Con "All Harm Ends Here", il gruppo guidato da Daniel Burton, parallelo agli Ativin, giunto alla quarta prova sulla lunga distanza, fornisce un'ulteriore conferma di un suono che si rinnova lentamente, pur presentando ormai propri tratti distintivi in quello sconfinato e disorientante ambito compreso tra accenti indie-rock, sperimentazioni "post" e tradizione cantautorale americana.
Come affermato dallo stesso Burton, durante il tour italiano dello scorso anno, gli Early Day Miners costituiscono un "luogo" ideale per l'esplorazione di territori affascinanti ove tracciare itinerari sonori nettamente distinti da quelli, più spiccatamente rumoristici, caratterizzanti soprattutto gli ultimi Ativin. "All Harm Ends Here" ribadisce infatti l'eccentrico parallelismo del gruppo (ora un quintetto arricchito da una sezione d'archi), rispetto agli altri progetti di alcuni suoi membri, in nove tracce sospese tra toni tenui e malinconici, dimensione filmica e controllati crescendo chitarristici.
All'ascolto, il lavoro richiama maggiormente le suggestioni dell'esordio "Placer Found", che non la trama, a tratti un po' più grezza e diretta, del precedente "Jefferson At Rest", anche se il suo approccio ("Errance") sembra fatto apposta per conseguire il duplice effetto di confermare da subito l'impronta già caratteristica del gruppo e di spiazzare allo stesso tempo l'ascoltatore, col racchiudere tutti gli aspetti dell'estrosa scrittura di Burton. Il brano presenta infatti un impatto d'effetto, creato dall'intreccio tra tensione chitarristica e nette cadenze ritmiche, che ben presto si scioglie nel fluire di una lieve ballata romantica, salvo poi tornare ad alternare tali momenti nel corso dei suoi (soli) quattro minuti e mezzo, per poi finire in crescendo con la stessa tensione con la quale si era aperto.
Tale complessità di toni, unita alla continua altalena di emozioni, presente anche in tutti gli altri lavori degli Early Day Miners, evoca molteplici riferimenti tra loro diversissimi - dai Codeine ai Red House Painters, dai Talk Talk ai Low - e rende di conseguenza quasi impossibile evitare l'utilizzo di ossimori nella descrizione della loro musica, non in quanto ricca di contraddizioni ma proprio perché la capacità e sensibilità del gruppo riescono a ricondurre ad unità elementi in apparenza difficilmente conciliabili, gettando ponti tra stili diversi e stati d'animo mutevoli. Così, dagli intensi episodi di "All Harm Ends Here" si evince la sensazione di una dolce e trasognata malinconia, di un grigiore policromo, di un'abbagliante penombra. In essi traspaiono - alternativamente o congiuntamente - la tensione claustrofobica e il sereno smarrimento dei grandi spazi, si scorgono desolati paesaggi in bianco e nero e acquarelli dai colori tenui, si percepisce un profondo calore umano e l'impeto di un'anima in tumulto.
Nel conciliare tali opposti, gli Early Day Miners, rendono senza dubbio al meglio - presentando il loro lato maggiormente creativo - nelle composizioni nelle quali più accentuato è il carattere intimista e umbratile della loro musica. Così, è piacevole perdersi nell'ipnotica malinconia di "The Purest Red" o farsi trasportare dal placido romanticismo della lenta e affascinante "The Way We Live Now" che, costruita sul dialogo tra archi e chitarra, trasfonde in un brano dalla compiuta forma-canzone suggestioni riecheggianti le migliori produzioni di classica contemporanea.
Non mancano, però, episodi "tirati" nei quali affiora carsicamente l'esperienza degli Ativin. È il caso della strumentale "Precious Blood" che, dopo un incipit dilatato, si snoda in una serrata cavalcata chitarristica, e soprattutto di "All Harm", brano dall'elevata tensione e dall'incedere drammatico. Ma pure in queste tracce le reminiscenze slintiane vengono riviste al rallentatore e stemperate da un'attitudine lirica mai del tutto assente, vero filo conduttore di un suono coeso e uniforme, che predilige un'andatura regolare rispetto a quella "a strappi", propria di tanti meno ispirati epigoni degli Slint.
Altrove, il sempre meticoloso songwriting di Burton dimostra un'originale sensibilità "pop" d'autore, capace di esprimersi sia nei toni solari di "Comfort/Guilt", sia in quelli sommessi dell'accattivante chiaroscuro di "The Union Trade", la cui pregevole e accurata elaborazione strumentale, come quella della malinconica e sospesa "Townes" (il brano meglio riuscito, insieme alla succitata "The Way We Live Now"), rispecchia perfettamente l'essenza dell'attuale suono della band e può a ragione considerarsi come summa ideale dell'intero album.
Nel complesso, il lavoro risulta comunque una sorta di unico flusso, nel quale la stessa sequenza dei brani pare accuratamente studiata per condurre l'ascoltatore attraverso paesaggi sonori dai toni che, dapprima vividi, vanno pian piano scolorandosi nel corso delle tracce, fino a raggiungere l'oscura e impalpabile quiete finale. "All Harm Ends Here" non aggiunge forse molto alla musica prodotta sin qui dagli Early Day Miners, ma ne conferma inalterato il fascino espresso soprattutto nei primi due dischi e la non comune capacità di travalicare schemi e definizioni, esplicantesi nella contestualizzazione dell'originaria sensibilità "indie", tanto nel recupero della tradizione quanto nell'esplorazione di soluzioni maggiormente sperimentali.