12/07/2004

David Byrne

Arena del Mare, Genova


Che i Talking Heads fossero tutt’e quattro Teste Pensanti e Suonanti e non si limitassero ad assemblare una macchina musicale alla sola guida di Byrne è, credo, pacifico: il radicalismo di quest’ultimo era volentieri stemperato dallo spirito ludico dei coniugi Frantz, l’esperienza e l’eclettismo di Jerry Harrison furono di sostanziale importanza in alcuni momenti cardinali della carriera del gruppo. Non è dunque un caso che il cammino da solista di Byrne abbia battuto territori piuttosto diversi, a volte puntando sulla scintillante enciclopedia (“Rei Momo”, 1989) altre barcollando pericolosamente sulla strada accidentata di un ibridismo a tratti fin troppo cervellotico (“Uh-Oh”, 1992 e “Feelings”, 1997), altre ancora manifestandosi in cupa chiave minimale (il migliore: “David Byrne”, 1994). Questo per tacere dei tanti progetti paralleli (colonne sonore — “The Last Emperor”, “Married To The Mob”, la recente “Young Adam” — e musiche per balletti e opere teatrali — il misconosciuto benché bellissimo “The Forest” per tutti -), testimonianze tangibili, insieme al leggendario passato, di una sana schizofrenia creativa: Byrne è uno degli artisti che, nobilitandolo, dalla fine degli anni 70 ad oggi, ha provato che quello del rock può essere un linguaggio complesso e “alto” che mal sopporta categorie rigide ed etichette limitanti.

D’altro canto chi si aspettava che egli facesse seguire a un album musicalmente pacificato e “classico” come “Grown Backwards” - in cui, proseguendo il discorso inaugurato dal precedente, parte dalla melodia e si abbandona al groove solo in seconda battuta - un concerto rigorosamente “in linea”, avrà la sorpresa di una performance in cui, invece, tutte le anime del musicista rispondono all’appello e insieme vanno a dipingere il quadro fedele e, a dir poco, composito di una carriera (non a caso il tour si chiama My Backwards Life). Oltre al rodato trio Paul Frazier (basso), Graham Hawthorne (batteria) e Mauro “mani d’oro” Refosco (percussioni, tastiera, xilofono), accompagna il musicista in questo tour il Tosca Strings, sestetto texano avvezzo a esperienze trasversali che vanno dal country al tango, oscillando il set dalle suadenti armonie degli archi ai colori sincopati della sezione ritmica.

Lo show si apre con”Glass Concrete & Stone”, pezzo originariamente scritto per i titoli di coda di “Piccoli Affari Sporchi” di Stephen Frears e che, rendendo anche conto dello splendido lavoro che Byrne continua a condurre su testi sempre più stilizzati e ispirati, mette in luce il rimarchevole amalgama orchestrale: in questa chiave di elegante esecuzione si collocheranno, più avanti, gli anticlimax di “Ausencia”, la cover del pezzo di Cesaria Evora presente nel soundtrack di “Underground” di Emir Kusturica, e la verdiana “Un Dì Felice, Eterea”, posizionata, con ironica strategia, dopo una prevedibilmente orgiastica “Once In A Lifetime”, da “Remain In Light”, punta di diamante della produzione dello storico quartetto.

Ma per quanto Byrne si incaponisca con le sue riletture, più o meno balzane (era del precedente tour la divertita cover di “I Want To Dance With Somebody”di Whitney Houston), è nel suo personale repertorio che si muove, alla grande, la sua performance, dimostrando come le perle non manchino anche nell’ultima produzione (soprattutto “The Great Intoxication” e “UB Jesus”, dal penultimo “Look Into The Eyeball” — album all’epoca piuttosto sottovalutato e dal quale Byrne attinge anche “Like Humans Do”, la quasi beatlesiana “Smile” e “Desconocido Soy” -, suonano belle da morire).

Rispetto alle prime date del tour lo sguardo al passato risulta dunque preponderante: “This Must Be The Place” è soave madeleine; l’auditorio si infiamma alle note dell’irresistibile marcetta di “Road To Nowhere” (da “Little Creatures”, il più grosso successo commerciale degli Heads); da “Naked”, l’ultimo album del gruppo, anno di grazia 1988, Byrne propone una versione tutta acustica di “(Nothing But) Flowers” (recentemente coverizzata da Caetano Veloso) e una sontuosa “Blind”, pezzo in cui si frullano generi, rap compreso (la trascinante strofa), e che alle orecchie di oggi suona preludio a tutto il discorso solista da venire. L’ensemble riabbiglia alcuni classici come “Life During Wartime” o “I Zimbra” con naturalezza miracolosa, supportando discretamente l’energetico incedere di Byrne anche in “What A Day That Was”, non spaventandosi nemmeno di fronte all’inossidabile “Psycho Killer”, pezzo che compare in scaletta solo da poco: su richiesta di Jamie Deasautels, il violinista che ne ha curato l’arrangiamento per i suoi Tosca Strings, Byrne ripropone un pezzo imprescindibile che, in questi anni, ha sottoposto a ogni possibile trattamento (da quello iperminimalista chitarra- drum machine, alla delirante ipnosi trip-hop del tour del 1997): in questo caso, assecondando il raffinato gioco degli archi, l’artista ne recita stentoreamente le strofe per riprendere il noto cantato solo nel refrain . Si ascoltano meno, in questa data, le cose dell’ultimissimo album: un peccato perché proprio la dimensione live donava loro una freschezza che la rigida opzione cameristica del disco finisce col sacrificare (“Dialog Box”, la più headsiana della tracklist , sul palco suona tagliente ed efficace), ma non è il caso di prendersela troppo, soprattutto se il prefinale da brividi si chiama “Heaven” e se Byrne la canta con il solo accompagnamento della sua chitarra acustica.

Chiude la performance “Lazy”, un vero hit, realizzato con gli X Press 2, ripreso nell’edizione europea di “Grown Backwards” e di cui l’americano ripropone, a suo dire, an adaptation of the remake: il lavoro sull’arrangiamento è davvero degno di nota e nobilita alquanto un brano di invenzione melodica non proprio memorabile. Due ore di grande musica, riassunto in bella scrittura di una carriera artistica invidiabile.

David Byrne su Ondarock