"Juke-Box" è un passo indietro dal formato-album, un ritorno ai mattoni del pop: le canzoni. Riff, ritornelli, parole e immagini: quelle dei videoclip, o quelle che la musica evoca e utilizza per sedurre l'ascoltatore.
Lo scopo di questa rubrica è proprio entrare in questo gioco di seduzione, da sempre cruciale e da sempre dato per scontato. Scoprirne storie e protagonisti, ma soprattutto meccanismi, regole ed eccezioni. Guidati da una semplice domanda: come funziona una canzone?
dall'album "Original Pirate Material" (Locked On, 2002)
Birmingham, West Midlands. Qua "barca" si dice "baut" e le parole "choice" e "price" fanno rima. Lo sgami alla prima vocale, un
Brummie, e il suo accento è per stereotipo sintomo di scarsa intelligenza. Meglio starsene zitti, che parlare a quel modo lì - specie se si ambisce a una certa
coolness.
Ma un
rapper non può tacere: deve parlare alle masse popolari, deve
dar voce alle masse popolari. Deve inventarsi qualcosa - un trucco, un camuffamento. Tipo: spacciarsi per londinese. Scegliendo, tra i vari accenti della capitale, il più indicato ai propri scopi: il
cockney, simbolo dell'East End proletario, degradato, multiculturale.
Non che sia uno stratagemma nuovo, quello di Mike Skinner
aka The Streets. Prima di lui, già molti hanno fatto ricorso al
mockney (
mock+
cockney: imitazione di
cockney) per darsi un tono popolano/suburbano; Damon Albarn dei
Blur ci ha sostanzialmente costruito la sua credibilità
pop.
The Streets, però, ha bisogno di un altro tipo di credibilità. Lui punta al
represent hip-hop: "io dico quel che tu vivi e pensi". Una logica che nel Regno Unito non ha mai funzionato - i pochi successi
UK hip-hop precedenti sono stati decisamente più orientati al pop rispetto alle controparti americane. L'immedesimazione sottoculturale in Inghilterra ha sempre sfruttato altri canali: il mod, il punk, lo ska della 2-tone. Stili musicali fortemente radicati nel contesto sociale ed etnico delle metropoli inglesi, non certo "prodotti di importazione" come l'hip-hop, buono giusto per immigrati di seconda generazione e teste calde in cerca di esotismo. Non per la
working class bianca - che infatti a Skinner interessa poco. Lui vuole puntare ai ceti medi, ai ventenni che vivono in quelle belle casette ottocentesche tutte in fila, che "non studiano, non lavorano" e alla tv preferiscono dvd e
playstation, che si sparano
ganja a quintali mentre i genitori sono fuori dalle palle. E che dell'hip-hop non ne han mai voluto saper nulla.
A Mike Skinner serve far funzionare quel che non ha mai funzionato. Deve eliminare gli intoppi, e se necessario riprogettare il meccanismo: tracciare una
English Way all'hip-hop. Emulare un accento non basta - perché il suo personaggio regga dovrà anche ostentare un preciso stile di vita, mostrarsi divisinvolto nella recita, se possibile sfruttare alcuni dei meccanismi che si sono dimostrati efficaci in passato... E ovviamente, rendere tutto il più marcato possibile.
"Let's Push Things Forward":
spingiamo avanti le cose. È un manifesto e una dichiarazione d'intenti.
Via col video: nuvole, un treno su un sovrappasso periferico, un autobus a due piani, una cabina del telefono - rossa. Sotto, un bello
skank stile Madness (fiati, organo,
upbeat d'ordinanza). Non serve nemmeno che Skinner inizi a parlare: Londra è già ovunque, e la
lower-middle class sta nelle case, nelle auto in giro, nel suo abbigliamento ostentatamente
casual.
