Grand Funk Railroad

Grand Funk, la locomotiva dell'hard rock

Gli americani Grand Funk Railroad debuttano nel 1969 con un album dinamico (“On Time”, agosto ’69, ventisettesimo negli Usa e senza riscontro in Inghilterra) che si sviluppa tra rock e rock blues e dove l’entusiasmo dei musicisti non è pienamente eguagliato dalla qualità dell’offerta sonora. Il trio ci riprova solamente quattro mesi dopo con “Grand Funk”, registrato nell’ottobre ’69 e pubblicato in dicembre. Qui, il gruppo riesce a dirigere più produttivamente gli sforzi profusi e a mettere più precisamente a fuoco le idee, realizzando un disco che risulta importante musicalmente oltre che piuttosto appagante all’ascolto. Peraltro, il titolo di questo secondo vinile diverrà, da qui in poi, il nome stesso della band, abbreviando la dicitura originale scelta per l’esordio con l’eliminazione della parola “Railroad”.

I tre ragazzi del Michigan (Mike Farner: voce, chitarra elettrica, armonica, pianoforte, 21 anni; Mel Schacher: basso elettrico, 18 anni; Don Brewer: batteria, cori, 21 anni) transitano efficacemente verso una miscela di rock blues e hard rock, partecipando in questo modo a una svolta che ha segnato profondamente la storia della musica contemporanea. Infatti, il suono del loro secondo Lp descrive con vivida veemenza, il processo che, durante il 1969, vede il rock blues appesantire e affilare i suoi accenti, alterare i confini ritmici che aveva seguito fino ad allora e aggiungere sezioni nuove alla propria struttura, così da originare una nuova corrente musicale: l’hard rock. Un genere, quest’ultimo, al cui processo di formazione i Grand Funk Railroad prendono pienamente parte, sebbene venga fondato ufficialmente dai Black Sabbath nello stesso periodo con il loro primo lavoro (“Black Sabbath”, registrato nello stesso mese di “Grand Funk” e pubblicato nel febbraio 1970).
I due album sono stati dunque scritti e realizzati in contemporanea, sebbene i due gruppi non si conoscessero reciprocamente: “Grand Funk” può dunque considerarsi come un episodio di primo piano nella genesi dell’hard rock e nella definizione delle sue coordinate sonore.

La band si distaccherà però da questo innovativo sentiero artistico già dal 33 giri successivo, andando verso un solido successo commerciale cresciuto negli anni successivi di pari passo al deterioramento della musica suonata, sempre più artificiosa e sbiadita. In “Grand Funk”, invece, possiamo individuare evidenti indizi di come il trio, nonostante fosse all’oscuro di quanto si stava svolgendo nel laboratorio inglese dei Black Sabbath, stesse percorrendo la medesima strada. Due delle otto tracce dell’album sono infatti già interamente hard rock: “Winter In My Soul” e “Paranoid” (nessuna relazione con l’omonima composizione di Osbourne e compagni). Inoltre, tutti gli altri pezzi costituiscono una preziosa testimonianza sonora della transizione tra rock blues e hard rock, collocandosi esattamente a metà strada tra i due termini (unica eccezione è “High Falootin’ Woman”, che rimane ancorata al rock blues).

