Mum

La fiaba del pop folktronico

intervista di Marco Sgrignoli

Örvar Þóreyjarson Smárason è da più di dieci anni uno dei protagonisti dell'avventura musicale dei Múm, che con la loro musica calda, empatica e dai forti colori elettronici hanno attraversato il glitch, la folktronica e il pop creando uno stile dinamico, personale e discretamente imitato. "Sing Along To Songs You Don’t Know" è il quinto album della band, uscito a fine agosto sull'etichetta Morr Music.

Incontro Örvar a Milano, in un bar piuttosto centrale. Siede a un tavolo all'esterno e ha appena finito di mangiare una caprese. Dopo le presentazioni e qualche rapido scambio di battute sul registratore mp3 che non vuole saperne di funzionare e il fatto che nell'ipertecnologico Giappone tutti utilizzino ancora registratori a cassette, ci scambiamo due parole su "Scapigliato, lisciato", il libro "molto strano" che Örvar ha scritto ed è venuto a presentare in Italia proprio in questi giorni. Molto gentilmente, Örvar me ne regala una copia.
Örvar parla piano, delicatamente, con un accento germanico che, assieme assieme al biondo cenere dei capelli e alla fisionomia slanciata, lascia poco da dubitare circa la sua provenienza.

Scrivi e componi musica. Ci sono riferimenti comuni nel tuo approccio, idee che cerchi di esprimere in entrambi i campi?

Sì, certamente, la vena creativa proviene dalla stessa sorgente. Sia in un caso che nell'altro, si tratta di aprirmi, trovare uno stato in cui possa lasciare scorrere i pensieri, in modo quasi meditativo. L'elemento centrale è la poesia: che sia poi musica o letteratura, sono comunque allacciate, vivono nello stesso spazio.

Un approccio essenzialmente istintivo, dunque...

...Sì, tutto quello che faccio è assolutamente non-intellettuale, istintivo.

"Finally We Are No One" è stato pubblicato sia in islandese che in inglese; gli album successivi, invece, sono tutti cantati in inglese. Qual è il motivo di questa decisione?
La versione islandese del disco è stata più che altro un esperimento: volevamo sapere se agli islandesi sarebbe interessata. Invece la risposta in Islanda è stata che le due versioni erano esattamente uguali: gli unici ad apprezzare particolarmente la versione islandese erano gli stranieri!
Le parole delle nostre canzoni non vanno capite per forza; se però uno vuole, è giusto che possa. Per questo preferiamo l'inglese anche se non è la nostra lingua, la riteniamo più adatta alla cultura pop.

Nell'ultimo album, l'interazione tra elettronica e strumentazione acustica è più intensa che mai. C'è stato anche un cambio nell'approccio alla musica, accanto a questo cambio di elementi?
L'approccio è lo stesso da quando abbiamo iniziato a far musica, ma il come la facciamo ha avuto uno sviluppo, che ha a che fare tanto con aspetti tecnici quanto col semplice maturare e fare esperimenti, che portano in posti nuovi. Io e Gunnar, che suona con me fin dall'inizio, abbiamo iniziato a fare musica elettronica attorno ai 12 anni, ancora prima di avere qualsiasi strumento comunemente inteso; poi, qualche anno dopo, abbiamo formato un gruppo rock. Quando poi siamo tornati alla musica elettronica, ci siamo accorti che, a livello di approccio, non c'era per noi alcuna distinzione fra le due cose: non ci dicevamo "questa è elettronica", "questa no". Ci siamo evoluti sempre di più in quella direzione, e se nel primo album senz'altro prevaleva l'elettronica, ora anche per chi ascolta non è più così facile stabilire cosa sia elettronico e cosa no.

Nel primo album però la fusione è già molto risuscita, al punto tale che non riesco bene a immaginare come potesse essere il prima. Qual è stata l'origine del vostro sound?
Beh, inizialmente per noi era tutta faccenda di nastri: anche quando si faceva musica elettronica, bisognava poi registrarla su cassetta e tutte le modifiche che si potevano fare erano lavori tipo tape music. Col primo album siamo stati catapultati in un nuovo mondo, quello del computer recording, e fin dal primo giorno in studio abbiamo iniziato a giocare e sperimentare e far nostre quelle tecniche. Abbiamo trattato Pro Tools come un gioco per qualcosa come mezzo anno, e questo è quello che ci è uscito!

Ah, Pro Tools... Che altri software impiegate, e che strumenti elettronici utilizzate a parte il computer?
Usiamo un sacco di vecchi aggeggi: Moog, Korg e altri sintetizzatori analogici. Per il programming, ora utilizziamo soprattutto Ableton Live. Ci abbiamo a che fare fin dalla primissima versione: vivevamo a Berlino e conoscevamo parte del team che ci stava lavorando, così abbiamo contribuito al beta-test. Continua a migliorare, credo davvero sia un nuovo approccio alla computer music.

