Nel cuore di Bamako, non lontano dal vivace mercato principale, è possibile imbattersi in un monumento dedicato alla memoria di Ali Farka Touré come tributo all'eredità artistica di uno dei musicisti più influenti dell'Africa occidentale. Divenuto a fine carriera un ambasciatore culturale del Mali, esibendosi nei più importanti festival internazionali e collaborando con artisti di tutto il mondo, Touré è stato un pioniere capace di combinare elementi tradizionali maliani con il blues americano, ridefinendo un genere e riportandolo alle sue radici ancestrali.
Ali Ibrahim Touré nacque nel 1939 nel villaggio di Kanau, nella regione di Timbuctù, nel nord del Mali. Sin da piccolo fu soprannominato "Farka", che significa "asino", simbolo di tenacia e forza, per sottolineare la sua proverbiale determinazione nel perseguire i suoi obiettivi. Touré apparteneva all’etnia Songhai, una comunità legata profondamente alle tradizioni orali e musicali della regione. Per questo entrò sin dalla tenera età in contatto con un ambiente in cui la musica era una componente importante. Nonostante la mancanza di sostegno iniziale da parte della famiglia, che non vedeva di buon occhio il suo desiderio di diventare musicista, Touré iniziò a suonare strumenti tradizionali della sua regione, come il ngoni e il njarka. Il suo primo incontro con la chitarra, lo strumento che lo avrebbe consacrato artisticamente, avvenne a dodici anni come raccontò lui stesso in un’intervista: durante un pellegrinaggio a Bamako, fu profondamente colpito da un musicista che si esibiva per strada e decise che quello strumento doveva diventare il suo mezzo espressivo principale. Questo incontro segnò l'inizio di un profondo interesse per i grandi bluesmen americani, come John Lee Hooker e Muddy Waters, le cui registrazioni erano arrivate fino al Mali e lo influenzarono più tardi nel plasmare il suo stile unico.
Nella prima parte della sua vita, Touré faticava a guadagnarsi da vivere come musicista cosicché per mantenersi svolse diversi lavori occasionali, mentre la sua attività musicale si limitava principalmente a suonare in cerimonie tradizionali e matrimoni. Nel 1960 fondò una piccola band, La Troupe 117, con la quale si esibì frequentemente in diversi palchi maliani e nel 1968, per la prima volta in Europa, nel festival internazionale delle arti di Sofia. Il momento di svolta arrivò quando, poco prima di compiere trenta anni, fu assunto come ingegnere del suono presso Radio Mali, all’epoca la principale emittente del paese. Questo impiego gli diede l’opportunità di entrare in contatto con molti musicisti locali e di ampliare notevolmente la sua conoscenza del repertorio musicale africano.
I primi lavori con Sonafric
Nel 1973, la sua partecipazione a un importante festival musicale a Bamako attirò l'attenzione di alcuni produttori. Fu in quella occasione che iniziarono le prime discussioni su un possibile progetto discografico. Sebbene alcune registrazioni fossero state prodotte per il mercato locale, queste rimasero confinate a una circolazione limitata e finirono per essere dimenticate a causa della mancanza di un adeguato supporto professionale e di produzione.
Il vero debutto discografico arrivò qualche anno dopo, quando l'etichetta francese Sonodisc si interessò a Touré. La sua sussidiaria Sonafric era alla ricerca di nuovi artisti africani da promuovere e riconobbe il suo talento, decidendo di produrre il suo primo album omonimo, Ali Farka Touré, pubblicato nel 1976.
L’album, con la sua durata contenuta di circa trenta minuti, scorre veloce e si ascolta con piacere, sostenuto unicamente dalla capacità artistica di Touré. Fra le tracce spiccano sicuramente il fresco e vivace “Karanda Bala Bozo” e l’outro “Biennale”, un pezzo semplice con un interessante assolo di chitarra con un testo che esorta gli ascoltatori a partecipare agli eventi culturali del paese. Molto bella anche la delicata ballata “Hali”, che si distingue per la sua dolce melodia vocale, una sorta di ninna nanna che culla l’ascoltatore, regalando un momento di calma in un disco per lo più dinamico.
