Incontriamo Melanie De Biasio all'Alcatraz di Milano, poche ore prima del suo set di apertura a Agnes Obel. L'artista italo-belga, che nel 2013 è tornata a pubblicare un disco dopo diversi anni, ci racconta molte cose, mostrando tutti i lati della sua personalità. Dall'importanza di aver studiato musica per poter lavorare al meglio con i musicisti con cui suona, all'idea di dare ascolto alle proprie emozioni senza fare calcoli nello scrivere canzoni, alla necessità di sperimentare continuamente qualcosa di nuovo, Melanie si dimostra un'artista attenta a ogni dettaglio e piena di vitalità e di voglia di ampliare il proprio percorso.
Ho letto nella tua biografia che hai studiato musica per molto tempo prima di iniziare ad andare in tour e a scrivere canzoni. Molte persone potrebbero pensare che se hai talento, fare il musicista sia facile, invece ti chiedo di dirmi tutto quello che vuoi sull’importanza di studiare prima di iniziare la carriera da musicista professionista.
Ho iniziato a studiare flauto a 8 anni, poi ho imparato il solfeggio, canto corale e per me è stato impotante imparare l’alfabeto della musica, perché in seguito mi è servito per stabilire una comunicazione con gli altri musicisti con cui suonavo. La musica è un altro modo di comunicare e già dalle prime volte in cui lavoravo con altri musicisti, suonando il flauto in un’orchestra popolare a 12 anni, ho capito che imparare la musica serve ad avere una comunicazione con coloro con cui stai suonando. Non era solo suonare il flauto da sola a casa, anche se aver studiato è stato importante per iniziare a capire come costruire un suono insieme agli altri musicisti. E mi sono detta “ecco perché mia mamma vuole che io studi tutte queste cose”, perché suonare non è solo saper fare la propria parte, ma è anche costruire un insieme con gli altri musicisti e condividerlo con il pubblico, è un’esperienza globale. L’aver capito questa cosa mi ha dato ancora più stimoli nel continuare a studiare musica, perché andare a scuola non faceva proprio per me, perché ho bisogno di capire quale sia il senso di studiare e imparare cose e per quanto riguarda la musica, il senso l’avevo colto perfettamente.
Immagino che molte persone che leggeranno questa intervista – me compreso, lo confesso – inizieranno o avranno iniziato a ascoltarti a partire da questo nuovo album, che è il tuo secondo. Cosa possono aspettarsi le persone che poi vorranno ascoltare anche il primo album, conoscendo già questo?
Ascoltare il primo album serve se si vuole sapere qualcosa in più della Melanie di cinque o dieci anni fa. L’esperienza è stata completamente diversa, soprattutto perché in studio il disco è stato registrato alla vecchia maniera, ovvero tutti suonavano insieme e se c’era qualcosa di sbagliato, si rifaceva la canzone da capo. Ha connotati più jazz, ci sono più assoli, più che altro perché l’ho fatto poco dopo aver finito la scuola e, rispetto ad ora, ero più influenzata dal contesto jazz, dal modo di suonare con le improvvisazioni. È stato solo dopo questo disco che mi sono resa conto che la mia idea di improvvisazione è comunque costruire qualcosa insieme, qualcosa di speciale e di fresco, che rifletta l’ispirazione del momento e che sia anche molto profondo. Penso che oggi la sfida sia di costruire musica improvvisata ma basata su idee semplici e farlo insieme, sviluppare un senso di presenza, non semplicemente una serie di note.
Da dove inizi quando scrivi una canzone? Da una melodia, da un suono, da quello che vuoi dire nel testo?
Parto da un’emozione, poi faccio in modo che la vibrazione che mi dà quest’emozione diventi un suono, poi dal suono nascono la melodia e il ritmo, ma tutto viene da un’emozione.
Tornando all’importanza di costruire un suono insieme, quando registri un disco lasci semplicemente che gli altri musicisti mettano nelle canzoni la propria sensibilità e il proprio stile o dici loro comunque che devono suonare queste note o questi accordi?
Io penso che il contesto debba essere ben definito, e in questo contesto definito li lascio suonare e poi scelgo cosa mi convince di più. In questo disco li ho lasciati suonare ma poi nella post-produzione ho tolto un po’ di cose per fare in modo che emergesse l’essenza delle mie storie, delle mie emozioni, della mia sensibilità. All’interno di questo contesto, le canzoni erano scritte e ben definite, a parte l’ultima del disco.
Si può fare un discorso generale sulle emozioni che hanno generato le canzoni di questo disco, oppure ognuna era diversa dalle altre?
