Addendum”, tutti gli altri brani compresi in Little Hours sono vere e proprie “canzoni”, costruite con una parsimonia di elementi davvero stupefacente, particolarmente evidente in “Middle School” e “Tell Me”, ove è il solo pianoforte a supportare la lentezza catatonica del cantato.
Partendo da tale essenzialità di elementi, gli Spokane riescono tuttavia a spaziare dall’”envirromental music” al classicismo pianistico, da lontane reminiscenze slow-core a timide manipolazioni ambient-elettroniche, fino a sobri arrangiamenti “da camera”.
Tratti comuni a tutte queste diverse espressioni, restano tuttavia l’omogenea patina di visionaria lentezza che connota il songwriting di Alverson, caratteristiche che toccano il culmine, formalmente perfetto ed emotivamente toccante, nei pochi secondi di quasi assoluto silenzio che costituiscono la chiave di volta di quella meraviglia di understatement dal titolo “Thankless Marriage”, ove astrattezza e iterazione dei suoni fanno tutt’uno con delicate melodie vocali, esili tratti armonici e arrangiamenti d’archi.
Cupo, lentissimo, contemplativo, a tratti straniante, Little Hours esige attenzione e pazienza per essere apprezzato ancora più degli album che lo hanno preceduto: in esso gli Spokane accentuano l’essenzialità della loro impronta espressiva, riuscendo quasi a creare una disorientante attesa per ogni singola nota, così da sottolineare la preziosa cura dei pochi elementi sui quali è incentrata la loro musica.
Leisure And Other Songs (Jagjaguwar, 2000) | 6,5 | |
Close Quarters Ep (Acuarela, 2001) | 7 | |
The Proud Graduates (Jagjaguwar, 2001) | 7,5 | |
Able Bodies (Jagjaguwar, 2002) | 7 | |
Measurement (Jagjaguwar, 2003) | 8 | |
Little Hours (Jagjaguwar, 2007) | 8 |
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