Poi attacca: "
This ain't the down it's the upbeat /
make it complete". O meglio qualcosa che si
scrive così, ma si pronuncia in un modo che farebbe inorridire ogni studente di Lingue - le
t sparite non si sa dove, la rima rattrappita in un dittongo intrascrivibile. "
This ain't
yer archetypal street sound", "
This ain't
your typical garage joint"; si va avanti per negazioni, a ribadire la distanza da uno stereotipo hip-hop visto come un peso morto. Skinner si mostra convinto, e provocatorio: ce l'ha coi
nigga americani ("'
round 'ere we say birds,
no' bitches" - "le ragazze le chiamiamo
uccellini, non
troiette"), ma anche con compatrioti che non vorrebbe chiamare "colleghi" ("
I make bangers, not anthems /
leave that to The Artful Dodger / the broad shouldered, 51% shareholder" - "faccio botti, non inni, quelli lasciali ai The Artful Dodger, quelli spallati, col 51% del mercato"). Col ritornello giamaicaneggiante, poi, tira dentro anche il malcapitato ascoltatore: "
You say that everything sounds the same / then you go buy them" ("Ti lamenti che i dischi suonano tutti uguali, ma poi vai a comprarli") - la colpa della stagnazione, insomma, è di chi ne alimenta il
business.
Lo schema è in fondo una rifrittura del classico
boasting hip-hop ("come son figo / come son bravo / vi smonto ancora prima di prendere il microfono"), ma la dose di obliquità e svogliatezza lo allontanano dal canone
ghetto. Più che esaltare sé stesso (cosa che comunque fa: "
I excel in both content and deliverance", precisa quasi all'inizio), Skinner declama i meriti della sua traccia e cerca di costruirsi un personaggio per via indiretta: "
This ain't a track, it's a movement", e anche se non è chiaro come potrebbe la sua apatia bambocciona mettersi a capo di un fermento, viene quasi da credergli. Si diletta - come da manuale - con immagini flash e giochetti di parole, ma è pronto a ironizzarci su: "
So it's just another showflick from your local city poet / in case you geezers don't know it /
let's push things forward" (È solo un altro po' di
zapping dal vostro piccolo poetà di città, casomai non ci aveste capito nulla, ma andiamo avanti).
Noi però fermiamoci alla parola
geezer. È un termine diffuso in tutto il Regno Unito e significa "vecchio eccentrico". Ma tra i giovani indica un tipo umano diverso: nell'
East End l'ordinario manovale, un po'
hooligan e un po' compagnone, che si spacca di birra la sera e vive per la partita della domenica. Ora però che l'
Estuary English ha colonizzato mezzo paese - e senz'altro tutta Londra - significa più blandamente: maschio, bianco, sui vent'anni, fannullone, figlio di una
working class arricchita - oramai economicamente confondibile con la
middle class propriamente detta. Esattamente il "cliente" a cui si rivolge The Streets.
E precisamente il tizio che
non dà credito alle sue sparate. Come spesso avviene ai
working class hero, Skinner sfonda più che altro tra gli studentelli
hipster che seguono le
next big thing. Non che la cosa sorprenda: l'operazione di "sciacquatura dei panni in Tamigi" suona troppo artefatta per i figli del post-proletariato londinese, ma l'elemento novità e i quadretti sarcastici che affollano le canzoni sono abbastanza accattivanti da sedurre chi è alla perenne ricerca del nuovo fenomeno
made in UK.
Il nuovo
represent sagacemente escogitato da Skinner non funziona, ma lui si piazza benino con l'album di lancio "Original Pirate Material", sponsorizzato col motto "
A day in the life of a geezer". E poi? Quando nel 2004 torna con "
A Grand Don't Come For Free" si è ampiamente lasciato alle spalle il personaggio sciatto e sfaccendato degli esordi.
Ora veste bene, si aggira per ristoranti di classe, parla di cocaina e scommesse da 1000 sterline. Dal tedio suburbano all'alienazione dello
star system - e l'album vola in prima posizione.
Intanto però qualcosa è cambiato, nell'hip-hop inglese. Un teppistello dell'East London - nero, manco a dirlo - se ne è uscito con un
sound acido, martellante, spigoloso; Dizzee Rascal si chiama, e l'album è "Boy In Da Corner". Il suo stile è fatto di
beat UK garage violenti e fratturati,
rhyming stretto, strutture liquide,
sub-bass a palla. È la punta di un iceberg
underground che coinvolge neri e bianchi in una nuova sottocultura stradaiola - quel
movement che The Streets poteva solo millantare. Roba che non scala le classifiche, ma porta la prima deriva autenticamente inglesedella cultura
hip-hop all'attenzione dei media, col nome di
grime. Questa, però, è proprio
un'altra storia.
(19/09/2010)