Cantautrice danese trapiantata a Berlino, Agnes Caroline Thaarup Obel (Gentofte, 29 ottobre 1980) potrebbe apparire soltanto come l'ultima arrivata nella lunga schiera di "donne al piano" la cui espressione artistica è prevalentemente impostata sulle romantiche note di quello strumento e su ballate ariose e più o meno nostalgiche. Ma l'impressione superficiale nel suo caso non potrebbe che rivelarsi fuorviante, poiché per compostezza, espressività melodica e capacità compositiva e di scrittura, Agnes rappresenta una fresca e piacevolissima sorpresa che si affaccia nell'ampio e variegato mondo del cantautorato al femminile.
Nata a Copenaghen, Agnes studia presso l'Università di Roskilde. Durante l’infanzia trova ispirazione nelle canzone di Jan Johansson, in bilico tra folk e jazz, e si diletta a cantare e suonare il basso in un gruppo di amici. La prima esperienza artistica significativa, però, è nel cinema, con una piccola parte nel film “The Boy Who Walked Backwards” (“Drengen der gik baglæns”) del regista danese Thomas Vinterberg, in cui il fratello Holger Thaarup interpreta il ruolo del protagonista.
La sua passione principale, tuttavia, resta quella per le sette note. Una passione nata in famiglia, dove ha imparato a suonare il piano in giovane età, sulle orme di sua madre, che vedeva eseguire le partiture di Chopin e Bartók. I suoi riferimenti più diretti, però, sono soprattutto grandi compositori francesi quali Claude Debussy, Maurice Ravel ed Erik Satie.
Determinante per la sua carriera di musicista è lo sbarco a Berlino, dove si trasferisce dal 2006, assieme al compagno, il fotografo e regista Alex Brüel Flagstad.
In Germania la sua scalata è repentina. Pervenuta dal nulla a un contratto major con PIAS (la stessa etichetta che nel 2009 aveva tenuto a battesimo una certa Anja Plaschg alias Soap&Skin), Agnes Obel conquista uno spicchio di popolarità grazie allo spot televisivo del colosso tedesco delle telecomunicazioni, in cui figura un suo brano: "Just So". Non è ancora il volano decisivo per la sua notorietà, tuttavia le note adamantine del suo pianoforte iniziano a farsi strada, quantomeno nel pubblico tedesco.
Nel 2010, però, esce finalmente l’album d’esordio, Philharmonics, realizzato attraverso una stimolante collaborazione con un artista solo in apparenza lontano dal neoclassicismo bucolico delle sue piéce per piano, quale Dan Matz dei Windsor For The Derby.
Tre strumentali, una cover e otto canzoni originali costituiscono il biglietto da visita dell'artista danese, che nei quaranta minuti scarsi dell’album confeziona una serie di quadretti melodici atemporali, tanto ripiegati verso una dimensione domestica - folkish o classicista che sia - quanto protesa ad ambientazioni trasognate, moderne soluzioni cameristiche, senza disdegnare qualche sfumatura più tenebrosa.
Il tutto è reso secondo una costante di compostezza e austerità, fedelmente riassunta dall'artwork e dalla confezione del cd e già testimoniata alla perfezione dalla sequenza iniziale del disco, affidata alle limpide iterazioni di piano solo di "Falling Catching" e al singolo "Riverside", elegia che sa di inquieta solitudine, ma trova nella voce di Agnes pregevole movimento e cristalline aperture melodiche: ad accrescere le fortune del brano sarà il suo inserimento nella colonna sonora del film “Submarino” di Thomas Vinterberg (Premio Robert come "miglior canzone originale") e soprattutto la sua presenza in un episodio della celebre serie tv americana “Grey's Anatomy”.
