Il futuro dei musicisti è nei micro-pagamenti?

Una riflessione sull'industria musicale

Nel suo libro del 2013 “La dignità ai tempi di Internet”, l’informatico Jaron Lanier immagina un futuro scenario in cui tutti noi, volenti o nolenti abitanti del cyberspazio, veniamo riconosciuti finalmente non in quanto utenti ma in quanto persone, attraverso un’inversione di consapevolezza rispetto ai dati personali di cui siamo portatori.
Lanier, uno dei primi teorici del web e inventore dell’espressione “realtà virtuale” (uno, insomma, che nell’era del silicio siede alla destra del padre), propone di compiere questo passaggio tramite l’introduzione di un sistema di micro-pagamenti per la cessione dei dati. Le mega compagnie dei Big Data che possiedono il mondo, dice, sottraggono e utilizzano le nostre informazioni personali, il cyberpetrolio attorno cui ruota tutta la società, senza riconoscerci in cambio nulla. Gli archivi costruiti con questi dati sono il centro di tutto. I dati sono potere. I dati sono denaro. E noi li forniamo senza fiatare. Perché dunque non farci pagare singolarmente per ogni dato ceduto a queste compagnie?
La teoria dei micro-pagamenti è spiegata nel testo come una naturale evoluzione del lavoro nell’era del capitalismo 4.0. Solo tramite queste retribuzioni mirate personalizzate il sistema può uscire da un ciclo che enfatizza il capitalismo predatorio, rafforzando invece un impatto positivo per tutte le parti coinvolte. Il modello di ridistribuzione economica basato su micro-pagamenti proposto da Lanier pareva quasi fantascienza nel 2013. A quasi dieci anni di distanza, però, i micro-pagamenti sono una forma sempre più diffusa di scambio. È questione di tempo prima che questo modello entri nella nostra vita in modo sempre più invasivo, ridisegnando il mondo del lavoro del futuro.

 

Questa introduzione, che apparentemente nulla c’entra con la musica, era essenziale proprio per inquadrare l'essenza capillare e la rivoluzione strutturale che il paradigma del micro-pagamento sancirà nella nostra società. E nella musica.
Inquadriamo meglio la faccenda proprio musicalmente. Dopo la pandemia (che ha accelerato un processo già di per sé irreversibile) il mercato musicale a livello globale si è ritrovato totalmente bloccato. Con l’inflazione galoppante post-conflitto ucraino a dare il colpo di grazia, gli artisti di tutto il mondo lamentano la fatica, se non l’impossibilità, di andare in tour. I dischi sono sempre più spesso auto-finanziati. Le major sparano fuori un artista dietro l’altro, legandoli a contratti estemporanei del tutto privi di garanzie per saturare l’inutilissimo meccanismo delle playlist. Gli artisti famosi vendono i loro cataloghi ai grandi gruppi editoriali, che tenteranno di tenerseli stretti per renderli il più possibile remunerativi negli anni a venire. Forse il giochino funzionerà per qualche decennio, dopodiché di molti di questi gruppi non resterà che una pagina su qualche enciclopedia online. La musica si farà, nel mentre, sempre più standardizzata, perché la tecnologia per realizzarla sarà sempre più accessibile e il suo utilizzo sempre più semplificato e ridotto a un’azione rassicurante e vendibile. È un fatto quasi assodato: la musica cesserà di essere una grande industria esclusiva (con un sopra e un sotto) che abbiamo conosciuto negli ultimi cento anni, ma ripercorrerà la strada già seguita dall’arte figurativa a partire dall’avvento della fotografia digitale. Tranne rare eccezioni, è probabile che il grosso dei musicisti non avrà modo di vivere di musica. Questa direzione è piuttosto certa.
Certe dinamiche, tuttavia, possono essere modificate con un po’ di ingegno. Anche se non di sola musica vivranno i musicisti, nessuno impedirà loro di avvalersi sempre più di canali diretti pensati per supportare economicamente le loro attività artistiche.

Il mercato musicale oggi è composto da individui che cercano di ottenere soldi l’uno dall’altro. Produttori che li cercano dagli artisti. Artisti che li cercano dagli editori. E così via. È come tentare di cavare acqua da una pietra. Tutti fingono di non conoscere il vero problema di fondo; è un altro protagonista il responsabile principale della mancata iniezione di denaro nel sistema: il pubblico. Dopo la fine dell’industria discografica, le cui macerie ci fanno ancora credere che sia rimasto qualcosa che somiglia effettivamente a un’industria, si è optato per la via più semplice: nascondere i problemi sotto enormi tappeti. Senza un pubblico che compra (non c’è più niente da comprare), è irreale pensare di continuare a mantenere un settore.
È una cosa paradossale, perché, almeno in parte, il pubblico pensa di fare il suo, pagando abbonamenti a Spotify, a Tidal, a Apple Music e affini. Ma di fatto quei soldi contribuiscono alla crescita di quelle piattaforme e non al sostentamento dei musicisti. Piattaforme che sono espressione di un mercato che non è in grado di distribuire i soldi che raccoglie, concentrandone moltissimi su pochissimi attori. Alla fine ben poco, quasi niente, finisce nelle tasche dei singoli artisti.