Ascoltare questo lavoro rimane ancora oggi un'esperienza affascinante perché, nonostante gli arrangiamenti semplici e i mezzi di produzione limitati, si possono già percepire chiaramente i prodromi di quella che sarebbe stata una rivoluzione musicale. Le strutture ritmiche guardano indietro, ispirandosi ai canti tradizionali del Mali, ma le melodie puntano lontano, verso l'America, rivelando evidenti connessioni con il blues. Touré, tuttavia, non amava questa lettura: per lui, il vero punto di partenza era sempre stato la tradizione africana, matrice originaria alla quale anche il blues moderno è profondamente debitore.
A partire da questo album, inizia per Ali Farka Touré un periodo particolarmente prolifico e fortunato, caratterizzato da una serie di pubblicazioni significative. Tra il 1976 e il 1979, lancia quattro album omonimi, che culminano con Ali Touré dit 'Farka', in cui chiarisce che “Farka” è solo un soprannome. Questi lavori, tutti brevi (da quattro a sei brani ciascuno) e pensati principalmente per il mercato locale, offrono uno spaccato autentico della vita nelle zone rurali del Mali. Nei testi, Touré racconta le aspirazioni e le difficoltà del suo popolo, spesso ricorrendo a uno stile narrativo quasi recitativo che richiama la tradizione dei griot, i cantastorie dell'Africa occidentale. Un esempio perfetto di questo approccio è "Bandaloborou" (1976), una traccia ironica che descrive la vicenda di un villaggio assediato da un leone feroce: gli uomini si vantano di non avere paura, ma quando arriva il momento di agire, trovano scuse esilaranti per evitare di affrontare la belva.
Uno degli aspetti più affascinanti di questi primi lavori è l’evoluzione costante e consapevole del suo esperimento di fusione tra elementi blues e musica tradizionale africana. Ad esempio, l’assolo di chitarra in "Manakoide" (1976) è assolutamente innovativo, ma la sezione vocale è ancora fortemente radicata nella tradizione locale. Tuttavia, con brani come "Sabou" e "Yerkoy" (1977), le due tradizioni apparentemente contrapposte cominciano a interagire e integrarsi maggiormente. L’evoluzione stilistica è ancora più evidente nell’album del 1979: “Yer Sabou Yerkoy" e "Yer Mali Gakoyoyo", con il loro approccio ritmico e vivace, mostrano che l’artista ha ormai acquisito una piena una maturità stilistica.
Bisognerà attendere ancora qualche anno, però, affinché la musica di Touré si affermi a livello internazionale. Nel 1984 pubblica un album senza titolo che rappresenta un vero spartiacque artistico della sua carriera. Universalmente noto come Red per il colore della sua copertina, questo lavoro segna l'inizio della sua fama mondiale in gran parte grazie alla scoperta fortuita da parte del dj britannico Andy Kershaw e del produttore Nick Gold, fondatore della World Circuit Records, che lo hanno portato al pubblico europeo e americano in un periodo in cui la world music stava guadagnando rilevanza. L’album è composto da otto tracce che, seppur scarne all’apparenza, si rivelano estremamente evocative, grazie a una complessità ritmica e melodica che si nasconde dietro una struttura essenziale. Ad affiancarlo, il percussionista Hama Sankare, che, con il suo tocco minimalista a una zucca usata come strumento a percussione, fornisce un ritmo semplice ma potente.
Touré costruisce ogni brano attorno a una progressione sicura e stabile, esplorando melodie midtempo attraverso complesse interazioni tra chitarra e voce. L’outro dell’album, "La drogue", è un pezzo trascinato dalla voce cantilenante di Touré che si intreccia alla melodia della chitarra a tratti sognante e a tratti dura e percussiva. "Cherie", invece, porta il disco su tonalità più romantiche e soffuse, con un motivo più morbido, che trasmette una sensazione di intimità, quasi come una conversazione sussurrata tra amanti.
In contrasto, "Ali Aoudy" e "Timbindy" offrono un groove di chitarra più fluido e coinvolgente, dimostrando l'abilità di Touré nel fondere il blues con la musica mandinga. La sua chitarra guida ogni brano come se fosse una naturale estensione della sua voce, creando un'atmosfera rilassata ma vibrante.
Un'altra traccia che merita menzione è "Lalayche", che si distingue per la sua struttura più meditativa. Qui la chitarra di Touré adotta un tono quasi ipnotico, con ripetizioni che sembrano richiamare antichi canti spirituali del Sahel, mentre la voce fluttua sopra la melodia raggiungendo tonalità elevatissime. "Baliky Lalo", invece, si muove su ritmi più dinamici e sincopati, con una fusione fra la voce principale e quella del coro in un crescendo energico e coinvolgente.