A determinare nel modo appena descritto il profilo di questo disco sono alcuni fattori di carattere musicale da attribuire alla vena sperimentale dei membri della band.
Il primo è dato dall’inserimento, all’interno della costruzione dei brani, di sezioni indipendenti dal resto della traccia, le quali costituiscono parentesi di ispirata discontinuità. A questa categoria tipica dell’hard rock appartengono le introduzioni strumentali il cui corso viene interrotto bruscamente dall’avvio della canzone vera e propria (in “Mr. Limousine Driver”, “Winter In My Soul” e “Paranoid”). Per di più, sezioni autonome inserite lungo le composizioni torreggiano con forza in “Got This Thing On The Move” (dal minuto 2.35 al minuto 4.00), “In Need” (dal minuto 1.58 al minuto 3.18 e dal minuto 3.20 al minuto 6.00), “Winter In My Soul” (dal minuto 2.30 al minuto 4.26 e dal minuto 5.25 al minuto 6.38) e “Paranoid” (dal minuto 7.04 al minuto 7.32).
L’elenco dei segnali che rivelano il movimento in divenire verso l’hard rock continua con i molteplici ponti strumentali usati come collegamento tra segmenti diversi della stessa traccia. Essi vengono posti maggiormente in evidenza rispetto a quanto avveniva nel rock blues, acquisendo così una centralità che, dal ’69 in poi, entrerà a pieno nel linguaggio hard rock.
Infine, a completare gli elementi introdotti dai Grand Funk Railroad nel loro percorso verso suoni e strutture più combattivi troviamo due pezzi privi di ritornello (“Mr. Limousine Driver” e “Winter In My Soul”). Questa variazione rispetto alla consueta forma canzone diverrà abbastanza radicata nel nascente genere hard rock e sarà portata ai suoi massimi livelli espressivi in quegli stessi anni dai Black Sabbath (ad esempio, nelle loro eccellenti “Paranoid” e “Sweet Leaf”).

Grand Funk Railroad - Grand Funk

 

Complessivamente, è il suono prodotto dall’interazione tra i membri dei Gran Funk Railroad, in particolare quello tra basso elettrico e batteria, a conferire al disco una atmosfera significativamente più dura, pesante e tagliente di quanto non fosse comune nel rock blues, la cui armonia tra le parti viene manomessa da questo giovane trio per allargarne e distorcerne le maglie sonore.
Il basso elettrico di Schacher interpreta in maniera impeccabile e decisamente creativa il ruolo che lo strumento assume nel classico trio rock blues, vale a dire quello di una seconda chitarra (ruolo assegnatogli per la prima volta da Jack Bruce dei Cream nell’estate del 1966). Il bassista dei Grand Funk Railroad va però oltre questa connotazione sfociando non di rado nelle scure inflessioni che caratterizzeranno l’hard rock. L’esempio migliore, tra gli altri, di questa innovativa tendenza può essere rintracciato in “Got This Thing On The Move” dove il basso guida con cupa e ostinata autorevolezza la già citata sezione strumentale che si sviluppa dal minuto 2.35 al minuto 4. Con il suo suono robusto e arrotondato, nitido e ampio allo stesso tempo, il basso di Schecher si rivela l’elemento di maggiore rilievo all’interno del disco, nel quale si esibisce con costante qualità in linee ritmico-melodiche sorprendentemente suggestive e in vigorosi affondi tenuti assieme da poderosi glissando.
Da tenere in alta considerazione sono anche le bellicose, ma ragionate, cadenze realizzate con passione dal drummer Don Brewer. Il suono che sprigiona dalla sua batteria si fonda sulla intonazione secca e pressante del tamburo rullante. Quest’ultimo è protagonista assiduo di brevi, rapidi e crepitanti richiami ai quali gli altri tamburi rispondono dando vita a ritmi incombenti e ricchi di inventiva. Insolita è la tecnica di mixaggio dei piatti nelle tracce numero 1, 3, 4, 5, 6, la quale li dispone sullo sfondo dell’arrangiamento a riempire, come un panorama distante, la vivace scena scolpita in primo piano dai tamburi. La tecnica con la quale viene delineata l’ineccepibile linea percussiva dell’Lp, trova il suo centro nell’unione tra una scattante, accesa vitalità e una estetica dal tempismo coinvolgente, contemporaneamente agile e possente. Senza eccessi di protagonismo né pattern scontati, Brewer risalta in questo disco, insieme a Schecher, come musicista dalle pregevoli doti e dalla notevole espressività, persino se valutato all’interno dello stupendo e competitivo contesto musicale del 1969.

