I giorni che non conosciamo – Introduzione alla “poezja śpiewana”
Non è semplice spiegare una figura come quella di Marek Grechuta. Oggi considerato uno dei più importanti artisti nella storia della nazione, è stato probabilmente il più popolare cantautore polacco. Soltanto Czesław Niemen può pareggiarne l’onnipresenza e l’influenza sulla cultura locale.
I suoi dischi storici rappresentano un unicum nel panorama musicale degli anni Settanta, ma per comprenderli appieno è necessario approfondirne il contesto, proprio in reazione-relazione al quale Grechuta ha sviluppato la sua personale visione artistica.
Quello che in molte nazioni viene semplicemente indicato come cantautorato, in Polonia ha generato una definizione peculiare, inizialmente nata come sinonimo, ma col tempo rivelatasi non del tutto sovrapponibile alla classica visione occidentale del termine. Quella della “poezja śpiewana”, ossia “poesia cantata”, è infatti una corrente che a oggi porta con sé dei contenuti ben precisi.
Un passo indietro mostrerà come in Polonia la poesia avesse assunto, soprattutto nel secondo dopoguerra, una funzione sociale via via sempre più importante, arrivando a influenzare fortemente la fascia della popolazione più informata e/o politicamente attiva. Un’ondata di grandi poeti (Tadeusz Różewicz, Zbigniew Herbert, Stanisław Barańczak, solo per dirne alcuni) portò quella forma di espressione a dilagare fino alla classe operaia. I reading delle poesie arrivarono a riempire le sale e i locali di mezza nazione.
Una diffusione così capillare, data dalla funzione aggregativa e dal potere di contestazione mediante metafora, portò come ovvia conseguenza la contaminazione del mondo musicale.
I primi artisti polacchi identificabili col movimento della poesia cantata furono Ewa Demarczyk e Wojciech Młynarski, intorno alla metà dei Sessanta. Se una librava la sua incredibile dizione su arrangiamenti che ripescavano dalla musica classica polacca, con il lavoro del compositore Zygmunt Konieczny e l’orchestra nazionale dietro le spalle, il secondo era invece supportato da un combo jazz. L’elemento comune era la teatralità, che in qualche modo li collegava alla scuola degli chansonnier. Demarczyk era impostata e solenne, Młynarski più improntato a un cabaret di classe, ma entrambi miravano a costruire un’estetica della narrazione che potesse muoversi su più livelli, sottolineando le parole con gesti e mimica. Ci volle poco affinché pure la musica risentisse di questa alterazione dei canoni. Fu con la poesia cantata che i ritornelli della musica polacca iniziarono a ribellarsi, assumendo strutture bizzarre o esecuzioni complesse, disturbati da giochi di voce, metriche fuori tempo e improvvisi stacchi strumentali.
Benché i due originatori fossero distanti fra loro, entrambi avrebbero esercitato un’enorme influenza sulla musica successiva, iniettandovi l’ambizione della classica da un lato e l’eversione del jazz dall’altro. I due elementi finirono presto con l’ibridarsi.
Marek Grechuta fu colui che sintetizzò la formula, proiettando quelle suggestioni sulla tradizione folk polacca allo scopo di modernizzarla, renderla intricata e strumentalmente elaborata. Tanto elaborata da sfociare con naturalezza nel
prog sin dal secondo album, pur senza rinunciare a mettere in mostra le proprie radici.
Evoluzione che non riguardò in vero solo Grechuta. Anche l’altro big della scena locale, Niemen, arrivò al prog in tempo reale (“Enigmatic” – uno dei più importanti album della musica europea – venne registrato nel 1969). Rispetto a Grechuta, però, Niemen non aveva la componente del bardo narratore, il suo modo di cantare era influenzato dal beat e dal soul, troppo distante dal cantautorato. Le loro posizioni e le loro funzioni erano diverse, tanto che oggi Grechuta è considerato il cantore della Polonia, mentre Niemen il padre del rock locale.
Sarebbe tuttavia errato ridurre l’universo creato da Grechuta a una semplice sfilata di poesie interpretate su uno sfondo che univa folk, jazz e classica. Artista inquieto e poco incline a ripetersi, almeno nei primi anni di carriera, Grechuta declinò quegli ingredienti nelle forme più svariate, generando più modelli di riferimento.
Nel suo repertorio ci sono le canzoni classiche, ci sono gli schizzi (che hanno la forma della canzone, ma ne esasperano o moncano alcune caratteristiche, fino a deformarla), ci sono i brani dilatati che ricorrono al virtuosismo strumentale. Mentre le prime due tipologie avrebbero posto le basi per i più grandi successi della poesia cantata, la terza vanta una funzione più sotterranea ma non meno fondamentale, dal momento che ha traghettato la passione per la musica colta e la raffinatezza strumentale nella scuola cantautorale polacca, arrivando a contagiare anche il pop e il rock. Una passione che ha attraversato i decenni arrivando fino ai giorni nostri, e che spiega come mai il tasso tecnico dei musicisti polacchi in diversi ambiti della musica popolare sia mediamente più alto di quello degli omologhi anglofoni.
