Lelan Rogers, capo della label International Artists, vide suonare per la prima volta i Red Crayola in un centro commerciale. A pensarci, la cosa fa un po’ ridere, ma quelli erano altri tempi. Erano gli anni Sessanta, gli anni delle utopie, della controcultura, delle droghe psichedeliche.
Psichedelia è una parola su cui si è discusso molto, ma volendo andare al sodo basta ricordarsi che essa mette insieme due radici greche - ψυχή (psykhé, anima) e δῆλος (dêlos, chiaro, evidente) – e sta a indicare l’ampliamento della coscienza grazie all’assunzione di droghe come Lsd, psilocibina e mescalina. A coniarla fu, nel 1957, lo psichiatra inglese Humphry Osmond. Costui era convinto che l’Lsd (la dietilammide-25 dell'acido lisergico) – sostanza che lo scienziato Albert Hoffmann aveva sintetizzato per la prima volta nel 1938 – potesse riprodurre gli effetti della schizofrenia sul cervello umano. Osmond buttò giù anche qualche verso per rendere omaggio alla sua nuova “creatura”: “To fathom Hell or soar angelic/ Just take a pinch of psychedelic” (“per comprendere l'inferno o elevarsi all'angelico basta prendere un pizzico di psichedelico").
La storia (se avete fatto i compiti, non vi sto raccontando nulla di nuovo) racconta che fu Hoffmann il primo a provare su di sé gli effetti dell’LSD, descrivendo quell’esperienza come un misto di orrore ed euforia: "Le vertigini e la sensazione di svenimento divennero così forti che a stento riuscivo a mantenermi in posizione eretta; così, mi sdraiai su un divano. Tutto quello che mi circondava si era trasformato nei modi più terrificanti. Tutto nella mia camera ruotava e gli oggetti a me più familiari e i vari mobili assunsero forme grottesche e minacciose. Erano in continuo movimento, animati, come spinti da una irrequietezza interiore. La signora della porta accanto, che a malapena riconobbi, mi portò il latte - nel corso della serata ne bevvi più di due litri. Non era più la signora R., ma piuttosto una strega malevola e insidiosa, con una maschera colorata".
La musica rock degli anni Sessanta non ci mise molto per invischiarsi in quella temperie rivoluzionaria e “psichedelia” divenne il marchio di una musica che voleva contribuire a cambiare le coscienze e, se possibile, anche il mondo.
"La 'rivoluzione psichedelica', dunque, si riduce a questo semplice sillogismo: trasformate il modo di essere della coscienza oggi predominante, e trasformerete il mondo; l’uso della droga (…) trasforma il predominante modo d’essere della coscienza; quindi rendete universale l’uso della droga e trasformerete il mondo". Così si esprimeva alla fine degli anni Sessanta lo storico e critico sociale Theodore Roszak, a cui si deve l’invenzione del termine "controcultura". Ai giovani di quell’epoca, insomma, le cosiddette consciousness-expanding drugs apparivano come lo strumento-principe per abbattere i limiti di una coscienza abbacinata dalle forme e dalle strutture della cultura dominante. Ovviamente, la musica divenne uno dei canali più adatti per diffondere le nuove idee.
Lo spettro psichedelico iniziò a volteggiare sugli stati a stelle e strisce e con la pubblicazione nel 1966 di “The Psychedelic Sounds of…” dei 13th Floor Elevators, il termine “psichedelico” fece ufficialmente il suo ingresso nelle stanze della musica “giovane”. I 13th Floor Elevators, guidati da Roky Erickson, provenivano da Austin, in Texas, uno degli stati più conservatori degli States. Uno stato in cui non era difficile imbattersi in cartelli su cui campeggiava la scritta “Whites Only. No Negroes or Spanish Allowed”. Ve ne erano anche a Houston, una delle città più importanti del cosiddetto “Lone Star State”, lo stato della stella solitaria. Qui, siamo nel 1965, il chitarrista Mayo Thompson, reduce da un viaggio in Europa, incontra il batterista Frederick Barthelme (fratello dello scrittore Donald) e gli propone di mettere su una band. Con l’arrivo del bassista Steve Cunningham, i Red Crayola sono finalmente una realtà.