Verrebbe quasi spontaneo evocare subito i nomi di Kate Bush e di Tori Amos, ma per fortuna basta poco per rendersi conto di trovarsi in presenza di un'artista dalla spiccata personalità, in grado di offrire una rassegna di suggestioni mutevoli, anche attraverso una linea narrativa che bilancia registri folk e sottile malinconia, e secondo una progressione strumentale e di arrangiamenti che lungo il corso dell'album si arricchisce di ulteriori elementi, lasciando scemare comparazioni troppo facili e senz'altro riduttive. Basti vedere il tocco trasognato conferito da Dan Matz attraverso flebili beat e tastiere liquide a "Brother Sparrow" e "Avenue", il romanticismo degli archi di "Over The Hill", nonché le punte drammatiche che si affacciano nelle interpretazioni goticheggianti della title track e di "On Powdered Ground" (e qui sì che si potrebbe lontanamente pensare a Soap&Skin) e in quella eterea e inarcata di "Beast", nella quale l'artista danese mostra di sapersi cimentare in maniera credibile anche con l'arpa.
Al graduale mutare dei contesti strumentali - che restano pur sempre incentrati su un pianoforte, ora fluido ora foriero di iterazioni sorde - corrisponde un parallelo adeguamento dei registri interpretativi. Agnes Obel sa infatti essere fragile e suadente, ma si mostra anche capace di torsioni spettrali e comunque portatrice di un'intensità espressiva sempre perfettamente adeguata ai suoi testi asciutti ed essenziali, e addirittura esaltata nell'ardita cover di John Cale, "Close Watch", uno dei tanti picchi di un esordio che conquista subito una collocazione di assoluto rilievo tra le produzioni al femminile offerte dall'annata discografica che volge al termine.
Nel frattempo, la sua carriera decolla anche attraverso una serie di entusiasmanti performance dal vivo. Occhi turchesi a illuminare un ovale perfetto, incorniciato dalla folta chioma bionda, Agnese dolce Agnese seduce tutti con la grazia fatata delle sue interpretazioni, sempre sofferte e magnetiche. Seppur trincerata dietro un'estrema timidezza, la giovane pianista danese infonde una forza incredibile alle sue canzoni, sa come personalizzare con arrangiamenti live le tracce originali del suo repertorio e attira l'attenzione con un fare angelico, suonando il piano con precisione e finezza. I suoi concerti si nutrono di atmosfere intime e raccolte, grazie a un continuo susseguirsi di sibili, docili linee vocali e splendide partiture pianistiche.
La straordinaria efficacia del debutto, così austero ed emozionante, si stempera almeno in parte nel tono più compassato di Aventine (2013), il nuovo campionario di bozzetti cameristici della tenebrosa artista danese. “Durante il tour di Philharmonics continuavo ad avere idee per la nuova registrazione e volevo esplorare il mondo del violoncello e degli altri strumenti a corda – racconta Agnes a proposito del suo secondo album - Ho registrato tutti gli strumenti posizionati vicinissimi fra loro, e così i microfoni: tutto in una piccola stanza, con le voci qui, il pianoforte qui, tutto molto vicino. Il suono che ho ottenuto è rado, ma variando la dinamica delle canzoni sono praticamente riuscita a creare dei soundscape, qualcosa che sembra grande, con questi pochi strumenti”.
Il disco - il cui titolo è un riferimento all'Aventino, uno dei colli di Roma - alterna alcuni pezzi di grande impatto ad altri che si mostrano invece irrisolti e poco centrati. Non esplode, si accasa su atmosfere simili al predecessore, ma non ne possiede la felice continuità di scrittura. L'arricchimento con elementi nuovi, quali violoncello e altri strumenti ad arco, dona indubbiamente sfumature differenti e più varie, anche se talvolta le melodie, le soluzioni sonore paiono non avere sbocco, se non quello di edulcorare la potenza dell'esordio.
Le belle canzoni, tuttavia, non mancano anche qui, a partire dallo struggente singolo "Fuel To Fire", finemente decorato al piano in un'atmosfera magica, dalla title track, magnificamente punteggiata da note di violino, o dalla bella favola acustica di “The Curse”, finendo con il bel piglio di “Dorian”, con la base cadenzata del pianoforte a evocare una storia di nostalgie e amori in frantumi. La seconda parte del disco purtroppo perde di nerbo e si limita a svolgere il suo compitino con diligenza, ma con esiti scontati.