È curioso, per esempio, come i cantautori polacchi classici non abbiano mai seguito lo schema voce-chitarra e meno che altrove quello voce-piano. Le canzoni sono spesso grondanti di strumenti – violino, fisarmonica, flauto, contrabbasso, percussioni, piccole e grandi orchestre – e non per creare un muro di suono, ma per intersecarli in maniera dinamica e vistosa.
Quello che andò più vicino a rompere i codici di Grechuta, il sovversivo Jacek Kaczmarski, si avvaleva comunque di un’eccellente tecnica chitarristica e dell’aiuto di un pianista jazz virtuoso quale Zbigniew Łapiński, così che, per quanto spoglie, le sue canzoni risultassero comunque complesse e ricercate.
Cenni biografici – I primi passi di un’icona
Marek Grechuta nasce il 10 dicembre 1945 a Zamość, cittadina della Polonia sudorientale, e passa l’infanzia nel villaggio di Chylice, di appena mille anime. Lì impara a suonare il pianoforte, sotto la supervisione dell’organista della parrocchia. Nel 1958 torna a Zamość per le scuole superiori, dove si distingue come studente modello. Cinque anni dopo si iscrive alla facoltà di architettura di Cracovia.
Per il ragazzo, abituato a realtà di provincia (se non addirittura rurali, considerata l’infanzia), è una svolta: il contatto con un circolo culturalmente ribollente come quello di Cracovia rappresenta una serie continua di stimoli. Lì conosce Jan Kanty Pawluśkiewicz, collega universitario che è in realtà molto più interessato all’arte che allo studio. Di tre anni più grande, Pawluśkiewicz affascina da subito Grechuta, sia in virtù delle sue qualità come musicista, capace di far volare le dita sul pianoforte, sia per la sua ambizione. Presto i due si ritrovano a guidare il gruppo cabarettistico Anawa, il cui nome – storpiatura dell’espressione francese “En avant” – è tutto un programma. Il progetto consiste nel recitare numeri scherzosi e intervallarli con canzoni di creazione propria, sia su testi inediti, sia musicando classici della poesia polacca.
Presto la componente musicale prende il sopravvento sugli sketch recitati e gli Anawa diventano una vera e propria band. Nel 1967 si fanno notare al festival studentesco di Cracovia e l’anno successivo vengono convocati direttamente a Opole, per il festival nazionale della canzone polacca.
Si presentano con “Serce”, composizione di Pawluśkiewicz con versi romantici del poeta e autore satirico Andrzej Nowicki (da non confondere con l’omonimo bassista post-punk).
È così che il grande pubblico conosce il volto e la voce di Grechuta, struggente, vellutata, evocativa, ma decisa nella sua declamazione, ben lungi dal piagnisteo. Il riscontro è favorevole e di lì a breve la radio nazionale di Varsavia apre le porte, permettendogli di registrare i primi brani.
La prima pubblicazione, un Ep di tre canzoni, è a nome Marek Grechuta & Anawa, per mettere in risalto l’elemento che più ha colpito il pubblico. Esce nella primavera del ’69, registrato da una formazione di sei elementi.
Al fianco dei due leader ci sono i violinisti Tadeusz Kożuch e Zbigniew Wodecki (quest’ultimo intraprenderà la carriera di cantautore qualche anno più tardi, con ottimi risultati), la violoncellista Anna Wójtowicz e il chitarrista Tadeusz Dziedzic.
“Serce” è una ballata che alterna parlato e parti cantate con trasporto, arricchendole con contrappunti vocali densi di eco. L’assenza di sezione ritmica non pesa, date le dinamiche create dagli archi, fra ostinati e giravolte danzanti.
Sul secondo lato del vinile trovano spazio due titoli altrettanto importanti.
Uno è “Niepewność”, componimento d’amore del poeta ottocentesco Adam Mickiewicz, musicato da Pawluśkiewicz che col suo pianoforte soave accompagna gli archi pizzicati, cercando di ricreare un’atmosfera da bei tempi andati, che si adatti il più possibile all’epoca in cui vennero scritti i versi. Ciliegina sulla torta le angeliche armonie vocali delle Alibabki, il più importante gruppo vocale polacco di ogni tempo, che collaboravano all’epoca con quasi tutti i nomi di peso della scena.
L’altro è “Tango Anawa”, primo testo originale di Grechuta, un colpo di genio che mostra come l’amalgama con Pawluśkiewicz sia immediato. Mentre un diabolico, dissonante ibrido fra jazz e tango sferraglia in sottofondo, Grechuta canta versi sì d’amore, ma minacciosi, criptici, densi di incognite: “Il teatro è strano, il teatro è unico. Dove sia il senso, dove sia la trama, lo sa il diavolo. Pianoforti e mandolini, nel folle tango di Anawa. Una donna mi dice: non è possibile. Una donna mi dice: non sono in grado. Una donna mi dice: non ci si crede. Una donna mi dice: è uno scherzo. Quello che è possibile è possibile, quello che si può fare si può fare, e quella donna non sa cosa provo, mentre canto il tango di Anawa”.
Marek Grechuta & Anawa (1970)
Alla fine del 1969 Wodecki abbandona, per entrare a far parte del gruppo che accompagna Ewa Demarczyk. Lo sostituisce Zbigniew Paleta, violinista altrettanto abile, che però verrà inizialmente intestato come semplice turnista. Subito parte ufficiale della band sarà invece il contrabbassista Jacek Ostaszewski, voluto da Grechuta per aumentare l’impatto sonoro dell’impianto.