In tutto l’album, Touré dimostra come non sia più solo lui ad assorbire il blues, ma come il blues stesso venga trasformato e riadattato dalla sua musica. Si potrebbe dire che questo lavoro diventerà un pilastro fondamentale di quello che più tardi sarà definito come "desert rock".
L’album successivo, pubblicato quattro anni più tardi è ancora senza nome e verrà conosciuto come Green per il colore della copertina (un paio di anni più tardi sarà anche ripubblicato sotto un’altra etichetta con il nome di African Blues). La traccia di apertura, "Sidi Gouro", si costruisce su una linea di chitarra magnetica che si ripete in un loop ossessivo, mentre la voce di Touré narra racconti antichi della tradizione. Il ritmo è minimalista, sostenuto da percussioni delicate che lasciano ampio spazio al dialogo tra la chitarra e la voce. Questa è una traccia stilistica di tutto il lavoro, forse meno immediato del suo predecessore, ma più denso e riflessivo. La melodia cantilenante e monotona di "Devele Wague" pare quasi una preghiera; più tardi in "N'timbara" e"M'baudy" anche la voce si fa malinconica e il ritmo dolente.
Esistono anche tracce dai ritmi più sostenuti: “Zona", ad esempio, è fluida e incalzante con la chitarra e le percussioni che si muovono in sincronia perfetta, creando un groove che invita alla danza. Uno dei brani più affascinanti dell'album è "Petenere", che fonde elementi della musica tradizionale ma ha il suo punto di forza nel gioco di inseguimenti fra la chitarra e la voce che si rincorrono, con il canto che diventa a tratti parlato e a tratti estremamente modulato. La traccia finale, "L'Exode", chiude l’album con un tono solenne e riflessivo, come si conviene a un brano che tratta un tema delicato come quello dell’esodo forzato dalla propria terra.
Le prime grandi produzioni
Con l’interesse della World Circuit Records, si apre una nuova fase nella carriera di un Ali Farka Touré, ormai vicino ai cinquant'anni. Nel 1988 gli viene offerta la possibilità di registrare un album a Londra come debutto con una grande etichetta di produzione. Questo Lp, ancora una volta omonimo, è celebre soprattutto per “Amandrai”, una delle tracce più iconiche della sua discografia, presentata sia in studio che in versione live. Superando i sette minuti di durata, il brano si sviluppa lentamente, con un delicato pizzicato della chitarra che gradualmente si arricchisce di sottili variazioni armoniche e ripetizioni cicliche inframezzate da brevi pause. La voce di Touré entra in punta di piedi, seguendo la chitarra come una seconda linea melodica, intrecciandosi con essa senza mai sovrastarla. Si tratta senza dubbio di un pezzo che ha meritato la fama che ha riscosso, ma sarebbe riduttivo soffermarsi solo su di esso, trascurando le altre gemme che compongono l’album.
"Timbarma" inaugura il disco con un pizzicare sottile e sinuoso, in cui Touré costruisce un’atmosfera dinamica ma mai eccessiva. Qui, come in gran parte dell'album, è la chitarra a farsi carico della narrazione musicale, srotolandosi con una fluidità che sembra sempre sotto controllo, senza mai scivolare nel virtuosismo fine a sé stesso. In "Nawiye", la chitarra si sdoppia su diversi registri tonali, creando una tessitura intricata e avvolgente. Touré dimostra la sua abilità anche quando si sottrae: in "Singiya", per esempio, costruisce il brano su momenti di stasi e ripartenze, alimentando una tensione silenziosa e costante. Ogni interruzione sembra preparare il terreno per il prossimo movimento. In "Kadi Kadi", le percussioni, di solito discrete e di accompagnamento, assumono un ruolo prominente, conferendo al brano un’energia ritmica che si muove sotto la superficie della melodia. Tutti gli strumenti, compresi quelli a percussione, sono suonati da Touré, che dimostra un’assoluta versatilità. Fa eccezione “Amandrai”, che vanta una collaborazione con Toumani Diabate, alle prese con il calabash.