Mike Farner è autore di tutte le tracce, meno la cover degli Animals (“Inside Lookin’ Out”) e “Please Don’t Worry”, nella quale si avvale dell’aiuto di Brewer. Le capacità compositive del chitarrista si esprimono in tutta la loro efficacia nel tratteggiare con vividi colori la già citata transizione tra rock blues e hard rock, tuttavia, esse non si esauriscono nello svolgere questo importante e pionieristico ruolo. Non vanno infatti dimenticate una manciata di trascinanti idee melodiche che spiccano per qualità al di là del contesto storico-musicale nel quale sono state concepite. Tra queste, citiamo i tre episodi migliori dell’Lp: “Please Don’t Worry”, con il suo convincente abbinamento strofa-ritornello; “Mr. Limousine Driver”, il cui tempo medio dettato dal riff si sposa opportunamente alla bella melodia tracciata della linea vocale nelle strofe; “Got This Thing On The Move”, un rock blues travolgente nei cui slanci elettrici si intravede distintamente l’arrivo del migliore hard rock.
La figura di Mike Farner emerge tra le tracce di “Grand Funk”, anche grazie al ruolo solista ricoperto sia come cantante che come chitarrista. La sua voce, piuttosto potente e assestata su tonalità prevalentemente alte, sa essere alternativamente graffiante (come in “Inside Lookin’ Out”) o improntata a uno scorrevole dinamismo che allunga parole e vocali (come in “Winter In My Soul” e “Please Don’t Worry”). Una vocalità che veicola la sua considerevole energia con immediatezza, irrompendo senza complimenti al centro degli arrangiamenti e facendosi apprezzare per la miscela di esplosive doti naturali e di una lunga messa a punto sul palco. Malgrado la sua indubbia capacità di coinvolgimento, il cantante riesce solo in parte a trasmettere emozioni realmente profonde, privilegiando una incisività e una intensità che garantiscono comunque un esito finale eccitante, avvincente e tutt’altro che ordinario.

Gli stessi pregi e difetti descritti in relazione alla voce sono attribuibili anche agli assoli di Farner. La sua chitarra è distorta e aggressiva al punto giusto, attaccando con un ardore ben orientato gli spazi solisti ad essa dedicati, ma manca di uno stile veramente originale e riconoscibile. Il musicista compensa tale carenza imprimendo con forza sul vinile sequenze di note tenaci, risolute, talvolta frenetiche, le quali indicano i paradigmi sonori più aspri emergenti nel 1969 tra le sei corde elettriche.
Le coraggiose escursioni soliste che possiamo sentire in “In Need”, in “High Falootin’ Woman” o in “Paranoid” (in questi ultimi due casi utilizzando anche il pedale wah-wah) riassumono perfettamente questo approccio all’assolo, nel quale i deflagranti fraseggi possiedono l’autenticità e l’irruenza necessarie a renderli incalzanti e interessanti, ma non memorabili o indelebili.
L’artista si afferma in maniera maggiormente compiuta come ruvido chitarrista ritmico, in particolare per mezzo dei riff che rappresentano uno dei pilastri sui quali si regge l’album. In “Winter In My Soul” il tema chitarristico ricalca, oscillando espressivamente con il suo timbro sinuoso e penetrante, la linea vocale della strofa, per poi mutare nelle transizioni strumentali (ad esempio, dal minuto 1.24 al minuto 1.44). In “Got This Thing On The Move”, invece, il plettro incide sulle corde una chiusura di ritornello (detta post chorus) brillante nella sua diretta semplicità (ad esempio, dal minuto 1.14 al minuto 1.20). Infine, da segnalare è anche la chitarra ritmica in “Mr. Limousine Driver”, dove essa, durante la strofa, libera una compatta serie di accordi scanditi con determinazione a formare un riff di sicura presa sull’ascoltatore.
Farner compare anche all’armonica in “In Need” e “Inside Lookin’ Out”, dove le sue parti hanno la funzione di diversificare il suono del trio con ornamenti sonori di matrice rock blues e brevi assoli. Se in questi due casi i suoi tentativi sono se non altro apprezzabili, l’introduzione del pianoforte (modificato da piccoli oggetti di ferro posti sulle corde) in un passaggio di “High Falootin’ Woman” appare fuori contesto e ingombrante (ascolto dal minuto 1.33 al minuto 2.55).