Nel febbraio del ’70 la formazione entra in studio per mettere a punto l’album di debutto. Vengono registrate otto canzoni: cinque classici della poesia polacca, musicati a turno da Grechuta e Pawluśkiewicz, e tre testi inediti di Grechuta. Quest’ultimi sono oggi classici della canzone polacca, la cui fama attraversa ogni generazione.
“W dzikie wino zaplątani” punta il dito contro la routine della vita di coppia, utilizzando le piante parassitarie come metafora delle restrizioni che ne derivano. Se Grechuta è oggi così amato, è anche per la sua capacità di descrivere la quotidianità senza ipocrisie e, per quanto possibile in quello che all’epoca era un regime, senza peli sulla lingua. Anche quando in apparenza vincono l’amore e il romanticismo, dietro l’angolo in agguato si possono trovare noia, miseria, morbosità, indolenza, tutte condizioni descritte da Grechuta nel corso della carriera.
“Nel giardino dietro casa, una vita in fondo tranquilla, potresti essere la mia donna. Ma ho qualcosa da dire. Erbe selvatiche hanno avvolto il giardino, e siamo rimasti invischiati. Perché in giardino crescono dei rampicanti, il mondo si invischia nella vite americana. Perché in giardino c’è la vite americana, qualcuno ce l’ha piantata”.Gli Anawa cercano di rendere il concetto dei rampicanti con un arrangiamento intricatissimo, una frenetica progressione jazzata zeppa di rivoletti strumentali: stacchi pianistici mozartiani, improvvise accelerazioni d’archi, scarabocchi d’organo elettrico che vanno e vengono.
“Będziesz moją panią” è un esercizio di stile con cui Grechuta fa il verso ai poeti del romanticismo polacco. Inscena così un canto d’amore evocante l’Arcadia e tira dentro ogni sorta di blandizia dal sapore pastorale (“Suoneranno per te violini di tiglio, canteranno per te i sorbi, le foglie e tutti gli uccelli”, e via dicendo). Gli Anawa erigono un’altra bella girandola jazzata, mentre fa capolino la fisarmonica, a ricordare una parentela con la chanson che si affievolirà negli anni a seguire, anche se mai scomparendo del tutto.
Il capolavoro è probabilmente “Nie dokazuj”. Nuova vicenda di sospiri amorosi su marcetta pianistica e archi settecenteschi, viene narrata come una serie di eventi lontani nel tempo, in contesti lasciati costantemente indefiniti: “una città”, “uno spettacolo”, “una mostra”, come se l’autore non riuscisse a ricordare, o proprio non lo sapesse. In effetti non si capisce se siano cose che ha vissuto o se le abbia apprese oralmente, come vuole la tradizione del cantastorie. Con questo brano Grechuta veste i panni del grande bardo polacco e si ritaglia un posto fuori dal tempo.
“Ci fu una volta in una certa città del gran movimento. Era stato allestito uno spettacolo di inaudita bellezza. Tutti se lo gustavano, con un’eccezione. Una fanciulla in prima fila non si curava di nulla, nemmeno del fatto che il cantante cantasse solo per lei. E dopo che aveva perso il senno per lei, quella rideva e batteva le mani. Nel secondo atto il cantante cantò in modo più tranquillo, ma la fanciulla era ancora poco seria. Finché all’improvviso, nel bel mezzo dello spettacolo, non si sentirono le parole: ‘Non prenderti gioco di me, mia cara, non farlo, non ci sarà di nuovo un tale miracolo per te. Non subito, mia cara, certo non subito scioglierai il ghiaccio del mio cuore!’. Un’altra volta ero stato invitato a un vernissage, a una mostra a tarda sera in una cantina buia. Erano tele del maestro Jan o di Kanty? Non me lo ricordo… c’erano quadri enormi, tele colorate, schizzi suggestivi con fanciulle licenziose, una grande gioia che tuttavia era natura morta. Non prenderti gioco di me, mia cara, non farlo, non ci sarà di nuovo un tale miracolo per te…”.
Oltre a quelle registrate per l’occasione, in scaletta trovano spazio due canzoni dall’Ep del ’69, “Serce” e “Niepewność”, mentre “Tango Anawa” rimarrà fuori catalogo per decenni.
A livello strumentale Marek Grechuta & Anawa non vanta ancora le strutture “aperte” che gli intestatari avrebbero elaborato di lì a breve. I brani più lunghi sono “Piosenka”, un pur splendido quadro dal sapore gotico, e la stessa “Serce”, che si fermano poco sotto i cinque minuti. A ogni modo, la ricchezza delle orchestrazioni è già sorprendente, così come la qualità di esecuzione e registrazione (la produttrice è Zofia Gajewska, nome storico della scena locale, già al fianco di Niemen). Da qualsiasi parte del mondo possiate pescarli, non sono molti i dischi cantautoriali del 1970 a poter competere con questo per raffinatezza.