Nel 1990, Ali Farka Touré pubblica The River, un album che rappresenta un momento cruciale nella sua carriera, condensando le migliori qualità della sua musica e segnando un vero punto di non ritorno non solo per il suo percorso artistico, ma anche per il mondo del blues e della musica tradizionale. In questo lavoro, Touré riesce a bilanciare la sua peculiare tecnica chitarristica con la partecipazione di numerosi collaboratori che, attraverso i vari brani, arricchiscono l'album con l'introduzione di strumenti più “occidentali” (armonica, sassofono), creando così un'ampiezza sonora inedita nel suo repertorio.
Le note del libretto che accompagnano l'album sono particolarmente preziose, poiché forniscono un contesto culturale e storico delle canzoni, permettendo all'ascoltatore di comprendere le narrazioni e i riferimenti che attraversano il disco. Molte delle tracce sono ambientate lungo le rive del fiume Niger, un elemento centrale nella sua vita e nella cultura del suo popolo. Il corso d'acqua, oltre a essere fonte di sostentamento e connessione tra le persone, diventa un simbolo del fluire del tempo, del movimento e della trasformazione che Touré stesso cattura attraverso la sua musica.
Dal punto di vista musicale, The River rappresenta una sintesi affascinante di elementi tradizionali e moderni. In "Toungere," Touré narra di una lotta epica tra un uomo e un leone per conquistare la mano dell’amata, un racconto antico tramandato di generazione in generazione. Il brano ha una forza quasi mitica, con la chitarra che si apre a orizzonti vasti, spingendosi verso l'infinito e anticipando le sonorità che anni dopo avrebbero caratterizzato gruppi come i Tinariwen. In "Lobo," l’atmosfera cambia completamente: la chitarra si fa melodica e intima, accompagnando una storia d’amore semplice ma intensa, in cui la bellezza della donna amata viene paragonata alla delicatezza e alla serenità di un tramonto.
Con "Heygana," Touré ci conduce invece in un’atmosfera selvaggia e viscerale. Qui emerge una forte componente blues, ma rielaborata con uno stile unico: schitarrate irruente, assoli potenti di armonica e un coro evocativo che dipinge paesaggi di montagne incantate e misteriose voci lontane. Brani come "Kenouna", "Tamala" e "Boyrei" affondano le loro radici nei canti tradizionali del Mali con la voce di Touré che sembra provenire da epoche remote, con una qualità quasi atemporale, che si mescola a arrangiamenti minimali, ma efficaci.
La forza ritmica di questi pezzi evoca immagini di comunità e riti ancestrali, mantenendo vivo il legame con una cultura che si tramanda oralmente da secoli. "Ai Bine" e "Tangambara" si distinguono per la saggezza popolare contenuta nei loro testi. In particolare, "Ai Bine" è un pezzo straordinario, che fonde droni ipnotici con il suono avvolgente del sassofono tenore di Steve Williamson, creando un intreccio musicale dove il blues occidentale e quello africano sembrano convergere in un punto quasi indistinguibile. Eppure, nonostante questa fusione, la canzone non perde nulla dell’identità musicale di Touré, mantenendo la sua essenza intatta e autentica.
Il riconoscimento internazionale
Ali Farka Touré si afferma con The River come un maestro indiscusso e ottiene diverse proposte di collaborazione da parte di artisti blues americani affermati. Tale interesse si concretizza in particolare con i successivi due lavori The Source e Talking To Timbuctu, che vedono la partecipazione rispettivamente di due mostri sacri come Taj Mahal e Ry Cooder.
The Source viene pubblicato nel 1992 e riesce a balzare addirittura in prima posizione nella classifica Billboard dedicata alla world music. L‘inizio è di grande impatto con la notevole outro “Goye Kur”, una straordinaria ridda di suoni con una chitarra elettrica selvaggia che si mescola alla njarka, un piccolo violino a una corda, e ai ritmi serrati delle percussioni. In “Inchana Massina”, Touré si avventura in un particolare dialogo fra il desert blues e le sonorità indiane, grazie alla partecipazione nel brano di Nitin Sawhney alle tabla. Uno dei momenti più memorabili del disco è sicuramente “Roucky”, dove Touré collabora con Taj Mahal, un gigante del blues americano. In questo brano, le chitarre di Touré e Mahal dialogano con una naturalezza sorprendente, come se le distanze geografiche e culturali non fossero mai esistite. La partecipazione discreta del chitarrista statunitense aggiunge una sfumatura calda e intima, che completa ma non sovrasta la chitarra acustica di Touré.
