Nel 1962 il compositore e pianista Duke Ellington (1899-1974) ha appena compiuto 63 anni e ha già attraversato con grande successo trentacinque anni di carriera da leader di big band swing. In settembre entra in studio restringendo la propria formazione a soli tre elementi: il suo pianoforte, Charlie Mingus al contrabbasso e Max Roach alla batteria. Non era la prima volta che ciò accadeva (l’anno precedente Ellington si era cimentato in trio nell’Lp “Piano In The Foreground”), tuttavia in questo caso la maestria dei musicisti convocati eleva lo status del disco a evento musicale di alto livello.
Appartenenti alla generazione successiva rispetto a Ellington, Roach (38 anni) e Mingus (40 anni) erano all’epoca di “Money Jungle” tra i massimi esponenti del jazz hard bop e dell’avantgarde jazz. Il risultato è un album molto piacevole, nel quale le tre diverse sensibilità musicali presenti trovano il loro punto di caduta in un hard bop dalle risonanze swing, speziato in alcuni casi da elementi appartenenti al jazz d’avanguardia. La sfida che Ellington accetta nel registrare con due artisti molto più giovani è dunque vinta: egli si inserisce nel linguaggio jazz contemporaneo al 1962 con naturalezza, mantenendo però l’identità artistica che lo contraddistingue. Le canzoni sono tutte composte da Ellington, conferendo così una impostazione musicale ben definita a “Money Jungle”. Un album fermamente imperniato sulla figura del pianista e sui suoi punti di rifermento compositivo-esecutivi, solo parzialmente aperto a nuove, circoscritte, sollecitazioni sonore.
I rapporti personali ed artistici che si sviluppano in studio di registrazione si ripercuotono sull’interpretazione della musica da parte di questo inedito trio. In particolare, sono le tensioni causate dal temperamento notoriamente difficile e aggressivo di Mingus, che contestava la natura troppo convenzionale del disco, a trovare un riscontro nelle tracce dell’album. Il contrabbassista stava infatti abbracciando l’avantgarde jazz e faticava ad adattarsi all’andamento maggiormente lineare dei brani scelti per le session di questo Lp. Anche Roach, in quel periodo, stava sperimentando nuove forme di jazz, tuttavia il suo carattere più pacato e duttile lo portava a collaborare senza recalcitrare con le idee meno avventurose di Ellington. A conferma di ciò, il contrabbasso di Mingus suona per quasi tutto l’album con uno stile eclettico, che si pone quasi in conflitto con gli altri due strumenti; l’esito complessivo è comunque riequilibrato dal solido acume che viene dispiegato dalla batteria di Roach. In questo quadro, il contrabbasso diventa un elemento che, dissentendo arditamente con piano e batteria in una sorta di feconda controversia sonora, genera un contrasto creativo fortemente suggestivo.
La traccia che raffigura meglio questa caratteristica d’insieme è “Money Jungle” (la title track scritta da Ellington appositamente per questo Lp), posta argutamente al confine tra hard bop e avant-gard jazz. Essa si configura come l’episodio più movimentato del disco, dove Mingus è irrequieto, insistente e nervoso. In questo modo, il musicista accosta il suono del suo strumento a quello di una chitarra acustica, tanto è in grado di sottrarre alle corde la profondità tipica del contrabbasso. Inoltre, Mingus si comporta a tratti da solista, contendendo al pianoforte l’attenzione dell’ascoltatore con note ostinate, rapide e taglienti, risonanti di indisciplinata efficacia. Roach si esibisce in uno stile simile alla poliritmia di Elvin Jones, capace di ancorare il percorso irregolare del brano a un ritmo coinvolgente, sospinto da esuberante, ma ragionata, inventiva. Da parte sua Ellington è qui impegnato nella performance più libera e inusuale dell’album, propagando idee, note e accordi decisamente interessanti, mai prevedibili, sempre coinvolgenti.