La produzione dell'album si distingue per il solito dosaggio inappuntabile di atmosfere da camera e per quel tono polveroso della registrazione, caratteristiche che distinguono i lavori della Obel fra decine e decine di opere simili, fra passato e presente.
Aventine non è un colpo d’arresto, ma lascia intravedere segni di un pericoloso adagiarsi su se stessa, che potrebbe minare la candida freschezza e la sfrontatezza compositiva dell’artista danese.
Tre anni dopo, però, la musica cambia in tutti i sensi con Citizen Of Glass (2016), nel quale Agnes sviluppa nuove armonie vocali, sfruttando appieno la tecnologia dello studio di registrazione, e sperimenta nuovi suoni, grazie all'introduzione di elementi elettronici, celesta e trautonium (un proto-synth inventato nel 1929 da Friedrick Trautwein e utilizzato da Alfred Hitchcock nel suo “Gli uccelli”, richiamato anche dalla copertina del disco, a cura della fotografa Mali Lazell). Il titolo invece - come spiega la stessa autrice - “deriva dal concetto tedesco di Gläserner Bürger, il cittadino umano oppure di vetro; in realtà è un termine legale relativo al livello di privacy del singolo in uno stato, e nella salute è diventato un termine che riguarda quanto sappiamo del corpo o della biologia o della storia di una persona: se sono completamente di vetro, sappiamo tutto”.
A cominciare da “Stretch Your Eyes”, in cui Agnes suona la spinetta, si percepisce un pathos diverso, c'è un qualcosa di più urgente e drammatico ad animare la musica dell’arista danese, capace fin da subito a ritrovare le atmosfere ispirate del suo esordio. Le sibilanti note di violino squarciano flebili sospiri in sottofondo, mentre il violoncello pennella dolce e corposo fra contrappunti di piano. Se “Familiar” e la title track puntellano graziosamente con cori maschili dal sapore spirituale (vedi le lezioni di Arvo Pärt), il tormento strumentale di “Red Virgin Soil” non concede un attimo di tregua, in un'atmosfera globale poco accomodante. Questo straziante racconto continua con squarci che sanno di colonna sonora dark (“It's Happening Again”), graziosissime fiabe nordiche in punta d'arpa (la magnifica “Stone”) e una scorrevolezza rara nelle canzoni della cantante danese (la gotica “Trojan Horses”, che si snoda in un tripudio di clarinetti, arpe, violoncelli e clavicembali).
Sul finire viene introdotto un elemento percussivo nuovo, infatti l'uso dello xylofono in “Golden Green” dona luce nuova dal punto di vista timbrico, mentre “Mary” conclude l'opera con sospiri e un tatto unico, sfumando in maniera graduale e molto delicata.
I testi contribuiscono a pennellare un immaginario diafano e spettrale: “And our love is a ghost that the others can't see, it's a danger. Every shade of us you fade down to keep them in the dark on who we are” (da “Familiar”); These bare bones are made of glass/ See-through to the marrow as they pass (da “ Trojan Horses”).
In un sostanziale flusso di note e parole, la stessa potenza introversa viene riversata in tutte le dieci tracce, i ritmi si fanno più concitati rispetto al passato, fanno capolino spesso le percussioni e i toni complessivi, decisamente più cupi e meno rarefatti, fanno della terza prova di Agnes – registrata, prodotta e mixata da lei stessa a Berlino negli studi Aventine-Neukölln e BrandNewMusic - un magnifico esempio di musica contemporanea classica, attuale e mai scontata.
Con quasi due milioni di copie venduti e oltre 250 milioni di stream in tutto il mondo, Agnes Obel è ormai pronta ad abbandonare la sua angusta nicchia di ombrosa musa alternative per conquistare le platee mondiali e la definitiva consacrazione.
E il sigillo più prestigioso alla sua crescita arriva dalla Deutsche Grammophon, storica etichetta leader mondiale della musica classica, che la ingaggia nel 2018 e che due anni dopo fa uscire il suo nuovo album, Myopia (2020). Fiducia pienamente ripagata da queste dieci composizioni rilucenti come schegge di cristallo.
