Coughs

Fright Makes Right

2005 (Load)
folk-punk

Inizialmente stampato in tiratura limitata, quest'esordio dei chicagoani Coughs giunge al grande pubblico (si fa per dire…) grazie anche alle belle parole spese da Weasel Walter (Flying Luttenbachers), che tempo fa ebbe a definirli "l'ultima buona band da Chicago". E, infatti, la proposta del sestetto, guidato dalla voce sguaiata e febbrile di Anya Davidson, è di quelle che risaltano immediatamente sullo sfondo di un panorama troppo spesso asfittico e terribilmente legato a scene e scenette. Mistura vibrante di folk-punk à-la Violent Femmes (ma molto più incazzati) e obliqua free-form music con cartilagini funk in odore di Pop Group, la musica di questo "Fright Makes Right" assale senza remore dall'inizio alla fine, muovendosi con disinvoltura sempre sull'orlo del baratro e dell'esplosione ultra-noise.

Una poltiglia di suoni marci, deleteri e bruttissimi che compongono affreschi deformi, con tocco che si potrebbe definire "gestuale", anarchico. L'input è sempre quello della lacerazione di un tessuto che si riesce solo a immaginare come imparentato col rock, ma che, a ben vedere, veleggia verso il mare aperto della liberazione inconsulta, dileggiando un già aberrante kammerspiel con staffilate di rumor bianco ("Animal Hospital"), divertendosi in coro con banjo e cianfrusaglie ("Come Back To Me") o rivisitando il free-jazz "matematico" della Windy City con nevrastenici ramalama lobotomizzati ("Elephant").

Il sax barrisce rassegnato dietro la danza sinistra e sconvolta di "Elimidate", così come nel lied degradato di "Garter Snake". Altrove, saprà sibilare al limite delle sue possibilità, con accenti braxtoniani. Vertiginose cadenze industriali sono quelle della title track e di "I'm Just A Bill", momenti che santificano la carne viva di un suono tutto polpa, fino alle furibonde incursioni distruttive e ai fuochi di sbarramento di "Give Peace A Chance" (ironici, no?) o alle declamazioni dimesse ma sotterraneamente psicopatiche di "Narwahl", su ellissi minimaliste. La prodigiosa "Homeland" è uno dei vertici assoluti di quest'arte malsana e putrescente: rimasugli di melodia invasi da densissime colate di vetriolo. Musica che ama sfibrarsi senza pudore. Musica che il pudore ama svilirlo, ridurlo in catene; sbeffeggiarlo. Melma sonica. Cerchi che si chiudono, ingabbiando una psichedelia da manicomio ("Mail Order"). La "Penal Colony" è impenetrabile, come il suo tessuto puntellato di frequenze e percussioni da cerimonia infernale. E la Davidson che, imperterrita, blatera parole come urla nel buio, abbandonandosi all'istinto auto-distruttivo ("Photo Safari").

Catastrofi imminenti, in un'atmosfera sempre più cupa ("Starchitect"), annunciate da sincopi telluriche e da girotondi pazzoidi, di quelli che la gente imbastirebbe per far finta che il mondo non gli stia davvero svanendo sotto i piedi ("Stars And Stripes Whatever"). E se è vero che gli ultimi secondi tornano a intonare la stramba coralità di "Come Back To Me", è anche vero che ormai si tratta solo di uno stanco, inutile refrain: fisso su se stesso, tramortito da tanta furia omicida.

Tracklist

  1. Animal Hospital
  2. Come Back To Me
  3. Elephant
  4. Eliminate
  5. Fright Makes Right
  6. Garter Snake
  7. Gives Peace A Chance
  8. Homeland
  9. I'm Just A Bill
  10. Mail Order
  11. Narwahl
  12. Penal Colony
  13. Photo Safari
  14. Starchitect
  15. Stars & Stripes Whatever

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