Non è facile trovare modi sicuri per sostentare nell’era del web un’attività come la musica. Internet ha normalizzato qualunque atto creativo, ragion per cui c’è poca differenza tra mettere una foto su qualsiasi social network per diletto e caricare un singolo su una piattaforma streaming. Entrambe potrebbero essere opere di grandissimo valore e significato, ma, per come è conformato il web, diventeranno semplicemente un’espressione della normalità corrente. E nessuno paga per la normalità. Tuttavia è qui che subentrano le enormi potenzialità dei micro-pagamenti.
La presenza stessa di un feedback economico diretto tra pubblico e artisti può creare quella deviazione che separa normalità e originalità, business e arte. Un sistema virtuoso che sostiene gli artisti permette loro di distaccarsi da un implacabile trend che non può far altro che standardizzarne l’attività fino a renderla sostanzialmente inutile.

Ancora in pochi, nel campo musicale, hanno cercato di incanalare le potenzialità dei micro-pagamenti dirigendone i benefici direttamente verso gli artisti o i creatori di contenuti. Piattaforme extramusicali che negli ultimi anni hanno fatto qualcosa di simile ce ne sono, si pensi a OnlyFans, Twitch o Patreon (creata dal musicista americano Jack Conte). In musica, Bandcamp rappresenta ancora uno standard per un incontro tra pubblico e artisti che può tradursi in riconoscimenti economici. Tuttavia, nel panorama dello streaming, il suo utilizzo rimane ancora troppo poco fluido.
Forse è il momento allora che Spotify, Apple, Tidal e tutti i fratelli maggiori e minori dello streaming si facciano un’immersione di responsabilità.
Non solo queste aziende devono rendere possibile e immediato per l’utenza inviare piccoli o grandi riconoscimenti in denaro direttamente agli artisti, ma devono rendere questa attività un automatismo, un flusso continuo. Vista la natura dei servizi di streaming, non si tratterebbe propriamente di pagamenti. In un altro vocabolario forse si dovrebbe parlare di “donazioni”. Il pubblico pagherebbe per un servizio che in verità è già stato fornito. Verrebbe semplicemente messo nella condizione di poter riconoscere qualcosa in più a un artista che apprezza particolarmente. Sarebbe sufficiente una domanda ciclica a ripetizione, “Abbiamo notato che questo artista ti piace particolarmente. Vuoi offrirgli un caffè?”. O una colazione. O una cena. O una bicicletta.
Perché diamo per scontato che il pubblico non sia disposto a un gesto così civile?

A ben vedere, Spotify prevede già un servizio di questo tipo. Si chiama “Supporto dei fan” ed è un link che si può trovare sulla pagina degli artisti che scelgono di inserirlo. Con un click si può donare all’artista una cifra a scelta tramite il link personale di PayPal o altre piattaforme. È un optional che non viene esibito più di tanto, tanto che la stragrande maggioranza delle persone non ha idea della sua esistenza. E nemmeno molti artisti. Dal punto di vista di Spotify, il motivo della mancanza di pubblicizzazione di una possibilità del genere è ovvio. Il colosso svedese ci tiene a specificare (in una riga apposita sul link stesso) che non riceverà nessun tipo di compenso dall’utilizzo di questo servizio. Il pensiero di Spotify è certamente questo: se il pubblico dovesse abituarsi alla possibilità di pagare gli artisti senza intermediari, perché dovrebbe dare soldi alle piattaforme?
Spotify però dimentica che il modello del micro-pagamento è ad oggi lo scenario più sano per impedire che il settore di cui vive la stessa Spotify cessi completamente di esistere.

L’impressione è che il mondo dello streaming non si renda conto che il modello di micro-pagamento non è addizionale al sistema che la piattaforma intende rappresentare, ma è fondativo. In altre parole, le piattaforme, se vogliono avere un futuro, devono evolversi gradualmente per tramutarsi da intoccabile espressione di un servizio automatizzato a luoghi di facilitazione di un trend virtuoso.
Dando per assodato che la musica non tornerà quella che era prima, questi nuovi modelli di connessioni tra pubblico e artisti sono uno strumento per immaginare di nuovo un futuro in cui possa essere un po’ più sostenibile per chi la fa. Sarebbe già molto.
In ogni caso, una seria riflessione su questo tema non può più aspettare.