Horace Silver

Blowin' The Blues Away, il soffio impetuoso dell'hard bop

Horace Silver è un pianista di primaria importanza nell’ambito del movimento che sviluppa un nuovo linguaggio jazz agli inizi degli anni 50 del ‘900 sulla costa Est degli Stati Uniti: l’hard bop. Egli contribuisce a creare questo stile insieme ad altri grandi musicisti (come Miles Davis, Art Blakey, Sonny Rollins etc.), modificando il precedente be bop che nella seconda metà degli anni 40 aveva rivoluzionato la storia del jazz.
La struttura base dell’hard bop è basata su temi coinvolgenti e melodici i quali racchiudono tra loro le improvvisazioni sviluppate in successione dai diversi musicisti. Nato dalla scelta di allungare il tempo a disposizione dei solisti, rallentare lievemente il ritmo forsennato tenuto dal be bop e avvalendosi della possibilità tecnologica di registrare vinili più lunghi, l’hard bop si affermerà subito come stile jazz prevalente per almeno dieci anni, vale a dire fino alla prima metà degli anni 60. Una tipologia di jazz che privilegia una più ampia libertà rispetto al be bop, sia nella costruzione dei brani che nell’uso dei singoli strumenti (durante gli assoli e nell’accompagnamento degli assoli stessi).

Pur essendo dotato di una tecnica esemplare, Horace Silver si fa interprete di questa nuova sfera musicale enfatizzandone i tratti legati all’immediatezza, per giungere con maggiore facilità agli ascoltatori. Nel quadro di questo nuovo idioma jazz, attraversa sei, elettrizzanti, anni di carriera (1952–’57) spesi ad altissimi livelli sia come solista (accompagnato dei migliori musicisti del periodo) sia come membro fondatore degli importantissimi Jazz Messengers. L’anno dopo forma il proprio quintetto (The Horace Silver Quintet), continuando a solcare la strada dell’hard bop e registrando una nutrita serie di apprezzati Lp, che saranno riconosciuti come molto influenti rispetto a una lunga serie di musicisti a lui contemporanei e successivi.
Nel 1958, la consolidata reputazione di Silver permette quindi al suo nuovo gruppo di ottenere subito il via libera per diverse registrazioni da realizzare con la prestigiosa etichetta discografica Blue Note. Il terzo capitolo in studio di questa formazione prende il nome di “Blowin’ The Blues Away” (un classico dell’hard bop), impresso su vinile tra l’agosto e il settembre 1959, per poi essere pubblicato nel novembre dello stesso anno.
La band assemblata per queste session comprende, oltre al leader impegnato al pianoforte, Louis Hayes (batteria), Eugene Taylor (contrabbasso), Junior Cook (sassofono tenore) e Blue Mitchell (tromba). Tutti giovani musicisti di grande valore che trovarono in questo quintetto il loro primo ingaggio continuativo in un contesto di alto livello artistico. Ad eccezione del batterista, essi rimarranno in organico fino al 1963, affermandosi sulla scena jazz statunitense proprio grazie al lavoro svolto al seguito di Horace Silver.

Horace Silver - Blowin The Blues Away


L’album comprende sette brani, tutti composti da Silver, che raggiungono complessivamente i trentanove minuti di durata, coerentemente con le medie dei dischi hard bop del periodo. Essi sono arrangiati brillantemente dal pianista del Connecticut, il quale svolge il ruolo di guida musicale con una salda e autorevole presa sul gruppo, occupando uno spazio centrale all’interno dell’album, ma riuscendo a valorizzare abilmente anche il talento degli altri membri.
La concezione degli arrangiamenti privilegia due fattori principali. Il primo consiste nel non sprecare nemmeno una battuta, andando sempre al punto ed evitando ogni divagazione o artificio non necessari. Una parziale eccezione a questa modalità di stesura dei brani può essere individuata nella eccessiva reiterazione del tema iniziale e finale in “Peace” e “Melancholy Mood”, i quali rimangono comunque interessanti e piacevoli. Il secondo accorgimento che dà forma alle sette composizioni è rappresentato dall’estrema cura riservata ai dettagli sonori, dalle parti all’unisono fino ai singoli strumenti, al fine di renderli il più possibile nitidi e significativi.
Le atmosfere musicali che incontriamo lungo i solchi del vinile sono per lo più trascinanti e briose, illuminate dallo scintillante piatto ride di Hayes e da temi spensieratamente arguti. L’immaginazione dell’ascoltatore è infatti stimolata dai temi e dalle ambientazioni sonore gradevolmente originali presenti in questo Lp. Essi insaporiscono l’hard bop di questa band con aromi ricercati e inusuali: il gospel in “Sister Sadie”, la deliziosa parodia di un motivo mediorientale in “Baghdad Blues”, il richiamo agli sfrenati temi del be bop in “Break City” e “Blowin’ The Blues Away” e il tributo agli standard anni 30 in “Peace” e “Melancholy Mood”.
Tutto ciò è reso attraverso il paradigma hard bop, vale a dire con una diretta naturalezza e spazi relativamente prolungati entro i quali dispiegare gli assoli. In questo modo ragione e emozioni vengono perfettamente bilanciati, in un invitante cocktail musicale che da un lato non stordisce i sensi e dall’altro non rischia affatto di risultare anonimo. La capacità di organizzare un suono di gruppo fruibile e di sicuro appeal, pur mantenendosi nel perimetro della migliore tradizione jazz, permetterà a Silver di comparire persino nei juke-box americani (un traguardo raramente raggiungibile per artisti jazz).