I tre sono musicalmente onnivori, ma della musica “giovane” salvano a malapena i Velvet Underground e John Fahey, mentre tutto il resto appare fin troppo “normale”. Altri amori, ma siamo in ambiti diversi, rispondevano al nome di John Cage (Barthelme lo conosceva personalmente), La Monte Young, Albert Ayler e John Coltrane. Per Mayo Thompson, in quel momento storico, fare qualcosa di veramente “intenso” significava elevarsi al livello di “Bells” (brano di Ayler del 1965) o di “Ascension”, il capolavoro free-jazz di Coltrane, uscito nel 1966… All’inizio, comunque, i tre fecero un po’ di pratica con cover “astratte” di “Hey Joe”, “Louie, Louie,” e “House Of The Rising Sun”, poi, supportati da Lelan Rogers, decisero che era giunta l’ora di fare veramente sul serio. Il piano: registrare un “freak out record”.
“Freaking out è un processo attraverso il quale un individuo si libera d’antiquati e limitativi standard di pensiero, di vestiti e d’etichetta sociale al fine di esprimere creativamente il proprio rapporto con l’ambiente immediato e con l’intera struttura sociale”. Sono parole di Frank Zappa, che nel 1966 aveva esordito con un disco intitolato proprio “Freak Out!”.
I Red Crayola non erano comunque degli hippie ma erano, a conti fatti, gli “alleati naturali degli hippie”, come dirà in seguito Barthelme, tanto da condividerne il profondo antimilitarismo. Mettere insieme il rifiuto della guerra – siamo nel 1967 e “guerra”, negli States, non significa altro che “Vietnam” – e lo sballo-liberazione psichedelica venne da sé. All’interno di “The Parable Of Arable Land”, disco capitale della psichedelia e del rock tutto, “War Sucks” è uno dei cinque brani, diciamo così, “normali”, mentre il resto dell’opera è occupato da intervalli cacofonici chiamati “Free Form Freak-Out” in cui la band, coadiuvata dai Familiar Ugly (un gruppo di amici – in numero variabile, ma quasi sempre oltre le 50 unità! - che suonava praticamente di tutto, dalle bottiglie a una motocicletta, etc. - spesso si univa loro anche Roky Erickson, che nel disco suona, in un paio di brani, anche l'organo e l'armonica), dava fondo alle sue idee sull’anarchia sonora.
In mezzo al caos, tra le perle psichedeliche di “Hurricane Fighter Plane”, “Transparent Radiation”, “Pink Stainless Tail”, “Former Reflections Enduring Doubt” e il dispaccio concretista della title track, “War Sucks” è l’urlo beffardo contro la paccottiglia del patriottismo e della “bella morte in guerra”. Lo schifo esibito contro la retorica da quattro soldi che circondava ogni bara che riportava a casa quello che, una volta, era un ragazzo spensierato.
Aperto dal metallico suono del basso, il brano utilizza la martellante percussività di una danza di guerra mostrando la sua filigrana di feroce parodia. L’impatto sonoro è dirompente, mentre le liriche sono un misto di rabbia e sberleffo. L’America è la terra di una libertà conquistata sul sangue delle popolazioni indigene. La guerra è nel suo Dna. Quindi, nessun problema per lei se c'è da mandare allo sbaraglio migliaia e migliaia di giovani, comportandosi un po’ come i genitori di Hansel e Gretel (“You Remember What Happened To Hansel and Gretel" è il sottotitolo del brano) che, nella fiaba dei fratelli Grimm, abbandonano i propri figli nel bosco (le foreste vietnamite?), rischiando la morte a causa di una vecchia strega (l’establishment politico americano) che li aveva attirati nelle sue grinfie grazie a leccornie varie (la promessa di un mondo “migliore”, libero dal pericolo (?) comunista).
Così, mentre il bailamme percussivo imperversa, nello stile “primitivista” di Maureen Tucker (Velvet Underground), Thompson declama:“Then there uncle General he does weep/ When he sends his troops out into battle/ I’m sick to death of your endless prattle/ Cuz’ you remember what happened to Hansel and Gretel/ War sucks”. La parodia si spinge anche oltre, quando le liriche citano direttamente alcuni versi dell’inno patriottico “America The Beautiful” (scritto nel 1895 da Katharine Lee Bates e poi musicato nel 1910 da Samuel A. Ward), ma accostandoli allo slogan anti-bellico del titolo: "America, America, god shed his grace on thee/ And crown they good with brotherhood/ Sea to shining sea you know / War Sucks/ You know war sucks”.
Anche Dio viene preso di mira, perché, senza battere ciglio, lascia che gli uomini si massacrino a vicenda: “Well Mr. God are you sad this week/ Had we treat sugar bad you know your/ Silence is part of a fad you know that/ You do nothing just makes me mad”.
