Human Bell

La tradizione americana e il post-rock. Un matrimonio riuscito a metà in questo esordio omonimo (tralasciando un Ep del 2006) del progetto di Dave Heumann (ovvero, Arbouretum) e Nathan Bell (che dovreste, mi auguro, ricordare all’opera con i Lungfish), qui coadiuvati da un pò di amici: Matt Riley, Peter Townsend, Michael Turner e Ryan Rapsis.

Gli accordi sparsi al vento dalle chitarre, il senso “desertico” dello spazio, la carica emozionale dell’attesa dilatata, spesso fino a lambire le vertigini di una noia comunque mai indigesta. La "campana umana" assomiglia alla colonna sonora di un piccolo western psicologico, dove, invero, i buoni e i cattivi hanno fatto comunella, godendosi il paesaggio al tramonto, mani dietro la nuca, distesi nella polvere.

Intanto, dietro le impalcature armoniche, la ritmica segue placida e sorniona (anche quando è più “ in vista”, come nel caso di “Outposts Of Oblivion” o nella briosa carovana di “Hanging From The Rafters”) un filo nascosto fatto di equilibrio e grazia. Così, se “A Change In Fortunes” avvia le danze, “Splendor And Concealment” prosegue sospesa e “asciutta”, mentre “Hymn Amerika” sembrerebbe voler intessere un dialogo a distanza con quella tradizione che qualcuno ebbe a definire “american primitive guitar”, salvo restare un po’ troppo confinata in un recinto di timidezza per poter realizzare il sogno di ascoltare la “voce della tartaruga”.

Fanno meglio, rialzando con un vero e proprio colpo di coda le quotazioni di un disco comunque apprezzabile, la tenebrosa elegia rarefatta (con tromba fantasma) di “Ephaphatha (Be Opened)” e la distorta maestosità di una “The Singing Trees” che arriva anche a ricordarci i Paik. Il che non è poco, ma per questa volta è più un modo subdolo per farci accontentare…

06/02/2008