20/06/2004

Cure

Neapolis Festival, Napoli


Se dopo due ore e mezza di concerto il primo pensiero che ti passa per la testa è: “Ma è già finito?”, dire che lo show a cui si è appena assistito è stato un totale coinvolgimento emozionale e sensoriale diventa decisamente superfluo.
Sul palco allestito nell'area dell'Italsider a Bagnoli si staglia una bandiera da ultrà (quale è Robert Smith) della nazionale inglese di calcio. Voci insistenti volevano su quel palco, prima dei Cure, nientemeno che i Mogwai; beh, a parte il divertente contrasto che avrebbe creato il vedere gli scozzesissimi Mogwai esibirsi con alle loro spalle quella bandiera, c'è stato davvero da rimpiangere che quelle voci si siano alla fine rivelate infondate. E così anziché lo splendido gruppo scozzese, ad aprire il concerto dei Cure c'erano due gruppi italiani, i Marla Singer e prima ancora un gruppo di cui, scusatemi, mi è anche sfuggito il nome. Poco male perché la loro proposta musicale rasentava lo zero assoluto, tra plagi vari di Offspring e Green Day e velleità nu-metal, con tanto di tamarro in canotta bianca che saltellava sul palco con pose alla Fred Durst. Eloquenti le mani di gran parte degli spettatori che dopo tre/quattro pezzi iniziavano a far segni inequivocabili al gruppo, invitandolo a togliere il disturbo.

Poco male, ragazzi, troverete un pubblico meno ostile quando aprirete il concerto dei Linkin' Park. Si va leggermente, ma molto leggermente, meglio con i Marla Singer, almeno come atteggiamento sul palco, molto meno spaccone e irritante dei loro predecessori. Esibizione la loro, però, fin troppo anonima.
Bene, sbrigata la formalità dei due gruppi inizia la lunga attesa per vedere Robert Smith e soci salire sul palco. L'attesa è più lunga del previsto, e i nostri salgono sul palco intorno alle 22.30. Niente saluti, niente convenevoli, niente parole. Si parte con “Lost”, pezzo che apre anche il nuovo album: all'insegna di sonorità piuttosto dure, brano che in questa veste live ricordava quasi i Nine Inch Nails. I pezzi del nuovo disco, di prossima uscita (intitolato semplicemente “The Cure”), non sfigurano, a parte il singolo “The End Of The World”, che dal vivo forse guadagna qualcosa, ma resta comunque, molto semplicemente, una canzone insipida e banale. Trovano spazio intanto pezzi vecchi e gradite sorprese: su tutte la straordinaria “The Drowning Man” (da "Faith", 1981) e una splendida esecuzione dell'altrettanto splendida “Charlotte Sometimes”. Toglie il fiato poi un'esecuzione da antologia di “One Hundred Years”, uno degli inni più indimenticabili della band (tratto da "Pornography", anno 1982), e una trascinante “From The Edge Of The Deep Green Sea” (da "Wish", 1992).

In forma (vocale) strepitosa, Robert Smith propone poi altri brani del passato come “A Strange Day” e “Closedown”, e altre novità interessanti come “The Promise”, pezzo lunghissimo, cavalcata devastante che bilancia alla grande la debolezza di altri brani del nuovo album come la già citata “The End Of The World” o “Us Or Them”.
Termina qui la prima parte del concerto: a voler fare gli incontentabili, si può dire che senza dubbio ci stava bene in questo contesto generalmente più “duro” anche la splendida “The Kiss”, o “Bloodflowers” o anche la stessa “Pornography”. Ma pazienza, l'esecuzione è stata comunque di alto livello, e il bello sta per arrivare.
Dopo la pausa infatti i cinque (oltre Smith e l'altro membro “storico” Simon Gallup al basso, il sempre ottimo e discreto Roger O'Donnell alle tastiere, Perry Bamonte alla chitarra e Jason Cooper alla batteria) tornano sul palco e Smith ci avverte che quelle che stanno per arrivare sono “soltanto semplici pop-song”.
Parte così un trittico che manda in visibilio i quasi 20.000 presenti, con “In Between Days”, “Just Like Heaven” e, ovviamente, “Boys Don't Cry”, brano che a quanto pare il gruppo non si stancherà mai di suonare, e che naturalmente il pubblico non si stancherà mai di ascoltare, di cantare e di ballare.

Altra pausa che precede la seconda encore , dedicata stavolta al primo album della trilogia “dark” di inizio anni Ottanta, lo splendido “Seventeen Seconds” (1980): ovviamente non può mancare il tormentone “A Forest”, ma a fare colpo è soprattutto l'esecuzione di due delle gemme più splendenti — e meno usuali nel repertorio live della band — di quel disco, vale a dire “M” (in una versione vagamente rallentata e più “cattiva”, sorprendente e riuscitissima) e “Play For Today”.

Terza e ultima encore dedicata invece a due dei brani più belli del loro disco più famoso, il capolavoro “Disintegration” (1989). La canzone che di quel disco è l'apertura, indimenticabile, e che spesso fungeva da opening-song anche dal vivo, “Plainsong”, è eseguita dal gruppo e in particolare da Smith in modo da esaltarne ancora di più lo splendido e sconsolato romanticismo. E infine tocca alla lunga title track , a “Disintegration”, fare da impeccabile chiusura del concerto. Chiusura anche prematura, forse, come si diceva all'inizio: la voglia di ascoltarne tante altre, tanti altri brani irrinunciabili e immortali come “Pictures Of you”, “Siamese Twins”, “3 Imaginary Boys”, “The Figurehead”, e la stupenda “Prayers For Rain”, e “A Letter To Elise”… ma l'elenco potrebbe durare ancora a lungo, come poteva durare ancora a lungo il concerto e nessuno avrebbe avuto da ridire, anzi. Ma al saluto di Smith, un “see you soon” che speriamo risponda a realtà, allora sì, prendiamo atto che tutto è finito. Ci lasciamo alle spalle uno show emozionante e la certezza che il gruppo, almeno nella veste live, ancora scoppi di salute. D'altronde i Cure esistono solo da 28 anni…

Setlist

Lost
Labyrinth
Fascination Street
Alt. End
A Strange Day
The End Of The World
Jupiter Crash
Closedown
Lullaby
Before Three
The Drowning Man
Charlotte Sometimes
Lovesong
Sinking
Us Or Them
From The Edge Of The Deep Green Sea
One Hundred Years
Never
The Promise
In Between Days
Just Like Heaven
Boys Don't Cry
M
Play For Today
A Forest
Plainsong
Disintegration

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