A due delle sette tracce dell’album viene riservata una strumentazione ridotta. Il quintetto diviene infatti un trio (pianoforte, contrabbasso e batteria) in “The St. Vitus Dance”, con il suo animato e conciso assolo, e in “Melancholy Mood”, malinconica e intima, ma mai scontata, come l’espressione di una persona amata in una vecchia foto. Queste due canzoni escludono di proposito i fiati allo scopo di mettere in evidenza l’espressivo pianoforte di Silver e la sua contagiosa abilità solistica.
In particolare, è “Melancholy Mood” a porre in rilievo una caratteristica fondamentale dello stile pianistico che contraddistingue Silver: il lirismo ritmato, irregolare e lievemente ironico che mutua da Thelonious Monk. Un’influenza musicale che in questo Lp è ben riconoscibile anche in “Peace”, traccia splendente di una distesa serenità e movimentata dall’andamento piacevolmente imprevedibile tracciato dal piano nella sua escursione solista. “Melancholy Mood” e “Peace” sono peraltro gli unici due episodi del disco ad avere un ritmo lento e pacato.
L’eredità di Monk viene dunque abbracciata con entusiasmo da Silver che la traduce in maniera innovativa e moderna estendendola a tutti i brani del 33 giri. Essa è filtrata attraverso la peculiare sensibilità dimostrata dal pianista nell’ideare, con sorprendente continuità e frequenza, estrose figure melodiche all’interno delle sue improvvisazioni. Una sequenza ininterrotta di soluzioni ricche di inventiva, escogitate con apparente semplicità e in grado di garantire agli assoli del pianoforte un formidabile appeal. I brevi e avvincenti motivi melodici disegnati dal piano appaiono tanto suggestivi, divertenti, evocativi e persuasivi da poter essere potenzialmente sfruttati come temi principali in altrettante nuove composizioni. Siamo di fronte a una capacità tipica di Silver, tanto più notevole quando applicata a brani dal tempo medio e veloce (come succede in “The St. Vitus Dance”, “Sister Sadie” e “Break City”).

Lo stimolante fascino comunicativo così ottenuto apre per di più la strada allo stile jazz soul, il quale nella prima metà degli anni 60 del ‘900 diverrà una variante dell’hard bop piuttosto diffusa (Bobby Timmons, Lou Donaldson, Cannonball Adderley etc.). La maggior parte dei brani di questo disco contiene in forma embrionale alcuni elementi legati al jazz soul, come, ad esempio, gli arrangiamenti spaziosi e luminosi o le parti soliste dotate di una grande fluidità complessiva.