The Source si distingue anche per la sua varietà stilistica: “Cinquante Six” è, ad esempio, un eclettico esercizio che mescola folk, flamenco e blues. In “Dofana” uno spoken word in francese emerge improvvisamente tra le voci tradizionali, in “Mahini Me” introduce un tocco di swing, con Taj Mahal che torna ad affiancare Touré, ma questa volta suonando in modo più libero e rilassato, quasi come se i due artisti stessero improvvisando in una jam session all’aria aperta.
Fin dal primo ascolto, The Source trasmette una sensazione di completezza, come se ogni brano fosse un tassello essenziale di un mosaico più ampio. Ogni collaborazione e ogni sperimentazione sonora si intrecciano perfettamente, trovando il loro posto in un insieme che risulta semplicemente perfetto.
Talking to Timbuktu nasce dalla determinazione di Ry Cooder di collaborare con Ali Farka Touré. D’altronde la proverbiale curiosità musicale di Cooder, il suo desiderio di esplorare nuove influenze e la comune passione per il blues rendono questa unione quasi inevitabile. Registrato in soli tre giorni, approfittando della permanenza di Touré negli Stati Uniti per un tour, l'album evidenzia l’empatia e la collaborazione tra i due artisti. Cooder, pur essendo un musicista di straordinario spessore, non cerca mai di imporsi; al contrario, si pone l’obiettivo di aiutare l’amico a rendere il suo sound maggiormente fruibile per il mercato occidentale.
Le tracce del disco sono quasi tutte composte da Touré, a eccezione dell'ultima, che è un canto tradizionale. Tra queste, si trova anche "Amandrai", un brano già apparso in Red, che qui acquisisce nuova profondità grazie alla presenza di Cooder. L'album vede la partecipazione di grandi nomi come John Patitucci (Herbie Hancock, Natalie Cole, Chick Corea) al basso, Clarence Gatemouth Brown (incluso nella “Blues Hall of Fame”) alla chitarra e alla viola e Jimmy Keltner (John Lennon, Attitudes) alla batteria.
Inevitabilmente, considerando la statura dei musicisti e la poca conoscenza reciproca, Talking To Timbuctu è soprattutto uno straordinario esempio di maestria strumentale. In alcuni momenti le parti vocali appesantiscono leggermente il flusso musicale. Tuttavia,l'equilibrio tra i musicisti è perfetto, e le loro interazioni risultano complementari.
L'apertura con "Bonde" vede i due musicisti principali sperimentare strumenti non consueti: Touré suona il banjo oltre alla chitarra elettrica, mentre Cooder aggiunge il cümbüş, una variante turca senza tasti del banjo, creando un'atmosfera che unisce Africa, America e Medio Oriente. In "Gomni", le delicate percussioni si stratificano gradualmente, mentre “Lasidan” è costruita su continue oscillazioni che includono battiti di mani e percussioni nell’immancabile zucca. Prima della conclusiva “Diaraby”, tratta da un canto tradizionale Bambara, troviamo la memorabile “Ai Du”, un brano che funge da vero e proprio parterre d'onore, offrendo spazio a tutti i musicisti chiave dell'album. Le slide guitar si fondono magistralmente con le ritmiche africane, instaurando un dialogo brillante con il fingerpicking e il fraseggio melodico di Ali Farka Touré. Il risultato è una perfetta commistione di linguaggi musicali, dove elementi occidentali e africani si incontrano e si arricchiscono a vicenda, dando vita a una sintesi che diventerà un modello di riferimento per le future generazioni di bluesmen (del deserto e non solo).
Il ritorno alle origini
Il successo di Talking To Timbuktu fu straordinario per Ali Farka Touré, tanto da fargli vincere un Grammy Award, prima volta per un artista maliano. Tuttavia, anziché sfruttare l'occasione per ampliare ulteriormente la sua carriera internazionale, Touré prese una decisione sorprendente: decise di tornare alle sue radici, tanto musicalmente quanto personalmente. Si ritirò nella città in cui aveva preso residenza, Niafunké, alla quale nel 1999 dedicò pure un album, registrato con mezzi semplici, molto lontani dagli studi sofisticati che avevano caratterizzato le sue produzioni degli anni precedenti.