La trentanovenne cantautrice di stanza a Berlino si è chiusa nel suo studio in (quasi) completa solitudine per cesellare i suoi tenui bozzetti melodici inseguendo una dimensione sempre più onirica ed evanescente, con ballate da camera moderne, tornite di raffinate partiture pianistiche e appena increspate da corde pizzicate, flebili beat e tastiere opalescenti.
Myopia è un disco “sulla fiducia e sul dubbio”. Un lavoro intimista, dunque, ripiegato in se stesso, che lavora per sottrazione, nel nome di un minimalismo intransigente che lo rende al tempo stesso rigoroso e un po’ più ostico delle precedenti produzioni della Obel. Ma, seppur prosciugato degli episodi più melodrammatici, il sostrato emotivo delle sue canzoni resta vivo, teso, a tratti palpitante. Vibrando di angosce dark nello struggente singolo “Island Of Doom”, dove il dolore per la scomparsa del padre si sublima in un surreale e macabro dialogo post-mortem (“Clean out the room and bury the body… You told me, you told me/ I'm just another fool for the earth to swallow”). Oppure esorcizzando l’insonnia, nel deliquio a occhi chiusi di “Broken Sleep”, inscenato su un liquido tappeto di piano, con versi tra i più inquietanti del suo repertorio: “Shapes of smoke, all too human/ They grow, like titans… Sea of trees, calling humans/ To hang like leaves from the willow”. E non meno ombroso è il commiato finale in punta di voce di "Won't You Call Me".
Con il minimo degli orpelli (rintocchi diafani, cori spettrali, schiocchi di dita) e con un filo di voce - a volte processata, a volte nuda come uno stelo - Agnes popola le sue trasognate pièce di nuovi fantasmi (la nymaniana “Camera’s Rolling”, le più astratte “Can’t Be” e “Promise Keeper”, quasi nei territori avantgarde di una Julia Holter), focalizzandosi sulle atmosfere più che sulle melodie, che pure non mancano, sebbene lontane dai vertici pop di una “Riverside”. A darle man forte, solo qualche sparuto ricamo di celesta, archi e violoncello (a cura di Kristina Koropecki, Charlotte Danhier e John Corban), back vocals femminili spiritati – come di sirene rimaste intrappolate nei ghiacci – sparse punteggiature di synth (particolarmente suggestive e magnetiche quelle della Enya-na title track).
In alcuni, non c’è nemmeno bisogno delle parole per plasmare aristocratiche partiture classicheggianti, perdute nelle nebbie del tempo (l’incalzante “Drosera”, in onore della pianta carnivora dalle proprietà medicamentose, la più sfumata “Roscian”) o ariose ballate sospinte da folate di archi sconsolati (la splendida “Parliament Of Owls”).
Lavoro affascinante anche nella sua imperfezione, con i suoi fragili intarsi melodici soffiati nel vetro, il quarto album dell’artista danese è intitolato in chiave metaforica alla miopia per “restituire la sensazione di essere intrappolati in uno stato d’animo con poca visione periferica, quando ciò che rimane visibile diventa sempre più vivido”, secondo le parole della sua autrice. L’impressione, però, è che Agnes Obel ci veda benissimo e abbia sempre più chiaro il traguardo finale della sua eterea e affascinante ricerca sonora.
Contributi di Raffaello Russo ("Philarmonics")
Philarmonics(Play It Again Sam, 2010) | 7.5 | |
Aventine (Play It Again Sam, 2013) | 6,5 | |
Citizen Of Glass (Play It Again Sam, 2016) | 7 | |
Myopia (Deutsche Grammophon, 2020) | 7 |
Riverside | |
The Curse (videoclip da Aventine, 2013) | |
Fuel To Fire | |
Aventine | |
Familiar | |
Golden Green | |
It's Happening Again | |
Camera's Rolling | |
Broken Sleep | |
Island Of Doom |
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