Early Day Miners - Cortometraggi dal sottosuolo

Nati nel 1998 per iniziativa di due componenti degli Ativin, gli Early Day Miners sono una “cooperativa musicale”, che nel corso degli anni ha trasfuso la sua originaria sensibilità “indie” nel recupero della tradizione cantautorale americana e nel parallelo sviluppo di avvolgenti soluzioni di derivazione slowcore e post-rock

di Raffaello Russo

Gli Early Day Miners nascono alla fine degli anni 90 a Bloomington, Indiana da una costola degli Ativin, band che già dalla metà di quel decennio aveva dato luogo a una singolare combinazione tra le febbrili strutture noise degli Shellac e le molteplici sfaccettature post-rock ereditate dall’esperienza di Louisville, dai Rodan ai Rachel’s.

Sono il chitarrista Daniel Burton e il batterista Rory Leitch — che però abbandonerà in seguito entrambe le band — a dar vita a questo che fin dall’inizio è stato inteso come un progetto parallelo e non alternativo al gruppo d’origine; infatti, non solo gli Ativin hanno continuato la loro attività (“Night Mute”, al momento loro ultimo album, è del 2004), ma lo stesso Burton ha affermato come il suo contemporaneo impegno in due gruppi discenda dalla necessità di sviluppare, in differenti contesti artistici, diversi aspetti della sua fervida creatività musicale. Così, mentre gli Ativin hanno mantenuto un approccio in prevalenza dedicato a destrutturazioni rumoriste, ancora caratterizzato dalla centralità delle chitarre, gli Early Day Miners si sono fin dall’inizio contraddistinti per l’accurata ricerca di sonorità elaborate che, pur derivanti da un retroterra non dissimile, prediligono sfumature delicate e avvolgenti, dalle spiccate attitudini cinematografiche, ma non aliene da asperità di pronto impatto emotivo, più facilmente accostabili a trasognate costruzioni post-rock che non a cervellotici retaggi del passato noise.

Splendida dimostrazione delle coordinate musicali della band si ha già nella sua prima opera, Placer Found, album uscito nel 2000 dopo ben due anni di elaborazione, che fin dal suo artwork desolato ed essenziale (l’immagine in bianco e nero di un solitario casolare ripreso in lontananza) palesa, anche sotto il profilo formale, l’evoluzione rappresentata dagli Early Day Miners nell’iter artistico di Daniel Burton, autentico motore nonché mente ispiratrice della band.

I sette brani compresi in Placer Found si muovono tra paesaggi sonori dai contorni volutamente sfuocati, delineati da un mood intimista che si estrinseca in composizioni dai tratti gentili e dai ritmi lentamente cadenzati, che fanno individuare quali preponderanti matrici artistiche della band le tracce elettriche dei Codeine e l’ovattata malinconia dei Red House Painters. Ma in Placer Found vi è molto di più: trame rallentate dagli angoli smussati, sulle quali la voce di Burton, soffusa e a volte appena sussurrata (“East Berlin At Night”, “Stanwix”) accenna melodie dai contorni intimisti (“Placer Found”), atmosfere dilatate e avvolgenti, come quelle di Talk Talk o Labradford a far da sfondo a descrizioni atmosferiche (la nevicata di “East Berlin At Night”, l’oceano e i paesaggi di “Texas Cinema”) dalle quali solo a tratti emerge la stemperata robustezza di chitarre in crescendo quasi impercettibili, oppure in lente esplosioni dallo sfuggente sapore post-rock, come avviene nel finale di “Texas Cinema” e soprattutto nella lunga torsione elettrica di “Desert Cantos”.
Se proprio si deve inserire il debutto degli Early Day Miners in una corrente artistica o attribuirvi una definizione, quella di slowcore potrebbe essere la più adeguata, poiché Placer Found, pur partendo da un’impostazione di base non distante da quella di Codeine e Low, ne arricchisce la proposta non solo riprendendone la struttura, ma aggiungendovi altresì una sensibilità peculiare, rivolta tanto al recupero di forme più tradizionali (l’intimismo cantautorale di molti dei brani e le delicatezze folk del lungo strumentale “In These Hills”), quanto allo sviluppo di componenti sognanti, di incredibile levità, persino nei non molti passaggi relativamente più aspri del lavoro.