Le vendite inizialmente non furono enormi, così come neanche per i dischi successivi. Nessuno degli album in studio di Grechuta durante gli anni Settanta risulterà fra i dieci più venduti a fine anno, e ciò significa che in diretta si aggirarono tutti intorno alle 50mila copie. Eppure, a giudicare dalla sua fama attuale, si crederebbe che all’epoca dominasse. Non che fosse uno sconosciuto: oltre che a fare tappa fissa al festival nazionale di Opole, ha avuto speciali televisivi a lui dedicati con cadenza sin dal 1969, ancor prima del debutto su 33 giri. Però Niemen vendeva molto di più, e non solo lui.
Il tempo ha ribaltato la situazione e reso gradualmente Grechuta un eroe nazionale. In particolare, due eventi hanno dato una fortissima spinta alla crescita del suo mito. Il primo fu lo special televisivo del 1990, coincidente con la fine della dittatura e diventato oggetto di culto (ne verrà tratto il live Złote przeboje). L’altro è stato purtroppo la morte per insufficienza cardiaca, nel 2006, a soli sessant’anni. Oggi le canzoni dei suoi album con gli Anawa arrivano vantare decine di milioni di visite su YouTube, e i suoi dischi rientrano ciclicamente in classifica, addirittura fino al podio, a riprova di un potere iconico che non accenna a diminuire.
Korowód (1971)
Dopo il primo album la formazione viene rimaneggiata. L’estroso Marek Jackowski sostituisce Dziedzic alla chitarra, Paleta viene ufficializzato alla viola, e per la prima trova spazio un batterista, Eugeniusz Makówka (già nell’album di debutto si potevano udire sparuti interventi di batteria, ma erano suonati da turnisti).
Nell’aprile del ’71 il nuovo assetto entra in sala per registrare quello che a oggi rimane uno dei punti più alti della musica polacca. Solenne sin dal titolo (“Processione”), epico sin dalla copertina, con gli otto membri della formazione che marciano schierati orizzontalmente, mentre sopra di loro si scatena una tempesta di fulmini,
Korowód unisce varietà stilistica, sentimento e perfezione formale. Nonostante il peso dei testi, la sua musica è talmente intrigante, stratificata e sorprendente che il mito ha iniziato a scavalcare i confini della Polonia e, grazie al web, sta lentamente infettando gli appassionati di prog più ricettivi e curiosi, oltre ai nerd del folk e del cantautorato europeo. Del resto, non c’è motivo che questa musica non piaccia a chi ama
Brel e Serrat da un lato, o le formazioni del prog italiano facenti maggior uso di strumenti acustici dall’altro.
Korowód è in effetti un album quasi interamente acustico, ma tanta è la carne sul fuoco e l’energia sprigionata dagli arrangiamenti, che quasi ci si domanda a cosa serva attaccare la spina agli strumenti.
In apertura “Widzieć więcej”, un assolo di Jackowski, che a differenza del precedente chitarrista tiene a mostrare la propria presenza. Si destreggia così al brač – strumento a corda balcanico con sonorità orientaleggianti – sovrapponendone più linee e creando un serpente fatto di strappi, droni e flussi di note riflessi dall’eco. Ci si può trovare dentro il primitivismo dei chitarristi
fingerpicking americani così come il misticismo della musica tradizionale anatolica, mentre il sentore arcano e soffocante sembra in qualche modo anticipare le istanze di certo post-punk sperimentale (dai
Virgin Prunes ai Durutti Column). Non a caso Jackowski una decina d’anni più tardi si sarebbe ritrovato alla guida dei Maanam, una delle quattro band storiche della
new wave polacca.
“Kantata” è una poesia di Jan Zych, spietato disegno delle dure condizioni di vita durante il regime sovietico: “Ho sognato uccelli senza cielo, ho sognato cavalli senza terra. Qui non c’è altra stagione che non sia l’inverno. Qui c’è posto per un labirinto e per un macigno sulla testa. Un muro straniero confina con un altro muro straniero. Su uno stelo in giardino appassisce un fiore di lino del cielo…”.
Pawluśkiewicz la adatta disintegrando gli stereotipi della forma-canzone: introduzione di dissonanze, strofe per aggressivi ostinati d’archi, e al posto dei ritornelli due diversi passaggi per piano, accomunati solo da un’aria di rassegnata serenità.
Dopo aver lasciato ampio spazio decisionale ai colleghi, Grechuta sale in cattedra con “Chodźmy”, cento secondi di marcetta pianistica col contrabbasso che bofonchia imitando una tuba. Travolgente, quasi straniante il contrasto fra l’aria burlesca della musica e quella seria del testo, inno alla speranza: “Raccogli tutte le tue idee, raccogli il tuo briciolo di fortuna. Lì, dove è tutto ancora per te, aspetta il giorno, arriverà di nuovo. Andiamo lì a cercare il nostro giorno, la notte fugge, la luce ci chiama”.
Ballata corale in epico crescendo, “Świecie nasz” è una sorta di preghiera agnostica. “Mondo nostro, dacci molti giorni luminosi. Dacci l’attesa di un giorno luminoso. Dacci di come spegnere il fuoco del male. Dacci la gioia che cerchiamo. Dacci la fiamma, l’acciaio e il suono. Facci aprire tutti i più pesanti cancelli. Facci superare ogni difficoltà. Dacci la gioia dello splendore e del cambiamento. Dacci l’ombra dell’erba alta. Facci perdere nel fruscio in mezzo agli alberi”. È incredibile come un brano che implicava la miseria del presente e auspicava un cambio di direzione, sia riuscito all’epoca a sfuggire alle maglie della censura. Il potere della poesia a volte riesce anche in questo.
