Per questa nuova puntata della rubrica dedicata al sodalizio con Rockstar, abbiamo pensato di recuperare non una, ma tre recensioni, per tracciare una possibile mappa di suoni e parole nella discografia di una delle band più originali e creative del decennio 80: gli Xtc.
Xtc
Mummer
(Virgin, 1984)
Un gruppo “essenziale”. Senza gli Xtc il rock degli ultimi dieci anni sarebbe una barzelletta con la battuta finale dimenticata. L'amore che continua a legarci al gruppo di Andy Partridge e Colin Moulding è fatto di abitudine e di familiarità, il contatto con i loro dischi si è rafforzato di un affetto duraturo, coerente, distillato nel tempo. Li conosciamo a menadito, con i loro suoni totalmente animati, il loro humour sottile, la sorpresa che ritualmente ci riserva ogni primo ascolto, la severità quasi certosina profusa in ogni incisione (per questo disco sono occorsi nove mesi di studio di registrazione, due produttori, Steve Nye e Bob Sargeant e altrettanti tecnici dei suono, Alex Sadkin e Phil Thornalley). Con “Mummer”, la musica degli Xtc si è disposta verso una solarità fino ad allora inedita. Dopo la separazione da Steve Lillywhite, le conquiste disannanti di “English Settlement”, i malanni gastrici di Partridge, il secondo cambio di un membro (Peter Phipps alla batteria al posto di Terry Chambers), gli Xtc si sono divertiti a creare delle canzoni serene, quasi arcaiche, corpose e naturali, costruite tutte su degli arrangiamenti parabolici e imprevedibili, ognuna con dieci idee di melodia al suo interno e cento buone ragioni per essere amate. È l'album cardine di un gruppo che aveva ormai da tempo ripudiato le vecchie casacche di figli incompresi della prima generazione new wave e di austeri sacerdoti dell'aggressività progressista. Dopo quel disco, allergici al contatto continuo con lo show-biz, stanchi delle tournée forzate, hanno salutato definitivamente il circo dei rock, i voli intercontinentali, le vecchie reliquie di una volta. Liberati dalle costrizioni di un mondo patinato e vorace, gli Xtc hanno dato libero sfogo ai loro istinti esploratori. Gli stessi che li hanno condotti al piccolo Eldorado di “Skylarking”.
(Da: I 100 dischi degli anni 80 - Rockstar n.100 - gennaio 1989)
Xtc
Skylarking
(Virgin, 1986)
Non c'è bisogno di mettersi in contatto con i quattro Fan-club ufficiali degli Xtc (il Limelight in Inghilterra, il Little Express in Canada, l'Ecstasy in Giappone e il Lumiere in Francia) per raccogliere qualche altra opinione che funzioni da supporto alla nostra. Noi, e parlo a nome di tutti quelli che hanno amato il gruppo di Andy Partridge e Colin Moulding sin dai tempi del primo "White Music", sappiamo quanto basta. Siamo capaci di riconoscerli al primo attacco di chitarra, di scovare i loro dischi anche con una benda davanti agli occhi, di avere un giovane amico (una strana figura di "angelo custode") che chiamiamo Nigel e per il quale continuiamo a fare progetti. Dopo aver gettato dal finestrino del loro "Big Express" tutte le valigie new wave e aver superato senza scosse la stazione fantasma dei Dukes Of Stratosphear, gli Xtc hanno tirato il segnale d'allarme. Allergici al contatto continuo con lo show-biz, stanchi delle tournée forzate per un pubblico da museo delle cere, hanno ormai da più di due anni detto addio al circo rock, ai voli intercontinentali, alle vecchie reliquie punk e new wave. Il rapporto esistente tra gli Xtc e tutti gli altri gruppi superstiti della loro generazione è lo stesso che c'è tra una mongolfiera e un'aspirapolvere. Liberati dalle costrizioni della riproduzione scenica delle loro canzoni, gli Xtc hanno dato il libero sfogo ai loro istinti esploratori.
“Skylarking” ci mostra un gruppo unico e inqualificabile, un gruppo che continua a suggerire la medicina dell'intelligenza a un'Inghilterra in decomposizione. La decisione di Partridge & Moulding di abbandonare definitivamente il mondo dei laser, dei fumogeni e delle colonne di amplificatori si dimostra essere stata ancor più che una scelta una necessità. Loro non hanno mai nascosto di essersi deliberatamente appropriati dello stesso destino dei propri gruppi-feticcio che hanno finito da un momento all'altro di suonare in concerto, che si sono chiusi in studio e che hanno attaccato alla maniglia della porta la targhetta "do not disturb" (Beatles, Small Faces, Steely Dan). Ed è per questo motivo che l'incontro degli Xtc con Todd Rundgren, il loro nuovo produttore, vero regista di questa operazione, va considerato come una naturale e coerente appendice dei loro volontario esilio. Insieme a Rundgren, gli Xtc sono riusciti a confezionare un prodotto ricco di esposizioni melodiche, di costruzioni audaci e geniali, di canzoni talmente perfette da far venire il capogiro.