L’attitudine cinematografica della band, evidentissima in quasi tutti i brani dell’album di debutto, trova ben presto modo di esplicarsi in una vera e propria colonna sonora, elaborata congiuntamente agli Unwed Sailor per Stateless, cortometraggio di Chris Bennett, regista e fotografo già responsabile delle immagini dell’artwork di Placer Found. I cinque brani di Stateless — uno solo dei quali cantato e provvisto di strutture ritmiche ben delineate — confermano tutte le suggestioni dell’album di debutto, accentuandone anzi le caratteristiche più astratte e descrittive, inquietanti ed eteree allo stesso tempo, nella loro veste di invariato accompagnamento alle immagini comprese nel cd.

Stateless è però solo una breve parentesi, poiché in parallelo ad esso gli Early Day Miners confezionano l’autentico seguito di Placer Found, che segna altresì il loro passaggio alla concittadina etichetta Secretly Canadian, che ne pubblicherà anche tutte le opere successive. Let Us Garlands Bring è un lavoro che fa a gara con il suo predecessore per evocatività e intensità emotiva, dando corpo e definizione a quel suono affascinante ma nell’album di esordio ancora sfuggente. Innanzitutto, per la realizzazione di quest’album la band si allarga al violoncello di Molly Kien e al violino di Maggie Polk, la cui presenza conferisce soave grazia agli arrangiamenti di alcuni degli otto brani compresi nell’ora abbondante di musica che vede la band riproporre e sviluppare quanto già ottimamente espresso in Placer Found. Le melodie restano soffici, il suono diventa ancor più omogeneo, mentre le chitarre tracciano in maniera concreta i contorni di “canzoni” sempre meglio definite, guidate ancora dal dolce sussurrare di Burton e spesso impreziosite dagli archi, come nell’iniziale “Centralia”, nella delicatissima “Light In August” e nei diciassette minuti della conclusiva “A Common Wealth”, perennemente in bilico tra atmosfere spettrali e sognanti fascinazioni che fanno pensare addirittura agli abbracci armonici sinuosi degli Slowdive o a quelli più misteriosi dei Sigur Rós.

L’anima cinematografica degli Early Day Miners si compenetra qui perfettamente con la loro attitudine a un lavorio strumentale più canonicamente “rock”, dando luogo sia a pregevoli intrecci armonici che, grazie al contributo degli archi, manifestano tentazioni di moderna orchestralità alla Rachel’s (“Autumn Wake”), sia a vere e proprie canzoni, scheletriche e lineari come nel caso di “Silvergate” — ove la dilatazione ambientale di fondo si tramuta in distorsione lontana sulla quale le voci costruiscono leggiadre melodie — oppure dalla pronunciata complessità elettrica, come “Santa Carolina” e “Offshore”. È soprattutto in brani come questi che gli Early Day Miners giocano in maniera sapiente ad alternare i diversi momenti della loro musica, non semplicemente giustapponendoli secondo un canovaccio prevedibile, ma inseguendo profondi flussi emotivi, che trovano la loro perfetta consacrazione negli otto minuti densi di drammatica nostalgia di “Offshore”, brano introdotto dal suono dell’armonica e pervaso da una progressiva stratificazione delle chitarre, che poi si scatenano nella tempesta marina di “white heat and mystery” e nel vortice rumoristico di un finale sofferto, potenzialmente infinito e tale da lasciare semplicemente senza fiato.

Non era compito facile dar seguito a un debutto di qualità molto elevata e già di per sé ricchissimo di spunti, ma con Let Us Garlands Bring la band di Daniel Burton riesce addirittura a migliorarsi, aggiungendo pathos e cuore vibrante alla lentezza trasognata della sua musica e regalando passaggi di intensità straordinaria, che da soli basterebbero a racchiudere l’essenza e il significato di un’intera esperienza artistica.