Niafunké segna un ritorno a una dimensione più "etnica" e autentica, con linee di chitarra circolari e ronzanti che si intrecciano e con canti che evocano atmosfere arcaiche e rituali. Le melodie sono costruite attorno a strutture scarne che si ripetono circolarmente. La registrazione ha il sapore di un'esibizione dal vivo in un villaggio, con molte tracce catturate al primo tentativo, senza cercare la perfezione. Il livello della produzione rimane, ad ogni modo, adeguato, valorizzando la varietà ritmica dell'album: si passa da momenti vibranti e dinamici ("Ali's Here") a sonorità più tradizionali, scandite da battiti di mano celebrativi ("Allah Uya"). I cori gioiosi di "Mali Dje" contrastano con gli archi inquieti di "Saukare". Naturalmente, è la chitarra di Touré a imporsi su tutto, con assoli ampi che paiono spingersi verso l’infinito ("Tulumba", "ASCO").
Oltre al suo contributo artistico, Ali Farka Touré dedica gran parte del suo successo al miglioramento di Niafunké. Grazie ai proventi del suo lavoro discografico, finanzia la costruzione di infrastrutture essenziali come strade, una rete fognaria e un generatore di energia elettrica, rendendo decisamente più confortevole la qualità della vita locale. Inoltre, promuove volentieri artisti emergenti, cercando di far conoscere la ricchezza musicale del suo paese.
Nonostante fosse afflitto da una malattia debilitante, nel 2005 accetta la candidatura a sindaco di Niafunké, continuando a impegnarsi per la sua comunità. Dopo un lungo periodo di silenzio musicale, interrotto solo dalla breve collaborazione nel progetto “Mississippi To Mali” di Corey Harris nel 2003, Ali Farka Touré decide di tornare in studio. Accetta di collaborare con il maestro Toumani Diabaté che lo aveva già affiancato nel debutto discografico con il circuito World Records, per quello che sarà il fortunato In The Heart Of The Moon. Come Talking To Timbuktu, questo album viene registrato in soli tre giorni e, curiosamente, segue le orme del predecessore vincendo un Grammy Award.
Con questo lavoro, Ali Farka Touré compie una trasformazione sorprendente, reinventando il proprio stile con una delicatezza inedita. In effetti, i due musicisti provenivano da contesti così diversi che questa collaborazione risulta ancor più esotica rispetto a quelle che l’abile chitarrista aveva intrapreso negli anni precedenti con i suoi amici statunitensi. La sua chitarra si dispiega in modo fluido e sereno, abbandonando le tensioni tipiche del suo blues e adattandosi in modo naturale al dialogo intimo con la kora, l’antica arpa africana a 21 corde di cui Toumani Diabaté è maestro indiscusso. Qui le melodie si intrecciano con una precisione sobria, senza virtuosismi superflui, ma capaci di avvolgere l’ascoltatore in una trama ipnotica e coinvolgente (“Kadi Kadi”, “Simbo”, “Gomni”), placida e rilassante (“Debe”, “Kala”) o elegante e maestosa (“Mamadou Botiquer”). La produzione di Nick Gold aggiunge tocchi sottili e intelligenti che arricchiscono il sound senza mai sovraccaricarlo. In “Madame Boutiquer”, un pianoforte appena accennato crea un’atmosfera eterea e malinconica. In “Ai Ga Bani” il piano suonato da Ry Cooder si inserisce con garbo mescolandosi alla chitarra di Touré; in “Gomni”, la presenza del maestro cubano Orlando “Cachaito” Lopez (Buena Vista Social Club) al basso e di Joachim Cooder e Olalekan Babalola alle percussioni infonde al brano una ritmicità vibrante e un’energia contagiosa, culminando in un entusiasta scroscio di applausi finale.
Tra i pezzi più curiosi, spicca “Monsieur Le Maire de Niafunké”, un omaggio scherzoso di Diabaté a Touré, che celebra con leggerezza l’incarico di sindaco dell’amico e che dimostra il loro affetto reciproco.
Simultaneamente alla registrazione di In The Heart Of The Moon, Touré dedicò alcuni giorni anche a registrare Savane in un Mandé Hotel di Bamako ormai divenuto il suo quartiere generale dal punto di vista musicale. L’album sarà tristemente ricordato come l’ultimo prodotto mentre era in vita: poco prima della sua uscita, infatti, Touré morì al termine di una lunga battaglia contro il male che lo affliggeva. Inevitabilmente molti lo hanno definito come il suo album testamento. Eppure, non appare come l’opera di un artista giunto al tramonto, ma piuttosto di un maestro che aveva ancora molto da dare.