Gli Xtc restano ostinatamente un disperato prodotto senza catalogazione: niente cuore, niente immagine, nessun vessillo da sbandierare. “Skylarking” è l'album di un gruppo che si sente maturo al punto di pensare che nulla è più possibile oltre i tre minuti di una canzone. Gli stili passano di moda. Le mode perdono lo stile. È per questo motivo che nell'album c'è spazio per tutto: dai vecchi vestiti da "protestante cromwelliano" alla divisa dello Swindon Football Club. “Skylarking” è l'album più sereno e trasparente degli Xtc. Tre eccentrici maestri nella sottile arte dell'ironia. Tre eroi di un esercito di disertori che hanno deciso un bel giorno di lasciare i fumi acri dei campi di battaglia e di rinchiudersi in un bunker isolato dal resto dei mondo. È da lì che provengono le quattordici canzoni di “Skylarking”. Ed è davvero strano tutto l'amore che riescono a trasmetterci. Verrebbe quasi voglia di fondare un quinto Fan-club.
(Rockstar n. 75, dicembre 1986)
Xtc
Oranges & Lemons
(Virgin, 1989)
L'ambizione degli Xtc è semplice ed è sempre rimasta la stessa: fabbricare dei rock in una stanza, un rock autarchico che trovi in se stesso le sorgenti d'energia e le materie prime. Del rock individualista che arrivi a dire qualcosa prima di essere canalizzato in desolanti etichette, un rock insulare e misantropo. Da “Drums And Wires” e “Black Sea”, da “Mummer” a “The Big Express”, gli XTC ci hanno fatto riscoprire il piacere di collezionare tutti i loro dischi, le foto, i manifesti, le interviste, di conoscere a memoria i testi delle canzoni e di cantarli con loro, di ascoltare un album cento volte senza mai temere che il virus della noia si annidasse da qualche parte.
“Skylarking”, più di due anni fa, era stato l'album della serenità. Qualcosa di prezioso, di evocativo, di talmente solare da far pensare a un lavoro uscito fuori in una speciale atmosfera di benessere assoluto. La regia di Todd Rundgren rientrava in questa specie di beatificazione ideale come l'elemento virtualmente decisivo. Il risultato, come si è detto, è stato semplicemente entusiasmante. Anche quando abbiamo capito di esserci goffamente sbagliati. Perché la collaborazione tra i signorotti di Swindon e il loro geniale produttore dal volto equino, anziché tendere a una simbiosi perfetta (come sembrava raccontarci ogni singola nota) era stata traumatica per Partridge e soci, continuamente in lite per l'approvazione di ogni loro idea contro la volontà individualista di Rundgren.
Usciti fuori da quell'esperienza, gli Xtc hanno amato il loro disco, ma non hanno accettato il modo in cui era stato realizzato. Allora hanno deciso di conquistarsi una ulteriore possibilità di gestione diretta sul loro prodotto. Hanno preso un lungo periodo di riposo, si sono assicurati il 50% dei pacchetto azionario della produzione e hanno affidato la restante metà a Paul Fox. A dimostrazione dei fatto che un nuovo disco non poteva non sfruttare il giacimento aurifero di “Skylarking”, “Oranges & Lemons”, il titolo, prende liberamente spunto dalle due, prime parole di “Ballett For A Rainy Day”. In questo senso la continuità non poneva che l'imbarazzo della scelta : proseguire ad innaffiare i campi patriottici con i loro tipici inni (recuperando qualcosa di “English Settlement”, l'altro album doppio della loro storia) o dare una lezione ai revivalisti psichedelici (e quindi indossare nuovamente le casacche da Magical Mistery Tour dei Dukes Of Stratosphear) o gustare semplicemente le gioie prelibate dei classicismo beatlesiano.
I nostri tre amici affiorati da una pagina dei Circolo Pickwick hanno scelto la chiave della riflessione e della sintesi. E ancor di più della riconciliazione trionfante di tutto ciò che costituisce da sempre la loro forza. La loro musica è energica senza essere violenta e possiede in più una certa fluidità che ci viene incontro a partire dal primo ascolto. II virtuosismo è meno increspato e più tranquillo. I brani, ben quindici, sono più lunghi, compositi, spesso concatenati tra loro (come già accadde per “Skylarking”), impreziositi da un “tornado” di suoni tra i quali emerge la "tromba d'aria" di Mark Isham, tutti pervasi di un'essenza britannica molto penetrante.
Pieno fino alla saturazione di chitarre in arpeggio, di un'elettricità magmatica e di arrangiamenti ritmici insoliti, “Oranges & Lemons” fa parte di quei dischi entusiasmanti, calorosi, ricchi di humour e perfettamente animati, dove i dettagli sono più curati dell'insieme. I pezzi di Partridge contengono ognuno una coltura in vitro per almeno altre dieci canzoni; ma lui si accontenta di accennare a qualcosa di grandioso, per poi abbandonarlo subito, lasciandoti la voglia di inseguire una nota come fosse l'unicorno misterioso di una leggenda. Moulding, dal canto suo, firma come sempre il pacchetto di canzoni più ridotto, appena tre, occupandosi del nitore, della dolcezza un po' trasognata e della riuscita dell'incontro. Le sue "King For A Day", 'One Of The Millions? e "Cynical Days" rimangono in testa per un periodo illimitato. Senza contare le partridgiane "The Loving" e "Pink Thing", da infilarsele dentro come un pacemaker. In “Oranges & Lemons” tutto è limpido, ogni nota, ogni sonorità, è là per qualcosa di preciso.
(Rockstar n.103 - aprile 1989)