Piccoli suoni per istanti preziosi. Minuscole particelle
timbriche adatte a giornate sporcate da nuvole grigie. Questa l'essenza del
disco. Spumosi pulviscoli di polvere screziano una manciata di canzoni.
Yuichiro Fujimoto fin dalla prima adolescenza è rimasto affascinato e
attratto dalle arti visive/sonore. Studia musica nel suo complesso, ma non
apprende mai le nozioni per suonare uno strumento specifico. Nei momenti liberi
s'ingegna per catturare e congelare istanti sonori, scampoli di freschezza,
aneliti di scintillante perfezione.
Cresciuto sotto l'ala
dell'artista-tutto-fare norvegese Kim Hiorthøy, compone piccoli bozzetti nei
suoi primi anni d'attività, che vengono racchiusi in quel gioiellino del nuovo
millennio che è "Komorebi". Straordinaria capacità di cesellare spaccati di pop
deviato. Estrema fantasia e capacità di uscire dagli stilemi del genere. Esordio
luccicante. L'etichetta che licenzia il disco è la coraggiosa Smalltown
Supersound, straordinaria realtà della musica altra d'oggi giorno.
A
distanza di un anno esce "Kinoe" su Audio Dregs.
Bolle d'aria stratificata
veleggiano un cielo statico, praline di zuccherosa dolcezza spumeggiano nello
spazio, trasparenti linee circolari raffigurano disegni d'infantile ingenuità.
"Kinoe" ha le sembianze di una stanza vuota. Rumori di sottofondo riescono a
spezzare un ammorbante silenzio d'intensità fuori dal comune. Una stanza sola.
Solitaria. Rannicchiarsi nell'angolo più scabroso e iniziare a vaneggiare un
paesaggio immacolato. Orizzonti di timida felicità. Spazi infiniti di celestiale
bellezza. Colori, sfumature, particolari, aneliti, luce, buio,
genesi.
Dopo i 20 secondi di rumorosa intimità di "In The Groove" il
tragitto inizia con "Drawing Of Stars". Titolo fu mai più adatto. Scintillante
xilofono con cadenza regolare si presenta e con tocchi di delicatezza angelica
disegna le stelle. Sparse in cielo. Disordinate e sfavillanti. Minimali fraseggi
di organo trattato con un segno marcato effigiano un cielo scuro e orrendo.
Sporadici accordi di chitarra completano l'opera rendendola perfetta e
perfettibile allo stesso tempo. Sul finire il rumore più puro satura lo spazio
sonoro e non si percepisce altro che il sentore di una catastrofe interstellare.
Sei minuti in cui la pace regna con fermezza assoluta.
La successiva
"After Rain" lascia senza parole. Ancora uno xilofono (e cosa sennò?) disegna
ricami ritmici di visionarietà terrena. Note si incontrano, sbattono,
ricircolano, fluiscono, combattono. Con lo scorrere dei secondi la base
s'imbastardisce con rigurgiti digitali. Intorno al baricentro del pezzo c'inonda
una centrifuga di bleep. Casuali animaletti timbrici zampettano ovunque
nella nostra mente. Saltellanti esseri rimbalzano per le pareti immaginarie come
una pallina di un flipper proveniente da Marte. Tutto ciò dura soltanto 4
minuti, ma vorremmo che non finisse mai.
L'introduzione di "Morning
Dance" lascia presagire un pezzo un pochetto più movimentato. Percussioni in
sottofondo a mo' d'accompagnamento e una fisarmonica in primo piano impegnata a
ricamare una sinuosa linea sonora.
Intorno al minuto uno schiocco di
lacerante intensità interrompe tutto. Entriamo in un tunnel buio e infinito.
Aria asfissiante e spazio compresso. Ora, la fisarmonica è lenta, scorbutica e
stanca. Un sottofondo di noise elettronici attraversano la nostra mente come un
coltello affilato taglia un pezzo di burro. Sporadiche acusticità variegate
impreziosiscono. Una suite per viaggi bui in una città situata in un
isola deserta dove il sole è oscurato.
