Quando un disco ha un brano come “Water Damage”, che parte con quegli accordi suonati con purezza sconsiderata, risuonanti di libertà, come nei Go-Betweens, allora capisci che sei finito nel posto giusto. Manco a farlo apposta, i Dick Diver vengono da Melbourne (“Calendar Days” è il loro secondo disco) e la loro musica riparte dall’indie-pop periferico degli oceanici e della Flying Nun per tentare non facili approdi personali.
Non è facile, infatti, in un genere che continua a produrre dischi meritevoli ma che pare non muoversi di un millimetro, trovare una strada minimamente originale. In questo caso, è il frontman Rupert Edwards a fornire quel lampo, quel riconoscimento istintivo che capita con poche band nel circuito. Il suo è un lamento che va dall’ironicamente stonato (“Languages Of Love”, che sembra una parodia del punk newyorkese) al roco romanticismo della già citata “Water Damage”, fino all’ubriachezza teatrale del “notturno” Waits-iano di “Boys”.
E le canzoni lo seguono, tra un lento in dolce progressione (“Amber”), un jangle-punk come “Bondi ‘98”, una scorpacciata di Sol (“Lime Green Shirt”, in odore di Paisley e di Real Estate), una rivisitazione West Coast come “Alice”.
A lui si alterna la batterista Steph Hughes (continuano le somiglianze...), nello sguaiato jangle-pop dotato di armonica della title track, nello stornello domestico di “Gap’s Life”.
Il tutto contribuisce a dare un’aria di grande varietà al disco: altra caratteristica non da poco, data anche dal fatto di avere più autori nella band.
25/03/2013