Chiude il primo lato “Nowy radosny dzień” (“Un nuovo giorno di gioia”), strumentale che sembra la versione cupa e militaresca del “Bolero” di Ravel.
L’altra facciata del vinile parte col botto: “Dni, których nie znamy” è oggi l’inno di Grechuta e la più celebre canzone polacca degli anni Settanta. Folk barocco dall’aria gentile, dominato dal violino, è invero un’esortazione alla vita e uno sprone a non temere il futuro: “Contano solo i giorni che ancora non conosciamo, contano solo quei pochi attimi che aspettiamo. […] Cerca le risposte, il tempo non è poi molto”. L’ultimo minuto e mezzo è una girondola di “na na na” che si sovrappongono generando armonie soavi, ma anche lievi stonature, come una sorta di coro d’angeli ubriachi. Le voci sono nuovamente quelle delle Alibabki, accompagnate questa volta dai fratelli Aleksander e Ewa Bem, future stelle del jazz polacco.
Grosso dello spazio lo occupa però la title track, opprimente monolite di dieci minuti con cui gli Anawa partono in viaggio verso l’ignoto. Se è mai esistita una jam space-rock in chiave prevalentemente acustica, questa è “Korowód”. La canzone attacca come un vorticoso folk-funk, con uno scatenato Marian Pawlik, membro della formazione prog Dżamble, ospite al basso (è l’unica presenza elettrica del disco). Mentre il sottofondo ribolle, scandito fra le altre cose da maestosi cori dal sapore cerimoniale, Grechuta enuncia con foga i versi del poeta Leszek Aleksander Moczulski, una serie di domande che si interrogano sulla natura umana e nel frattempo accusano gli abusi del potere: “Chi per primo è diventato un eroe? Chi ha vissuto ed è morto in miseria? Chi per primo è diventato signore? E chi per primo è diventato servo? Chi ha dovuto alzarsi presto? E chi ha potuto dormire fino a tardi? Con gli occhi fissi sulla danza, con gli occhi fissi su di noi. Con gli occhi fissi sul sole, con gli occhi fissi su di noi, del tutto incerti di sé, del tutto inconsapevoli, chiederemo a lungo, chiederemo di nascosto […] Chi per primo è diventato fachiro? Chi astrologo? Chi re? Chi dio? Qualcuno dalla costellazione di Vega indovinerà chi è stato il primo uomo, e chi sarà l’ultimo?”.
Mezzo minuto dopo quest’ultimo interrogativo, splendida rappresentazione della solitudine umana nell’immensità dell’universo, la canzone sfocia in un lungo tratto improvvisato, con la sezione ritmica che pulsa ipnotica (pur continuando a mutare e piazzare svisate) e Jackowski che macina instancabile la chitarra acustica. Il protagonista è però Ostaszewski, che non suonando in questo brano il contrabbasso può scatenarsi in un sovrumano assolo di flauto dolce. Prima di loro nessuno aveva immaginato quello strumento come guida per un viaggio negli abissi siderali, ma agli Anawa canoni e regole non sembrano interessare.
Ci sono tratti sconcertanti, come i vocalizzi selvaggi che entrano poco dopo 5’ 25’’, o i giochi con l’eco a partire da 6’ 25’’, che trasformano ogni sbuffo di flauto in un drone, generando una coda dal suono deforme e allucinato. Pura fantascienza per la musica popolare del 1971. Se l’album fosse diventato famoso all’infuori dei confini della Polonia, oggi quei momenti sarebbero considerati uno degli atti di nascita della world music e avrebbero influenzato generazioni di appassionati di musica etnica, contaminatori elettronici e chi più ne ha più ne metta.
Vero trionfo artistico e tecnico, con Gajewska che si supera alla produzione, Korowód segna di fatto la fine della collaborazione fra Grechuta e gli Anawa. Non si è mai saputo il motivo del divorzio, si può solo ipotizzare la ricerca di nuovi stimoli creativi.
Droga za widnokres (1972)
Grechuta si trasforma così nel cantautore solitario che compone i brani di proprio pugno e li fa suonare a una band secondo le sue direttive. La democrazia che regnava negli Anawa è solo un ricordo, ma quel progetto ha saputo rodare l’artista, che ora ha le idee chiare su come impostare le opere contando solo sulle proprie forze.
Registrato e pubblicato alla fine del ’72, con una velocità curiosa per la Polonia dell’epoca, dove gli album prima di trovare stampa venivano tenuti in attesa per mesi e mesi, Droga za widnokres vede Grechuta destreggiarsi al pianoforte e comporre tutti i brani. Lo accompagnano Paweł Ścierański alle chitarre (per la prima volta anche elettriche), Paweł Jarzębski al contrabbasso e una squadra di percussionisti.