Intermezzo di registrazioni
ambientali provenienti da un negozio di animali in "Cook Doodle Doo Is Music".
Sentiamo scimmie, uccelli e tutto ciò che la vostra fantasia faunistica possa
immaginare. Immacolati fraseggi di chitarra ri-compaiono puntualmente.
Bozzetto ultra-lo-fi per solo xilofono in "Kid Play. Mom Nap". Altra
gemma appartata e deliziosa.
Si sente una penna marchiare a fuoco i propri
segni su un foglio nella successiva "Without Mabataki". Con il lento trascorrere
dei secondi un'anima sonora si intromette e inizia a infettare i piccoli rumori
concreti. Completa (e)stasi. Fa capolino quasi d'incanto un pattern
elettro-(so)nico. Chitarre processate e spolpate iniziano a saturare la
struttura. Polvere analogica proveniente dal terreno di un pianeta fuori da ogni
sistema solare. Il nostro scrittore continua imperterrito a sporcare il suo
piano di lavoro. Termina la propria opera in un complesso intrecciarsi di
pattern ritmici. Ornamenti sonori per pittori spaziali.
Malinconica e straziante suite pianistica per esseri malati in
"Listen to Grandpa's Youth". Note minimali e sornione faticano a prendere il
largo con sicurezza. Un cuore d'altre epoche sanguina ininterrotto davanti a
questi 4 minuti. Menti romantiche sogneranno un futuro migliore all'udire tanta
pienezza. Rumori d'acqua purissima screziano il procedere, sul finire. Colonna
sonora per una notte da amare e odiare contemporaneamente. Tormentandosi davanti
ai propri errori e debolezze.
In punta di piedi e sorniona inizia la
successiva "Harmony". Svariati minuti di melodie spartane e povere. Uno
strumento a corde utilizzato per decantare le parole dell'anima. Semplice,
preciso, senza pretese. Al minuto due è catastrofe. Gli stessi suoni ingenui e
sinceri di prima vengono depredati da una macchina. Riprocessare un suono tanto
puro per renderlo macabro e scabroso. Sporadici scrosci di noise spumoso
avvelenano. Un organo proveniente dallo spazio interstellare sale di tono e
sovrasta ogni altro suono portando al completo rumore. Cristallino, pungente,
invadente. Reiterazione prolungata che sa di perfezione.
I sensi si
riposano in un dolce cullare di xilofono da ninna e percussione essenziale nel
minuto abbondante di "Sunday Music Club". Un suono scarno pieno di senso. Il
paradosso sta tutto qua.
Capolavoro di cristalline fattezze, poco dopo. "An
Octave Of Shells" è l'immersione in un mare profondo e oscuro. Sfrigolante
luccicare di un synth analogico, scoordinate note di piano alieno tratteggiano
un fondale infinito, movimentati rumori aumentano una pressione già a livelli
insostenibili. Gelo, solitudine, orizzonti, sensazioni.
Spaccato di
originalità compositiva, ancora palesata, nella penultima "Forest's Name".
Composizione completamente basata ancora su quella fisarmonica tanto odiata e
maltrattata in precedenza. Qua il suono esce sano e puro. Ancora il tanto amato
xilofono torna a fare la sua parte e, insieme a campanellini di vario genere,
orna e impreziosisce. Nessun trattamento estraneo. Limpido luccicare e
incontaminato vociare di strumenti classici.
Conclusione affidata a quei due
minuti scarsi di "Old Bird Tape". Lasciarsi andare al flemmatico andamento di
una chitarra a bassa fedeltà, ammirare lo strarnazzare scomposto di un'armonica
fuori posto e fuori luogo. Ma proprio per questo ammirevole.
Terminando
il racconto, si può parlare di un disco sognante e intoccabile. Una gemma dalla
perfezione chimica. Un quadro dai colori e tratti immaginifici. Una donna dal
corpo scultoreo. Un'opera da scoprire, amare e consumare.