L’album si apre con l’intensissima “Erdi”, in cui chitarre irrequiete e pungenti si intrecciano a un’armonica blues minacciosa suonata da Little George Sueref. I ritmi cambiano in un battibaleno con la placida e riflessiva “Yer Bounda Fara” e con la title track, una delle canzoni più eminenti della sua discografia, dominata da una chitarra elettrica malinconica e spagnoleggiante, che si si addentra in una giungla sonora che include strumenti a percussione della tradizione e un'intricata foresta di ngoni che alternano passaggi barocchi e sfumature selvagge, a tratti incontrollate.
L’album è arricchito da una straordinaria partecipazione di artisti: in “Penda Yoro,” il fedelissimo Afel Bocoum e una pletora di musicisti locali si contrappongono al canto di Ali Farka, mentre in “Banga” il flauto vellutato di Yacouba Moumoni accompagna la sua chitarra e il calabash di Souleye Kané. “Hanana” è un’esplosione festosa di suoni, con la njarka e il bolon a dare vita a un’intensa danza musicale. La chiusura con “N’Jarou” vede la partecipazione speciale di Pee Wee Ellis al sax, che inizialmente si fonde con il coro e la voce di Ali per poi accompagnare, in un crescendo appassionato, l’ultimo entusiasmante assolo di Touré.
La scomparsa di Ali Farka Touré suscitò un’enorme commozione in tutto il paese, che gli rese omaggio con funerali molto partecipati nel villaggio della regione di Timbuctù, al confine tra Sahel e Sahara in cui fu tumulato. Ma il chitarrista maliano aveva preparato un’altra gemma prima di andarsene, pubblicata postuma nel 2010: il meraviglioso Ali And Toumani, registrato a Londra durante un breve tour europeo condiviso con Toumani Diabaté.
Questo album è perfino superiore a In The Heart Of The Moon, più raffinato e curato grazie a una post-produzione più lunga e a risorse tecniche ben superiori a quelle dell’hotel di Bamako dove avevano registrato il primo disco. Inoltre, nel frattempo, i due musicisti avevano anche avuto modo di approfondire la loro conoscenza, rendendo il loro legame musicale più solido e naturale.
Il risultato è un album dolce e malinconico, una sorta di ultimo saluto alla musica. Le sessioni di registrazione furono tormentate: Touré, ormai gravemente malato, era spesso costretto a interrompersi a causa di dolori insopportabili. Molti pezzi sono toccanti tributi a persone che hanno significato molto per Touré: “Ruby” è intitolata alla figlia di Nick Gold, produttore dell’album; “Bè Mankan” celebra la memoria di Alpha Yaya Diallo, guerriero della Guinea Conakry; “Warbé” è un omaggio agli uomini coraggiosi che lottano per proteggere il loro popolo. Comprende diversi brani tradizionali (sia della musica del Mali settentrionale di cui Touré era il più famoso ambasciatore sia della musica mandé meridionale di Diabaté), tra cui “Sina Mory,” un pezzo che aveva folgorato Touré nel 1956 quando lo sentì suonato alla chitarra da Keita Fodeba. Fu nel tentativo di riprodurlo per conto proprio che, come raccontò, mise tutta la sua tenacia per imparare seriamente a suonare la chitarra.
Un altro brano, “Sabou Yerkoi,” è un classico che Touré suonava fin dagli anni 60, qui rivisitato in una versione cubana (ma cantata in lingua songhai) in onore dell’amico Orlando Lopez, presente al basso in buona parte dell’album. Il pezzo vede anche la partecipazione del figlio di Touré, Vieux, che suona le congas.