Tutti i testi sono di affermati poeti polacchi, del presente e del passato, tranne l’iniziale “Jeszcze pożyjemy”, firmato dal cantante: “Sia per quelli che amano il pane sano e duro, sia per quelli baciati dalla fortuna, senza nemici. Sia per quelli che portano gli orologi al banco dei pegni, sia per quelli che ballano mentre gli altri sono stremati. Tenete duro, poeti della verità, tenete duro mentre siete stremati, guardate gli altri che si rialzano come se a condurli fosse Dio in persona”.
È una sorta di manifesto ecumenico, dedicato a tutti i tipi umani possibili in Polonia, dai simpatizzanti del regime agli oppositori più stoici, dai benestanti a coloro che patiscono la fame, in un dedalo di sguardi diversi sulla stessa, divisiva realtà.
Fra le poesie altrui spicca “Pewność” di Ewa Lipska, violenta nel suo accostare episodi di vita quotidiana e avvenimenti dal sapore storico. Il contrasto rende minuscoli i primi e imponenti, quasi intimidatori i secondi, fino all’annientamento dei confini della realtà. “C’era questo esame di storia, quando tutto a un tratto furono bocciati tutti gli studenti. E al loro posto apparve un cimitero solenne. Non c’è certezza che fosse un esame, non c’è certezza che fossero stati tutti bocciati, l’unica certezza è che al loro posto apparve un cimitero solenne. […] C’era questa lingua, ma non c’è certezza che la parlassimo. C’erano questi pterodattili che volavano, ma non c’è certezza che fosse il nostro tempo. C’era anche questo amore, ma non c’è certezza che fosse il nostro. C’erano queste persone, ma non c’è certezza che fossimo noi”.
Rispetto a Korowód la musica richiede un primo impatto meno impegnativo. Non ci sono brani che superino i sei minuti, né brani che non siano canzoni. Lo spazio per le jam è stato quasi annullato, nonostante la componente jazzistica sia addirittura aumentata, fagocitando la musica classica e i tratti folk. Rimane l’impostazione teatrale del cantato.
La produttrice è ancora Gajewska, che opta per il contrabbasso in primo piano, così che le linee dello strumento risultino dominanti e colorino il groove, già piuttosto denso, data la presenza di batteria, percussioni, piattini e sonagli. Sono tratti comuni a ogni brano, dall’amorevole lento “Gdziekolwiek” all’andamento corale di “Wędrówka”, dal pianoforte insistente di “Pewność” a quello più incerto della title track.
È infine il primo disco di Grechuta in cui la chitarra elettrica ha un certo peso: le sue linee di sottofondo colorano “Jeszcze pożyjemy”, sfiorano il funk nella sincopata “Może usłyszysz wołanie o pomoc”, accompagnano la marcia di “Gdzieś w nas”.
La band che segue Grechuta in questo periodo è stata denominata Wiem, acronimo di W Innej Epoce Muzycznej (“In un’altra epoca della musica”). Non si tratta però di una formazione ben definita. I membri cambiano di continuo, andando e venendo dal ricco sottobosco jazz polacco, tanto che, appena un anno dopo Droga za widnokres, di coloro presenti al momento dell’incisione non è rimasto nessuno.
Magia obłoków (1974)
Speso il 1973 fra eventi televisivi e concerti, Grechuta torna in studio nel maggio del 1974 per registrare l’album che segna il suo ingresso improvviso e deflagrante nell’universo jazz-rock. Questa volta c’è un basso elettrico dall’inizio alla fine, così come la chitarra elettrica domina sull’acustica. Persino il violino è elettrico.
Le avvisaglie si respiravano già fra i solchi del precedente lavoro, non lasciando tuttavia presagire quell'oggetto sconvolgente che è “Godzina miłowania”. Una linea di basso convulsa e una chitarra funk che fa scintille introducono la canzone, che interseca la voce severa di Grechuta a possenti cori di ambo i sessi. È quasi buffo che tanta solennità sia stata impiegata per versi d’amore fra i più semplici dell’autore: “O, se solo volessi restare più a lungo. Un’ora d’amore. Sarebbe più facile persuadere il mondo alla riconciliazione, sarebbe più facile dire la verità, più facile spiegarsi a parole, più facile perdersi, più facile dirsi addio, più facile tornare di nuovo”.
Appena un minuto e mezzo di struggimento prima che arrivi l’imprevisto e la band deragli in una delle migliori jam jazz-rock mai registrate. Gli strumentisti si esaltano e si girano intorno, in una centrifuga di sincopi. Il basso di Jan Adam Cichy rotola e si gonfia, dissona e cambia velocità, la chitarra di Antoni Krupa soffia in sottofondo il suo funk febbricitante, il piano di Eugeniusz Obarski getta cascate di suoni ritmici e cristallini, la batteria di Kazimierz Jonkisz è una tempesta di piatti percossi e sterzate, mentre su tutto domina il violino di Piotr Michera, con un assolo stridente, profondo, interminabile. Il canto rientra sul finale, giusto in tempo per far quadrare il cerchio.
Eccetto Jonkisz, che si era già fatto un discreto nome, i musicisti coinvolti erano e sarebbero rimasti pressappoco sconosciuti, ma a sentire una simile esecuzione, si giurerebbe di stare ascoltando un convegno dei più noti jazzisti dell’epoca.