L’attitudine a ricomporre i paesaggi dilatati dell’esordio in forma solidamente elettrica si accentua ancora nel successivo Jefferson At Rest che, uscito a pochi mesi di distanza da Let Us Garlands Bring, rappresenta il lavoro più schiettamente “rock” della band, la cui impronta eterea si traduce qui spesso in muri di chitarre imponenti e trame strumentali asciutte, sempre pregevoli ma generalmente prive della passionalità capace di rendere Let Us Garlands Bring un album irripetibile. Non mancano anche qui ballate morbide, come “New Holland”, nella quale la delicata voce di Erin Houchin dialoga con quella di Burton, o “Jefferson”, immaginaria intervista allo storico presidente statunitense Thomas Jefferson, costruita su intrecci strumentali complessi, ora quieti ora impetuosi, ma sempre in maniera controllata. Rispetto ai due album precedenti, Jefferson At Rest perde un po’ in immediatezza e spontaneità quello che invece acquista in sapiente elaborazione compositiva: le chitarre prendono decisamente il sopravvento, i loro crescendo, adesso alquanto energici, diventano il fulcro di un lavoro dall’impianto relativamente “classico”, il cui impatto robusto riesce a essere appena temperato da una suadente nostalgia di fondo. Meno significative, di conseguenza, risultano qui le componenti sognanti del suono degli Early Day Miners, incarnate quasi soltanto dal violino di Maggie Polk in “McCalla” e dall’eterea lentezza della conclusiva, splendida, “Cotillion”.

Il periodo di fervente attività discografica della band (due album e un Ep nel volgere di poco più di un anno) prosegue poi in senso quasi del tutto opposto a quello di Jefferson At Rest, con i sei brani pubblicati per la serie di Ep dell’etichetta spagnola Acuarela Discos. The Sonograph Ep racchiude, infatti, una mezz’ora scarsa di composizioni dai tratti impalpabli, equamente divise tra morbide ballate e strumentali catatonici che, anche quando partono con più corposi suoni chitarristici, come nella conclusiva “Misrach”, culminano in dilatazioni dai tratti quasi ambientali. Ancora una volta, però, la band dimostra maggiore naturalezza nelle esili melodie di brani densi di vellutata nostalgia come “Albatross” e “Bedroom, Houston”, e nei dilatati accenni acustici dell’ovattata “Perish Room”.

Dopo due anni di pausa nelle loro uscite, coincisi con un lungo tour e con il ritorno discografico degli Ativin, il successivo All Harm Ends Here tende a richiamare piuttosto le suggestioni dell'esordio Placer Found, che non la trama più grezza e diretta di Jefferson At Rest, anche se il suo approccio ("Errance") sembra fatto apposta per conseguire l’effetto di confermare da subito l'impronta già caratteristica del gruppo, spiazzando allo stesso tempo l'ascoltatore, col racchiudere tutti gli aspetti dell'estrosa scrittura di Burton. Il brano presenta un impatto d'effetto, creato dall'intreccio tra tensione chitarristica e nette cadenze ritmiche, che ben presto si scioglie nel fluire di una lieve ballata romantica, salvo poi tornare ad alternare tali momenti nel corso dei suoi (soli) quattro minuti e mezzo, prima di finire in crescendo con la stessa tensione con la quale si era aperto.

Tale complessità compositiva, unita alla continua altalena di emozioni, descrive alla perfezione sensazioni di dolce malinconia, attraverso le quali — alternativamente o congiuntamente — traspaiono la tensione claustrofobica e il sereno smarrimento dei grandi spazi, si scorgono desolati paesaggi in bianco e nero e acquarelli dai colori tenui, si percepisce un profondo calore umano e l'impeto di un'anima in tumulto. Nel conciliare tali opposti, gli Early Day Miners confermano intatta la loro ispirazione nelle composizioni nelle quali più accentuato è il carattere umbratile della loro musica, come dimostra l'ipnotica malinconia di "The Purest Red" o il placido romanticismo della lenta "The Way We Live Now", che riesce a trasfondere in compiuta forma-canzone suggestioni riecheggianti le migliori produzioni di classica contemporanea.