Questo album, ultimo lascito di Touré, incarna appieno la sua arte e, grazie alla sua ricchezza melodica, può rappresentare un eccellente punto di partenza per chi vuole immergersi nella sua opera (anche se si consiglia di esplorare i lavori precedenti per cogliere il suo lato più audace). Naturalmente, questo non sminuisce l'enorme contributo di Diabaté, il cui apporto è stato decisivo. Basti pensare al meraviglioso trittico finale: “Fantasy,” un brano inedito composto da lui, in cui Touré crea una serie di frasi di ancoraggio; “Machengoidi,” una rielaborazione di un vecchio pezzo di Touré qui trasformato e riadattato su un tappeto sonoro di kora; e “Kala Djula,” un inno griot dedicato alla stirpe dei Diabaté (“Ogni volta che incontrerai un Diabaté, troverai qualcosa di dorato nelle sue tasche, almeno un grammo d’oro”).
I tesori nascosti
Per un artista come Touré, che ha vissuto la musica come espressione dal vivo e improvvisazione, la discografia ufficiale è solo una finestra su un immenso patrimonio musicale. Dopo la sua morte, il figlio Vieux si è impegnato con determinazione a tutelare questo vasto lascito. Nel 2022, insieme a Nick Gold, ha prodotto Voyageur, un album che raccoglie registrazioni inedite degli anni 90, spesso nate da jam session e prove di concerti. Data la varietà delle origini, le nove tracce non mirano a una coerenza stilistica.
L'apertura dell'album, "Safari" (che in swahili significa “voyage”), è costruita su una melodia tradizionale ricca di cori, ritmi decisi di calabash e leggeri tocchi di flauto, su cui Touré intesse un assolo avvolgente e sicuro di chitarra. “Sambadio” viene presentato in due versioni: una acustica, animata da un ritmo serrato di zucca e una linea vocale incalzante, e una elettrica, dai toni più jazz, grazie anche alla presenza magnetica del sax di Steve Williamson.
Tre tracce vedono la preziosa partecipazione di Oumou Sangaré, raffinata cantautrice maliana: i due si divertono a giocare con la tradizione della chiamata e risposta in “Bandoloborou” e intrecciano le loro voci in “Cherie”. In “Sadjona”, Sangaré celebra la grandezza di Touré riutilizzando un brano tradizionale Wassoulou dedicato ai cacciatori. Nella traccia finale, “Kombo Galia”, la voce di Touré apre il brano, preludendo a una lunga melodia di chitarra arricchita da riff sinuosi e fiati nervosi. Il cantante maliano esegue intervalli e armonie con tale naturalezza da rendere complessa la percezione della loro difficoltà. Gli intricati fraseggi vocali sfumano e quasi svaniscono immerse nel groove avvolgente delle corde pizzicate, che si muovono rapide e sicure.
Un “Ok” convinto e un applauso lasciato nella registrazione chiudono una delle più straordinarie avventure musicali di cui ci è stato concesso di essere testimoni.
ALI FARKA TOURE' | ||
Ali Farka Tourè(Sonafric, 1976) | 7 | |
Ali Tourè "Farka"(Sonafric, 1976) | 6 | |
Ali Tourè "Farka" Special Biennale du Mali(Sonafric, 1976) | 6 | |
Ali Tourè "Farka"(Sonafric, 1977) | 6,5 | |
Ali Tourè dit "Farka"(Sonafric, 1979) | 6,5 | |
Ali Farka Tourè (Red)(Sonafric/Esperance, 1984) | 8 | |
Ali Farka Tourè (Green)(Sonafric/Esperance, 1988) | 7 | |
Ali Farka Tourè(World Circuit, 1988) | 8 | |
The River(World Circuit, 1990) | 8,5 | |
The Source(World Circuit,1992) | 9 | |
Talking Timbuctu (with Ry Cooder) (World Circuit,1994) | 7,5 | |
Radio Mali(Compilation, World Circuit, 1996) | ||
Niafunkè(World Circuit, 1999) | 7 | |
Savane(World Circuit, 2006) | 7,5 | |
Voyageur(World Circuit, 2023) | 6,5 | |
ALI FARKA TOURE' - TOUMANI DIABATE' | ||
In The Heart Of The Moon(World Circuit, 2005) | 7 | |
Ali And Toumani(World Circuit, 2010) | 8 |
Amandrai (da Ali Farka Tourè, 1988) | |
Diaraby (da Talking Timbuctu, 1994) | |
Debe (da In The Heart Of The Moon, 2005) | |
Savane (da Savane, 2006) | |
Kala Djula (da Ali And Toumani, 2010) | |
Sabu Yerkoy (da Ali And Toumani, 2010) | |
Cherie (da Voyageur, 2023) |
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Testi e traduzioni | |