Il grande pubblico le preferisce tuttavia qualcosa di più rassicurante, come la commovente ballata “Świat w obłokach”, con pianoforte, cori e i versi del poeta Ryszard Krynicki, pieni di dubbi, ma resi speranzosi dalla pacatezza dell’approccio vocale. “Il mondo attorno a te cambia, cambiano le stagioni. La terra ti tiene prigionieri i piedi, e la magia delle nuvole gli occhi. Delle nuvole il sapere segreto, delle nuvole la fantasmagoria. Delle nuvole gli sguardi altrui, delle nuvole l’effimera certezza”.
La suite “Spotkania w czasie”, strumentale per tre quarti, venne usata come colonna sonora per l’oggi introvabile documentario “Jastrun”, per la regia di Wiktor Prejs. Alterna momenti melodici e piacevoli ad altri un po’ cerebrali, senza ritrovare l’intensità di “Godzina miłowania”. Meglio allora “A więc to nie tak”, bomboniera di due minuti dove Grechuta ritrova il suo tipico pianoforte marciante, abbinandolo di nuovo a una poesia di Ewa Lipska. È un testo fra i più polemici mai cantati da Grechuta e certifica come la Polonia fosse la dittatura più disposta a fare concessioni fra quelle del blocco sovietico. “Dunque non è così com’era nei libri. Dunque non è così com’era in cortile. Fiori in vasi di porcellana verde, un nastro legato fieramente ai capelli. […] Colui che ha inventato la fede e la dinamite, vede a cosa servono oggi? Colui che ha disteso le nuvole sopra di noi, su quale tempesta conta oggi?”
Lievemente discontinuo, ma con picchi di stordente intensità, Magia obłoków rimarrà l’ultimo grande album di Marek Grechuta.
Il calo di tensione
L’artista non smarrisce mai davvero la via, ma qualcosa dopo la metà degli anni Settanta si rompe. I suoi dischi non mostreranno più quella voracità e quella costante ricerca per il suono che tanto li avevano resi avventurosi, intellettualmente stimolanti.
Lo dimostra
Szalona lokomotywa (1977), colonna sonora dell'omonimo musical di Krzysztof Jasiński. I testi riadattano scritti di prosa fra i più importanti del Novecento polacco (Witkacy, Józef Czechowicz, Witold Gombrowicz), ma la musica abbandona la cifra progressiva per gettarsi nel cabaret e nel cantautorato più classici. Nello stesso anno esce su 45 giri un duetto con la futura star Maryla Rodowicz,
“Gaj”, un altro sketch di cabaret musicale per pianoforte.
Grechuta non rinuncia del tutto a provarci, come dimostrerà l’approccio alle tastiere tentato negli anni Ottanta, ma si tratterà spesso di meri ritocchi, quasi sempre a traino dell’ambiente circostante, anziché alla sua guida. Gli va tuttavia dato merito di non essersi mai svenduto al miglior offerente. Ha pubblicato poco e solo quando ne ha sentito necessità, appena otto album dal 1977 al 1994, tutti dignitosi, curati, lontani dal mondo del pop più corrivo e fedeli invece alla sua figura autoriale. Senza farsi mancare lampi della grandezza antica, capaci di far occasionalmente tremare i polsi.
Alla base del rallentamento quantitativo e degli sbalzi d’ispirazione ci fu probabilmente l’aggravarsi del disturbo bipolare, di cui Grechuta ha sempre sofferto, e che da un certo punto è divenuto sostenibile solo grazie alla figura di sua moglie, Danuta. Tenuta a lungo segreta, la malattia diede adito a voci infondate sul merito del cantante. Il modo di cantare ingessato mostrato in alcune esibizioni, le braccia ciondolanti distese sui fianchi, sporadici episodi di sudorazione eccessiva, e la leggenda dell’artista ubriaco è servita.
Non che questo gli impedisse di conquistare l’amore del pubblico, che come accennato nell’introduzione aumenterà in maniera costante dopo gli anni Settanta.
Lo testimonia nel 1987 il grande successo di
Wiosna – ach to ty, la cui splendida
title track rimane a oggi uno dei suoi inni. Storia d’amore e passione fisica narrata utilizzando il parallelo col ciclo delle stagioni (il titolo si traduce in “Oh, primavera, sei tu!”), presenta una danza folk con violini e delicato controcanto femminile, come un
Branduardi di ritorno da un giro nell’Europa dell’Est.
Meno note, ma di grande culto, sono delicate canzoni d’amore come “Nieoceniona” (1989) e “Niechaj mnie Zośka o wiersze nie prosi” (1991, da una poesia di Juliusz Słowacki, sorta di equivalente polacco di Giacomo Leopardi), che vedono le sonorità spostarsi verso situazioni pastorali vicine alla new age, ma mai pacchiane.
Nel 1994 il minuetto di “Ojczyzna” celebra la Polonia, che ha da pochi anni riacquisito la libertà, ma si rivela soprattutto monito a tenere vivo il ricordo dei grandi artisti del paese, coloro che ne hanno formato la coscienza storica: “Oggi vivi in un paese così ricco. La tua storia, la tua lingua, la tua arte, questi tre fiori tieni nelle mani, come eredità di generazioni intere. Devono ancora fiorire perché il paese sopravviva. Senza storia, senza lingua, senz’arte, senza la saggezza di questo insegnamento, la nazione diventa un paese senza nome”.