Non mancano, però anche qui episodi "tirati", come le serrate cavalcate chitarristiche di "Precious Blood" e soprattutto di "All Harm", brano dall'elevata tensione e dall'incedere drammatico. Ma pure in queste tracce le reminiscenze slintiane vengono riviste al rallentatore e stemperate da un'attitudine lirica mai del tutto assente, vero filo conduttore di un suono che predilige un'andatura regolare rispetto a quella "a strappi", propria di tanti meno ispirati epigoni degli Slint.

Il sempre meticoloso songwriting di Burton dimostra poi addirittura un'originale sensibilità "pop" d'autore, capace di esprimersi sia nella solarità di "Comfort/Guilt", sia nel sommesso chiaroscuro di "The Union Trade", che, insieme alla splendida malinconia di "Townes", rispecchia perfettamente l'essenza del suono della band, dimostrandone la non comune capacità di travalicare schemi e definizioni, amalgamando in maniera equilibrata recupero della tradizione ed esplorazione di soluzioni maggiormente sperimentali.

A poco più di un anno di distanza da All Harm Ends Here, Burton e soci azionano all’indietro l’ideale macchina del tempo della loro musica, rivisitando in Offshore brani originariamente composti nel 2001 e compresi in Let Us Garlands Bring.

Fin dall'approccio del lavoro, costituito dai nove minuti di "Land Of Pale Saints", è di nuovo evidente un pronunciato impeto rumorista, tra una massiccia cascata di chitarre roboanti e una sezione ritmica nervosa e incalzante, che solo nella parte centrale del brano accenna a diradarsi, pur mantenendo una tensione claustrofobica, che non trova esito liberatorio in una prevedibile esplosione, ripiegandosi invece su se stessa in un etereo trait d'union con la sinistra ballata di folk elettrico "Deserter". L'unitario percorso dell'album prosegue senza soluzione di continuità in "Sans Revival", nella quale si manifesta con evidenza la predilezione di Burton per suoni wave anni 90, legati soprattutto alle etichette Creation e 4AD, capaci di dissolvere copiosi feedback chitarristici in astrattezze sottilmente psichedeliche.

L’autentica ragion d'essere del lavoro risiede però tutta nella sequenza "Return Of The Native"-"Silent Tents", che ripropone, su due tracce distinte, i due momenti della meravigliosa "Offshore" (appunto...) di Let Us Garlands Bring: di quel brano, "Return Of The Native" riproduce la parte cantata, qui affidata alla voce setosa ma un po' troppo sofisticata di Amber Webber (Black Mountain), mentre "Silent Tents" costituisce l'emotivo crescendo, ora smorzato in una dilatazione estrema, non ancora priva di fascino ma carente dell'intensità dell'originale, forse anche a causa della produzione e del missaggio curato, come per tutto l'album, da John McEntire. La medesima considerazione vale anche per la conclusiva "Hymn Beneath The Palisades", che rivisita di nuovo e in forma unitaria "Offshore", questa volta nella sola veste strumentale, conservandone gli spasmi e il crescendo post-rock, seppure attutiti e arrotondati, elegantemente tradotti secondo un'accuratezza che finisce però per affievolirne l'originaria spontaneità.

Offshore, più che un album vero e proprio, sembra un esercizio di stile, certamente fedele allo sviluppo nel frattempo intercorso nel suono della band che, abbandonate le originarie aderenze post-rock, è ormai orientata verso la ricerca di una forma musicale astratta e concettualmente ambientale, cui resta fedele persino quando le strutture armoniche dei brani sembrano andare nella direzione opposta. Ma del resto, conciliare forma e sostanza, tradizione e innovazione è uno dei principali intenti alla base della musica degli Early Day Miners, che riescono a raggiungerlo, anche quando, come in questo caso, è proprio l'eccelsa qualità delle vecchie composizioni a enfatizzare il minor coinvolgimento conseguito a livello formale dalla progressiva trasformazione di un’espressione artistica sempre densa di fascino.

