Benjamin Clementine

The boy who crossed the channel

intervista di Cosimo Cirillo

In occasione del lancio del suo album d’esordio, “At Least For Now”, abbiamo avuto occasione di fare due chiacchiere con Benjamin Clementine.
Chi è questo ragazzo, fino a un mese quasi totalmente sconosciuto agli italiani? Se avete avuto occasione di vederlo durante “Che Tempo Che Fa”, o se avete letto la nostra recensione, magari qualcosa la sapete già: nasce a Londra, si trasferisce poi a Parigi, in tanti lo notano (tra cui Sir Paul McCartney) e di lì via.
L’impressione che si ha ascoltandolo è di saggezza, nonostante la giovane età (26 anni). Poco fa il suo pubblico erano i pendolari del Métro di Parigi, ora incanta l’Europa, ma a sentirlo parlare le cose importanti sono altre. Sembra a tratti inconsapevole del suo enorme dono, forse perché l’ha trovato lì per strada, quasi per caso, quando il fratello ha portato un piano in casa. O forse perché ha dovuto faticare, all’inizio, per farsi capire. Ha trovato aule chiuse a chiave, come leggerete, e ha dovuto fuggire dal suo paese natale perché “nessuno può essere profeta in patria”.
Quando entra nella sala è ancora infreddolito. Si siede, chiede un tea - ma senza croissant, cit. - e si può cominciare.

Quando hai iniziato a suonare? E come?
Ho iniziato a suonare il piano quando avevo dieci anni più o meno. Lo comprò mio fratello. Provavo a suonarlo, mi piacevano i suoni. Ne ero affascinato. Non volevo propriamente suonare. Invece mio fratello sì, lui aveva un maestro, ma poi si arrese dopo qualche mese.

Che tipo di piano era?

Era un piano verticale Yamaha. Insomma mio fratello riuscì a prendere questo piano e portarlo a casa. Voleva imparare a suonare perché era molto appassionato a quel tempo. Ma sfortunatamente per lui io imparai a suonare meglio (ride, ndr).
Iniziai ascoltando un po’ di musica classica, di quella semplice come ad esempio Satie. O anche new age. Non erano brani ricchi o difficili: sempre gli stessi giri ripetuti. Perciò mi limitavo a trovare la tonalità e suonare. E una nota ha portato all’altra.

Suonavi anche cover?

Sì, “Imagine” di John Lennon per esempio, per colpire mio fratello. Ma non mi piaceva la musica pop, era troppo semplice. Mi piaceva di più la classica. Ma presto la classica si rivelò troppo difficile. Perciò suonavo solo quello che riuscivo ad ascoltare e riprodurre.

Hai mai avuto un insegnante?

No, mai. Ma c’era un insegnante a scuola, un professore di storia, che aveva un piano in classe. E ogni giorno dopo le lezioni andavo a suonarlo. A volte era lì, a volte no. Un giorno stavo suonando quando la preside entrò e disse: “Oh Benjamin, come suoni bene!”. Ma il giorno dopo trovai la classe chiusa a chiave e quindi no, non era stata sincera! Per lei facevo solo rumore. Insomma, non ho mai avuto un vero insegnante: penso che i miei maestri siano stati la radio e la musica classica.

La tua musica sembra molto legata appunto al piano. E’ così o ci sono brani nell’album scritti magari suonando altri strumenti? E immagini in un futuro di scrivere musica non pensata per il piano?
Alcune delle canzoni dell’album effettivamente non sono nate al piano. “Cornerstone”, per esempio. Se ci credi, è stata scritta alla chitarra. E poi un giorno la provai al piano e sentii che suonava meglio!  Ad un certo punto il piano iniziò a sembrarmi lo strumento attraverso il quale potessi esprimermi meglio. Quindi, visto che sentivo che era il mio principale strumento, perché non fare tutto l’album al piano? Ma in futuro, credo proprio che inserirò anche la chitarra nelle mie canzoni.

Un altro stupendo strumento nel tuo album è la tua voce. Come hai sviluppato il tuo stile di canto?
E’ la vita! Non lo so. Sono le esperienze che ci fanno diventare le persone che siamo. Cambiamo e ci evolviamo. La mia voce non era così 5 anni fa. A essere onesto, in realtà non canto. Qualcuno potrà dire che canto, ma se ci pensi, si tratta semplicemente di esprimere me stesso con suoni diversi di volta in volta, che non riesco a ripetere! Non ci riesco proprio! Ci potrei provare, ma vengono fuori sempre diversi. Quindi, è la mia storia, i miei sentimenti. E’ così che mi sono formato.

C’è un verso in "Winston Churchill's Boy" che dice: “Nessuno può essere profeta in patria, così sono partito, eccomi”. C’è stata dell’amarezza, o magari anche rabbia, nella tua decisione di trasferirti dall’Inghilterra a Parigi? Non ti sentivi a pieno compreso?
Ho sentito questo proverbio per la prima volta in Francia. Sai, oggi mi stanno intervistando, e sto avendo un po’ di riconoscimento per il mio lavoro, per la mia vita. Quando era a Londra, ero nessuno! Quando sono andato in Francia, sono stato apprezzato per quello che ero, quindi sì, hai ragione! Anche l’Italia sta imparando ad apprezzarmi, ma l’Inghilterra è molto lenta. Quindi è vero, nella mia esperienza, nessuno può essere profeta in patria.

Ascoltando il tuo album sembra che le canzoni siano nate da periodi di solitudine. Come ti sentivi quando le scrivevi?
Sono stato solo quasi tutta la mia vita. E’ stato naturale quando ero giovane. Non andavo molto d’accordo con i miei compagni, ero molto timido. I miei fratelli crescevano e vivevano le loro vite. I miei unici compagni erano i libri e la musica. Il trasferimento in Francia è stato un passo naturale per me. La gente mi chiedeva: “Ma come hai potuto lasciare la tua patria?”. Ma per me era una solitudine naturale, era anche positiva. Mi ha veramente formato. Alcune persone potrebbero impazzire, e anche io sono impazzito a volte, ma ho usato quella follia per creare.