La carriera in studio sembra terminare qui. Per nove lunghi anni Grechuta non pubblica nulla e si limita a fare comparsate in televisione e nei teatri. Nel 2002 il premio Fryderyk, sorta di Grammy polacco, lo invita e ne celebra la carriera. Un atto dovuto.
Finale
Un giorno di maggio del 2003 la Polonia si sveglia con una notizia inaspettata. La più grande band polacca del momento, i Myslovitz, annuncia la pubblicazione di un nuovo singolo. A duettare con il loro cantante, Artur Rojek, c’è Grechuta in persona.
Il titolo è “Kraków”, rivisitazione di un brano inizialmente incluso dai Myslovitz nell’album “Miłość w czasach popkultury” (1999), uno dei capolavori del rock non anglofono. Se l’originale ha un suono chitarristico capace di alternare malinconia e botte energetiche, a un passo dal
britpop, la nuova versione con Grechuta lo trasforma in un gioiello di chamber-pop jazzato, fra archi intimisti e batteria suonata con le spazzole. La poesia cantata sale così in cattedra ancora una volta e il testo di Rojek sembra essere stato scritto da Grechuta in persona: “Cracovia mai come oggi ha avuto in sé tanta forza. Forse è questa pioggia, forse attraverso questa nebbia... forse è il mio umore, ma in ogni viso vedo te. […] Cracovia, il trombettiere suona e chiama me. Mi guarda come se sapesse che torno qui, anche se per qualche attimo. Per chiudere gli occhi e sognare forte che... ti vedo, lo so. Non farò altre foto, lo so. Non pregherò, lo so. È proprio peccato, lo so”.
Se la dedica di una poesia d'amore a un luogo, che viene di fatto personificato, non è espediente inedito per la musica polacca, si pensi a “Nie pytaj o Polskę” di Obywatel G.C., l'influenza di Grechuta risulta netta per la scelta dei simboli, talvolta anche tragici, a cui viene fatto ricorso. Il “trombettiere”, per esempio, si riferisce alla melodia che risuona ogni ora dall'alto della torre della chiesa di Santa Maria. La nenia si stoppa all'improvviso, in ricordo della leggenda di un giovane che, nel 1241, provò a mettere in allarme la città, dopo aver scorto all'orizzonte le truppe tartare in avvicinamento. Poté purtroppo suonare solo poche note, prima di venir trafitto al collo da una freccia nemica.
La nuova versione di “Kraków” supera per fama l'originale e diventa un moderno classico della canzone polacca.
Alla fine dell'anno, in un ambiente che lo tratta ormai come un eroe, Marek Grechuta pubblica quello che rimarrà il suo ultimo album, Niezwykłe miejsca, dedicato a una serie di luoghi e città sparsi per il mondo. Un po' inaspettatamente, si rivela un fiasco commerciale, pur uscendo in un periodo in cui le sue antologie fanno presenza fissa in classifica. La formula in effetti è tutt'altro che abbordabile, con diversi brani che si avvicinano al parlato su sfondo orchestrale. È un disco sentito, ma in verità un po' sonnolento.
Da quel momento Grechuta non pubblica più nulla. Morirà, come detto, tre anni più tardi.
Frammenti, eredità
Una grave carenza nella discografia di Grechuta è l'assenza di un'antologia ragionata. Le migliori disponibili sul mercato sono
Złota kolekcja: Dni, których nie znamy (1999) e
Złota kolekcja: Gdzieś w nas (2004), poi riunite nel 2008 in un unico volume.
La prima, in particolare, è importante perché trova finalmente spazio per “Tango Anawa”, dall'Ep del 1969, e rende per la prima volta disponibile la tenera ballata pianistica “Pomarańcze i mandarynki”. Risalente alle prime sessioni degli Anawa, nel 1968, nel corso dei decenni è stata passata in radio e cantata più volte in televisione, senza mai essere messa in commercio. Com'è già stato spiegato nella monografia dei
Republika, nella Polonia sovietica non era in effetti così raro che brani anche molto famosi, come questo, non trovassero sbocco su supporto fisico.
Pur contenendo materiale di alta qualità, la doppia selezione lascia un po' di amaro in bocca, soprattutto per quanto riguarda gli anni Ottanta e Novanta, da cui sono stati lasciati a casa alcuni classici.
Va detto, a discolpa dei selezionatori, che non si tratta di un repertorio semplice da riassumere senza scontentare qualcuno. Grechuta rappresenta la base su cui si è poggiato ogni cantautore polacco venuto in seguito. Il suo nome è sinonimo della poesia cantata e, in quanto tale, snodo cruciale dell'identità nazionale. Non serve neanche tentare una lista di tutti coloro che ne hanno ripreso le canzoni, per il semplice fatto che ci ha provato chiunque, indipendentemente dall'epoca.
La sua tomba costantemente sazia di fiori e lumini, i suoi monumenti sparsi per la nazione, il Festival Grechuta a lui dedicato e ogni anno sempre più rilevante, le radio che nell'anniversario della sua morte – il 9 ottobre – non suonano altro che le sue canzoni, la pole position che guadagna ogni volta che si fa un sondaggio sulla miglior musica locale. Quella dei polacchi nei suoi confronti è una devozione che sembra non conoscere fine.