Come se non bastasse, il brano finisce per inabissarsi in una babilonia di sonagli, sibili, clangori, feedback, nastri in reverse, pispillòrie di urla. La paccottiglia del patriottismo e della “bella morte in guerra” subisce un trattamento adeguato. E’ noise, anzi no!, è il fantasma del kraut-rock che sta già sognando l’industrial e la new wave più radicale. E’ la sonorizzazione degli acid-test di Ken Kesey: la gente andava fuori di testa grazie alla musica e alle droghe psicotrope e figurarsi se poteva avere il tempo o la voglia di andarsene a migliaia e migliaia di chilometri di distanza, a sparare ai viet-cong!
E’ il baratro del rock che sta diventando grande, il baratro che risucchia le “forme” e le scompone in una successione di piccoli deliri personali, costretti comunque a rapportarsi a un contesto sempre più babelico e terrorizzante. Qui, a differenza che negli altri “free form freak-out” (che si allontanavano vertiginosamente dal brano che introducevano o seguivano), il caos prodotto dai Familiar Ugly prosegue nel solco di “War Sucks”, offrendone una versione catastrofica, in cui solo basso e batteria mantengono intatto il ricordo della sua struttura, esibendosi in una danza ancora più ossessiva. E’ la trasfigurazione di una coscienza che non tende più ad allargarsi, ma implode su se stessa, proiettandoci nel regno dell’oscurità.
Per Mayo Thompson, i “free form freak-out” erano, in effetti, un modo per evidenziare la differenza tra “dati” e “informazioni”: mentre i secondi rappresentano già un tentativo di organizzare quanto percepito, i primi non sono altro che il riflesso di quell’universo indeterminato che si nasconde sotto la coscienza. Così, mentre i brani presenti in “The Parable Of Arable Land” mostrano come la forma-canzone (anche se di una forma-canzone particolarmente obliqua si tratta) possa essere usata per trasmettere un certo numero di informazioni, i “free form freak-out” lavorano essenzialmente sull’accumulo di “dati”, mirando a rappresentare l’inconscio di ogni consapevole struttura sonora. Da un lato, dunque, il suono organizzato, dall'altro il magma ribollente del rumore, vera forza primigenia di ogni musica. Le "canzoni" appariranno, allora, come bagliori di luce tra le tenebre, come flussi strutturati di senso nel bel mezzo del disfacimento psichico suggerito dai tafferugli rumoristi dei Familiar Ugly.
Nell’ormai lontano 2005, Mayo Thompson suonò a Napoli con i Red Crayola, in una formazione del tutto inedita con l’ex-Slovenly Tom Watson alla seconda chitarra e George Hurley alla batteria (sì, quello dei Minutemen). Se ricordo bene, “War Sucks” la suonarono all’inizio: si trattò di una versione molto “asciutta” e più punk, ovviamente priva della coda rumorista (eh, no… i Familiar Ugly non c’erano, e, comunque, il palco della Galleria Toledo era piccolo e non c’era abbastanza spazio per cinquanta persone). Mayo, tutto vestito di nero, era concentrato sulla sua chitarra con la stessa energia di un tempo, mentre la sala della Galleria Toledo era immersa in un religioso silenzio. E pensare che quando la suonarono per la prima volta, al Catacombs di Houston, scoppiò una rissa sulla sala da ballo... Altri tempi, insomma.
Mayo, un vero gentleman. Quando mi presentai trepidante, fu lui a ringraziarmi per essere andato al suo concerto. Tra una foto e qualche chiacchiera sui “vecchi tempi”, anche una puntatina al bar, col barista napoletano che, oltre a scambiare Hurley per un vecchio attore americano (“ma questo non è quello che faceva i film di Ercole?”), cercò disperatamente di raccontare a uno spaesato Mayo la storia delle sue conquiste amorose...
Tornando a casa, riascoltai per l'ennesima volta "War Sucks" e il pensiero che un mondo senza guerra fosse davvero impossibile mi balenò nella mente.
Ma negli anni Sessanta era quasi doveroso credere che la guerra si potesse per sempre fermare. Del resto, l'utopia funziona giusto come catalizzatrice di speranze. E, poi, pensiamoci: avremmo mai ascoltato tutta quella grande musica senza il Vietnam, senza gli assassinii di Kennedy, Martin Luther King, Malcolm X, senza le rivolte nei campus, senza l'odio razziale, senza le Black Panthers, senza tutto quel gran casino? Se Dio non continuasse, come è giusto che sia, a farsi i fatti suoi, a quest'ora probabilmente staremmo annegando nella melassa di canzoni che inneggiano alla pace senza manco sapere perché si chiama "pace"...
(09/10/2016)
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