Penso che si possa dire che l’insieme delle emozioni presenti in questo disco sia come un arcobaleno, ci sono tanti colori, posso dire “ti amo” in tanti modi diversi. E si può dire la stessa cosa a proposito del nero presente sulla copertina, penso che nel nero ci siano tutti i colori. Si può viaggiare all’interno di tutto questo insieme tra un’emozione e le altre, non credo di avere un’emozione prevalente in questo disco, c’è luce ma c’è anche buio e tutti i colori in mezzo, e in realtà è una cosa che ho proprio voluto provare a fare. Se ascolti questo disco adesso, puoi viverlo un giorno in un modo e il giorno dopo in un modo completamente diverso, a seconda di come ti senti. Ho voluto togliere ogni riferimento alle mie esperienze personali per far sì che venissero fuori esperienze universali, in grado di coinvolgere tutti.
Invece il primo disco è più basato sulle tue esperienze personali?
Non molto nemmeno quello, in realtà. Non riesco a fare un confronto tra i due dischi, sono due storie diverse, due modi diversi di registrare, è vero che sono sempre io, ma sono passati tanti anni tra un disco e l’altro e tante cose sono cambiate.
A proposito di arcobaleno, ha sette colori e nel disco ci sono sette canzoni…
Vero, a questo non avevo pensato.
A proposito di questo numero di canzoni, oggi i dischi solitamente ne hanno di più, ma ho pensato che probabilmente tu abbia voluto inserirne solo sette per far sì che l’ascoltatore non si perdesse per via della lunga distanza, probabilmente non volevi che l’ascoltatore…
… si annoiasse?
No, non intendevo annoiarsi, semplicemente che rischiasse di perdere l’attenzione, di iniziare a pensare ad altro.
Non ci ho mai pensato a questa cosa delle sette canzoni, ho scelto quello che secondo me era il meglio che avevo e poi mi sono resa conto che erano sette canzoni per 33 minuti e mi sono detta “oh, è breve, però non ci posso mettere nient’altro perché sta bene così”. Avere sette canzoni e un disco breve è stata una conseguenza di com’è stato il lavoro, non una base da cui sono partita. Il concept si è sviluppato mentre procedeva il lavoro.
Cosa si può aspettare dai tuoi concerti chi conosce i tuoi dischi? Sei fedele alle versioni in studio? Che tipo di line-up hai?
Dipende dalla serata e dal contesto. Sono molto flessibile, posso suonare in duo o in trio o in quintetto. La cosa più importante, per chi viene ai miei concerti, è che ogni volta è un’esperienza diversa. Ad esempio, stasera siamo in due e avremo una setlist, che scriverò tra circa un’ora e che servirà solo per rappresentare le diverse tappe del percorso, ma non sappiamo come ci arriveremo. Non sappiamo come ci muoveremo tra una tappa e l’altra, è ogni volta diverso. Anche quello che faranno il fonico e colui che cura le luci è improvvisato, tutto si costruisce durante il concerto stesso. È come se fossimo in viaggio su una grande nave, quindi sappiamo dove dobbiamo arrivare ma non esattamente come ci muoveremo per arrivarci.
Ma quindi dal vivo non c’è il contesto definito di cui mi parlavi per i dischi, oppure c’è lo stesso livello di definizione, all’interno del quale voi improvvisate?
È un altro contesto, ma anche quello del live è ben definito. Per il disco ci sono le melodie, il ritmo, l’atmosfera, gli accordi, il testo, e qui l’idea è che tramite le canzoni dobbiamo costruire una storia insieme ed è una cosa molto intensa.
Hai mai pensato ai gusti musicali che potrebbero avere i tuoi ascoltatori? Perché io, ad esempio, ascolto normalmente canzoni tradizionali, con strofe e ritornelli, e non ascolto per nulla jazz, ma ho trovato comunque interessante il tuo disco; dall’altro lato, ci potrebbe essere qualcuno che ascolta solamente jazz ma che potrebbe trovare comunque interessante il disco. Ci hai mai pensato?
Io mentre faccio musica mi sento come un bambino a cui viene dato un foglio di carta e dei colori per disegnare e che semplicemente si gode quello che sta facendo senza pensarci. Non sempre ci si aspetta che il bambino faccia un disegno compiuto, ci si immagina che stia lì a divertirsi senza pensare. Allo stesso modo io faccio questa musica perché è quello che mi viene naturale fare, non penso a chi potrebbe piacere e a chi no, sarebbe impossibile per me fare musica pensando a queste cose.