L'unico punto debole del disco risiede nella sua eccessiva estensione temporale (48 minuti totali), la quale è simboleggiata dagli effetti, inutilmente protratti per diversi minuti, all’inizio e alla fine di “Paranoid”. Inoltre, alcune parti strumentali vengono prolungate in maniera sovrabbondante, pur essendo sprovviste delle idee necessarie a riempire lo spazio occupato. Un difetto, questo, che non compromette il lavoro complessivo, ma che ne offusca parzialmente le ottime potenzialità.
L’emblema di questa tendenza al superfluo è “Inside Looking Out”, cover di un pezzo proveniente dagli ultimi mesi di attività degli Animals (pubblicato dalla formazione di Eric Burdon nel febbraio 1966). Essa è resa con encomiabile estro e impegno dai Grand Funk Railroad; malgrado ciò, questa versione risulta in più punti caotica e prolissa nell’arrangiamento. Il brano viene però risollevato dalla superlativa prestazione di Schecher al basso elettrico (come, ma non solo, nel caso dei ripetuti, densi e profondi glissando che possiamo sentire dal minuto 3.06 al minuto 5.36). A rendere notevole questa cover è anche uno dei momenti di più alta ispirazione dell’intero Lp: la figura musicale guidata dal basso che ci trascina per pochi elettrizzanti secondi nel moto vorticoso di un una cupa e distorta spirale hard rock (ascolto dal minuto 6.14 al minuto 6.33 e dal minuto 8.09 al minuto 8.46).

I testi possono essere equamente suddivisi in due ambiti concettuali nettamente distinti. Il primo, semplice e immediato, è quello delle allusioni sessuali e dei rapporti con svariate e attraenti ragazze. Il secondo, più riflessivo, celebra l’appartenenza alla controcultura americana di fine anni 60 e il distacco (o talvolta l’isolamento sociale) che ciò comporta rispetto alla maggioranza delle persone conformiste e conservatrici. Parole che non riescono a sorprendere o a entusiasmare, ma che nel contempo rendono tangibili le passioni e le aspirazioni che accomunavano molti giovani tanto ieri quanto oggi. Una citazione a parte va dedicata al testo di “Inside Lookin’ Out”, nel quale Farner trasforma il desiderio della donna amata da parte di un carcerato (nella versione degli Animals) in un’ode alla marijuana.

Nel complesso “Grand Funk” rappresenta il picco artistico di un gruppo che da quel momento in poi sarà più attento alle classifiche che alla qualità della produzione discografica. Al tempo stesso, l’album si inserisce silenziosamente tra i documenti storico-musicali utili a comprendere la transizione tra rock blues e hard rock: un passaggio di grande importanza per i decenni a venire.
Piazzatosi all’undicesimo posto negli Usa, esso non entrò in classifica in Inghilterra, dove però salì al quarantesimo gradino il singolo “Inside Lookin’ Out” (la memoria degli Animals era ancora viva tra il pubblico inglese).
Se l’altissimo livello musicale del 1969 ha fatto passare in secondo piano queste registrazioni, esse meritano di essere ascoltate con attenzione, al fine di riscoprire le radici dell’hard rock e di assaporarne i primi, coinvolgenti e folgoranti passi.

17/04/2025

Discografia

Pietra miliare
Consigliato da OR

Grand Funk Railroad su OndaRock

Vai alla scheda artista