Tuttavia, le sfumature che richiamano il jazz soul ammorbidiscono, senza semplificare eccessivamente, la musica, congiuntamente articolata e scorrevole, proposta dal quintetto in questo Lp. Ciò è vero anche per la concezione degli assoli, contemporaneamente articolati, sintetici e immediati, con i quali il sassofono tenore di Junior Cook e la tromba di Blue Mitchell ci accompagnano lungo il disco.
Il sassofonista segue, dal punto di vista stilistico, la “scuola” di Hank Mobley, contraddistinta da un timbro lievemente arrotondato e da un incedere fluido e ritmato nelle improvvisazioni. In queste session l’apparizione solista più emblematica di Cook è ritratta nel veloce scorrere di “Break City”, dove le sue note si affrettano eccitate sul registro alto del sassofono tenore senza mai perdere il loro spigliato aplomb (ascolto dal minuto 0.26 al minuto 1.19).
La tromba di Mitchell riprende invece la tradizione di musicisti quali Clifford Brown, arrotondando però il suono del suo strumento con una intonazione calda e uno sviluppo degli assoli lineare e melodico. In questo album è immortalata, forse non bene come altrove, ma con buona efficacia, la sua pulita e regolare offerta solistica, che posiziona ogni nota al posto giusto riuscendo nel contempo ad appassionare (come, ad esempio, in “Baghdad Blues” e “Blowin’ The Blues Away”).

La sezione ritmica si fonda sul solido contrabbasso di Eugene Taylor, un granitico punto di riferimento per le evoluzioni sonore della band. La corrente sotterranea formata dalle sue note scorre nel suono complessivo con grande discrezione, ma trasmettendo la certezza che ogni brano, lento o rapido, in quintetto o in trio, sia saldamente ancorato. A Taylor non viene concesso lo spazio per imbastire parti soliste, in linea con la funzione di supporto che è chiamato a svolgere in questo Lp e che è da lui portata a termine dispensando un tocco sapientemente misurato sulle corde del contrabasso.
Insieme a Taylor, a scandire il tempo è la batteria di Louis Hayes, con una performance nell'insieme degna di lode, malgrado non sia al pari dal dinamismo ricco di significati sottintesi che spesso la contraddistingue tra la fine degli anni 50 e la prima metà dei 60. Questa circostanza è attribuibile, almeno in parte, al preminente controllo esercitato da Silver sull’arrangiamento di questo album, che circoscrive parzialmente il raggio d’azione dei tamburi. Nonostante questo, il batterista non si lascia sfuggire la possibilità mettere in mostra la sua caratteristica agilità esecutiva, esibita nella elaborazione impeccabile del ritmo sia nelle tracce lente che in quelle veloci.
A completare la sezione ritmica è il pianoforte del leader. Esso si muove sotto gli assoli dei fiati facendo loro strada con tocchi decisi, dai colori vividi e dalla intensità quasi percussiva, tanto da attirare l’attenzione dell’ascoltatore perfino quando, come in questo caso, si limita all’accompagnamento (ad esempio, in “Blowin’ The Blues Away” e “Sister Sadie”).
A partire dalla sezione ritmica appena menzionata, fino a comprendere i fiati, i cinque musicisti dimostrano un’ottima unità di intenti, nonché un incastro reciproco perfetto. Queste qualità giovano grandemente all’ascolto e, sotto l’attenta e lungimirante supervisione di Silver, si riflettono in una invidiabile coesione artistica e musicale. La stretta connessione sonora instaurata tra i componenti dell’Horace Silver Quintet in “Blowin’ The Blues Away” (come del resto negli altri Lp da essi registrati) è paragonabile a quella conseguita da altri grandi gruppi jazz, come, ad esempio, il primo quintetto di Miles Davis (1955-‘56).

Nella versione in cd uscita nel 1999, è stata inserita anche una outtake tratta dalle sedute di registrazione del disco, che non sarà utilizzata in altri album e dunque da considerare come una estensione e completamento di questo Lp: “How Did It Happen”. Si tratta di una composizione di Don Newey (uno sconosciuto pianista jazz contemporaneo a Silver e da lui stimato), qui interpretata egregiamente e con arioso savoir-faire. Da notare l’assolo di pianoforte, disinvolto nel fare fluire coloriti accenni blues sul dinamico tappeto disteso con vivace prontezza dalla sezione ritmica di contrabbasso e batteria.
Infine, è impossibile non ricordare che il tecnico del suono per questa, come per innumerevoli altre session del periodo, è il leggendario Rudy Van Gelder, capace di catturare come mai nessun altro il suono irripetibile dell’epoca d’oro del jazz (1952-‘65).
“Blowin’ The Blues Away” è un archetipo del migliore jazz hard bop, estremamente gustoso all’ascolto, perfettamente suonato, accessibile e appagante nello stesso tempo, forse il punto migliore dal quale iniziare a conoscere la musica di questo grande jazzista.

28/06/2025

Discografia

Pietra miliare
Consigliato da OR

Horace Silver su OndaRock

Vai alla scheda artista