I tre anni che intercorrono tra questo lavoro e il successivo The Treatment tracciano nella storia artistica degli Early Day Miners un solco ben più profondo di quanto avrebbe potuto fare il solo trascorrere del tempo.
Lo si evince da una pluralità di elementi, tanto sostanziali quanto esteriori: già questi ultimi sono sufficientemente emblematici, a partire dal modo di presentarsi della band, che prende il vezzo di farsi ritrarre vestita di tutto punto: è un po' come se i minatori avessero abbandonato le loro camicie a quadri in favore di abiti eleganti e le barbe e i capelli arruffati per acconciature più ordinate.
L'estetica è fedele metafora delle trasformazioni nello stile e nella stessa struttura della band, che adesso, accanto al leader Dan Burton e al bassista Johnny Richardson, presenta le novità del secondo chitarrista John Dawson e del batterista Marty Sprowls, a completare un organico ridotto a quartetto e adesso impegnato in brani espliciti e diretti.

Con il suo pop-rock solare e vivace, The Treatment rappresenta un vero e proprio mutamento di registro, incarnato dal dissolvimento di lentezze e toccanti vortici elettrici attraverso chitarre languide e nervose e tastiere liquide, che sottolineano melodie dall'impatto immediato e un cantato reso etereo anche dai frequenti intrecci della voce di Burton con quella di Amber Webber.
Le abituali pennellate nostalgiche incontrano un più lieve spirito pop e il passo svelto di chitarre sferraglianti e linee di basso insistite; tuttavia, dal punto di vista della produzione del suono, la transizione appare compiuta a metà, poiché l'eccessiva enfasi posta su ritmiche sorde e monocordi e su tastiere dominanti finisce per depotenziare sensibilmente gli elementi di suggestione ancora presenti nella musica degli Early Day Miners. La band è ancora capace di regalare ballate godibili, ma sembra essersi ormai spostata da dense sensazioni atmosferiche al tepore assolato di freeway americane, da far scorrere veloci sotto le ruote, sulle ali di chitarre e tastiere dai ritmi mai così serrati.

In Night People, l'abbreviata ragione sociale (EDM) non sposta più di tanto la barra di navigazione di Burton e soci rispetto agli ultimi due dischi: linee elettriche spesse, ritmiche nervose, avvolgenti torsioni psych e un ormai consolidato piglio rock si ritrovano infatti lungo i solchi degli otto brani di "Night People". È il caso degli insistiti impulsi che guidano la non riuscitissima "Video/Stereo", dell'insistenza sulla batteria di "Temple Bar", delle cadenze quasi tribali del finale di "Open Bar", ma anche dell'ottima ballata "da highway" desertica "Terrestrial Rooms".
Qualche traccia del passato affiora qua e là nel corso del disco, a partire dalla fluida sensibilità melodica riscontrabile nell'iniziale "Hold Me Down", passando per "Milking The Moon", strumentale lungo e trasognato. La nostalgia si manifesta poi senza più remore soprattutto nella reinterpretazione di "How To Fall" (già pezzo "radiofonico" di The Treatment), ammantata di antichi sentori salmastri in grado di renderla uno dei pochi brani recenti degli Early Day Miners in grado di avvicinarsi alle glorie del loro passato.

Certo, i tempi di Placer Found e Let Us Garlands Bring sono lontani, tuttavia "Night People" dimostra se non altro la volontà della band di Daniel Burton di rimettersi in gioco, di ricominciare una nuova esperienza, volta a unire sensibilità attuale, radici antiche e quel tratto di scrittura e ambientazioni sonore che da sempre ne ha costituito la più apprezzabile peculiarità.

L'obiettivo è ambizioso e la strada per raggiungerlo ancora molto lunga, ma la ritrovata vitalità della band merita di essere già salutata con ottimismo: benvenuti EDM!

Early Day Miners

Discografia

Placer Found (2000)7,5
Stateless (2002)6,5
Let Us Garlands Bring (2002)8
Jefferson At Rest (2003)6,5
The Sonograph Ep (2003)6,5
All Harm Ends Here (2005)7
Offshore (2006)6
The Treatment (2009)6
EDM
Night People (2011)6,5

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