Anche “Flourette Africaine” (scritta per l’occasione) fuoriesce dalle convenzioni hard bop per avvicinarsi al territorio, allora nuovo, del jazz modale. Un brano immerso in un’atmosfera soffusa e sognante che richiama da vicino le composizioni di Erik Satie. Il piano di Ellington allarga alcune sezioni del tema principale, mutandole in brevi e sfumate improvvisazioni, per poi tornare ciclicamente alla melodia iniziale. Da segnalare i due accordi (ai minuti 1.30 e 1.44) che stonano volutamente, in quanto a forza e impeto, con l’aria delicata e ovattata del pezzo. Il contrabasso simula il sussurro di un’ape intorno al fiore che dà il nome al brano, dando vita a una vivida immagine sonora che è certamente uno dei punti più affascinanti ed emozionanti dell’intero album. La batteria contribuisce alla perfetta riuscita di “Flourette Africaine”, trasfigurando il proprio suono, attutito dall’uso dei mallets, in quello di tamburi africani, in una danza intima e tribale alternata con sensibilità su tom tom, rullante e timpano.
“Very Special”, composta dal pianista per questo album, trascina l’ascoltatore in un fantasioso hard bop colorato dal classico mood ellingtoniano: un medium tempo contemporaneamente ironico e riflessivo. L’assolo di Ellington scorre fluido e coerente, spingendosi ripetutamente alle soglie del blues con gaia spensieratezza. Mingus obietta indispettito all’andamento generale della canzone uscendo e rientrando liberamente dal walking bass prevalente.
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“Warm Valley” è ripresa da uno swing lento composto dal pianista nel 1940 e riproposto qui nella stessa veste dolce e rilassata, rimanendo forse eccessivamente legata all’originale. Ellington suona per metà del brano da solo, ricalcando il tema che nel 1940 era eseguito da fiati. Gli altri due membri del trio fanno invece da discreto sottofondo nella seconda parte, intrisa di malinconia dalle spazzole di Roach (usate, anche sui piatti, al posto delle bacchette).
“Wig Wise”, realizzata da Ellington per questo disco, si basa sullo stile e sui temi melodici già ben noti nel suo repertorio del passato, tradotti con ponderato brio utilizzando l’alfabeto hard bop. Il brano viene costruito sugli intervalli e sugli spazi lasciati intenzionalmente vuoti dal piano nell’arrangiamento, al fine di creare un ritmo dinamico e gradevolmente irregolare di stop e ripartenze. Un accompagnamento di classe completa il pezzo: impreziosito con estro da Mingus per mezzo di frequenti glissando sul manico del contrabbasso, esso vede Roach vivacemente misurato e impeccabilmente creativo alla batteria.
“Caravan”, un classico swing ellingtoniano del 1937, viene proiettato in ambito hard bop perdendo una parte del suo caratteristico sapore orientale, ma acquisendo energia e immediatezza. Sostanzialmente invariata nelle intenzioni, questa nuova versione del brano trova il pianoforte in sostituzione dei fiati (sia nel tema che nell’improvvisazione). Nel corso dell’assolo frammenti del tema vengono afferrati e rielaborati da Ellington con aperture pianistiche cariche di obliqua immaginazione, per poi tornare a ricomporsi nel tema prima di ripartire per nuove divagazioni. Il pianista esegue queste evoluzioni sonore, dal gusto swing vagamente esotico, attraverso block-chords punteggiati saltuariamente da singole note.
“Solitude”, come la precedente “Caravan”, è uno standard swing di Ellington (ancora un lento) del 1934, interpretato poi da numerosi artisti. Nell’originale sono i fiati all’unisono a condurre l’arrangiamento, che in questo caso è invece guidato dal pianoforte con pensosa ed espressiva serenità. L’assolo al piano si differenzia dall’originale seguendo digressioni sonore ampie, luminose e poetiche, le quali a tratti fuoriescono dal formato ballad.
Per concludere, è importante considerare che in “Money Jungle” Ellington non concede assoli a Roach e Mingus, perdendo così la possibilità di realizzare un disco ancora più moderno e completo. Sia la durata dei singoli brani che quella complessiva del disco (30 minuti circa) sono al di sotto della media per il jazz dei primi anni 60. Nella versione su cd, comunque, compaiono diverse outtake tratte dalle session di registrazione.
16/03/2025