Nel vostro primo album si sente anche una discreta componente glitch. Siete riusciti a darle un che di emozionale, un'anima, dove invece altri artisti del campo puntavano a musica cerebrale, terrorista, decostruita. Come ci siete riusciti?
La scena glitch è nata dalla sperimentazione con la tecnologia. Quando abbiamo iniziato a lavorare coi computer, credo abbiamo fatto circa lo stesso genere di cose che molti altri stavano facendo al tempo. Il nostro obiettivo, però, è sempre stato quello di comunicare sensazioni: per noi la sperimentazione era uno strumento, non tanto uno scopo. La differenza forse è questa.
Penso fra l'altro che il primo glitch fosse fatto non tanto da gente che si ascoltava a vicenda e cercava di fare quel che stava facendo l'altro, ma da persone che stavano sperimentando sulle stesse cose, senza magari conoscere il resto della scena. Quando è uscito il nostro primo album e abbiamo iniziato a spostarci in Europa, eravamo così sorpresi che in altri posti si stessero facendo cose simili alle nostre, in Germania ad esempio!

Un effetto molto particolare che la vostra musica ha su di me è di proiettarmi in un mondo in cui ogni cosa è illuminata. Le cose attorno assumono una luce diversa, sembrano più vive e interconnesse. E' solo una mia fissa, o è qualcosa di cercato?
Non è un mondo diverso, credo; più che altro è un modo diverso di vedere il solito mondo. Penso che il motivo per cui molti associano questa sensazione alla nostra musica è che esperienze come questa avvengono comunemente nella vita: se ci capita di appisolarci durante la giornata, poi quando ci si risveglia si vede tutto in maniera leggermente diversa. Oppure, concentrandosi su cose piccole, semplici, può succedere di restarne ipnotizzati, come adesso che sto facendo cadere lo zucchero nella tazzina e osservando i singoli granelli sprofondare (fa cadere lo zucchero nella tazzina e osserva i singoli granelli sprofondare).
Queste cose sono per me non solo interessanti, ma esattamente il modo in cui voglio vivere la mia vita!

Anche i titoli delle vostre canzoni sembrano spesso riferirsi a fenomeni di questo tipo. Che so, "Asleep On A Train"/"Awake On A Train"...
Sì, sono tutte piccole esperienze che ognuno di noi ha, a cui però non presta attenzione. O meglio, non è che non presta loro attenzione, è che non dà loro valore: tendiamo sempre a pensare che le cose importanti siano altre.

Quando Gyða e Kristín Anna hanno lasciato la band, cosa è cambiato? Qual era il loro apporto in termini di idee e attitudine?
Non credo le cose siano cambiate, in termini di approccio. La band è fatta di persone che vengono e vanno: il fatto che Gyða non faccia più parte del gruppo (ma comunque ha suonato il violoncello su "Go Go Smear...") non rappresenta un cambiamento drastico, ma un processo naturale, percepito come tale da tutti i membri della band.
Con Gyða e Kristín c'è quel particolare senso di "connessione" che provo con le persone che affrontano la vita in modo simile al mio, credo fosse per questo che si integravano così bene nella band.

Il nuovo album mi pare essere più lineare dei precedenti, più orientato alle canzoni. Questo cambiamento è stato consapevole, o semplicemente qualcosa che è accaduto senza accorgersene?
Non prendiamo mai molte decisioni consapevoli: quando siamo assieme, facciamo, più che discutere. Comunque, dopo "Go Go Smear..." abbiamo pensato qualcosa tipo: "Vediamo se riusciamo a fare quest'album un po' più semplice", visto che nell'album precedente avevamo qualcosa come 160 canali per ogni canzone e un continuo saltare tra parti orchestrali complesse e altre di elettronica davvero folle. Così senza meditarci troppo ci siamo messi a scrivere canzoni più... canzoni più canzoni, insomma.

Trovi che scrivere una canzone vera e propria sia più difficile, o più facile, che comporre un pezzo più sperimentale?

Beh, non è il modo giusto di vedere la cosa: non abbiamo cambiato approccio, i pezzi sono nati allo stesso modo dei precedenti. La prima canzone del nuovo disco, ad esempio, si presenta come una normalissima canzone pop, ma è nata così: Gunnar era in America, in una specie di fattoria, era seduto al piano e gli era venuta l'idea di riempirlo di carta e oggetti vari trovati in giro per poi improvvisarci. Io poi ho preso quel che aveva registrato, ho tagliato, ricucito formando una struttura, e ci ho cantato sopra. E' una canzone pop! Però non l'abbiamo affrontata come tale, non ci siamo seduti a scriverla, l'abbiamo creata esattamente come abbiamo sempre fatto: provando un po' e vedendo quel che veniva fuori.

Come mai vi siete trasferiti in Finlandia e in Estonia per registrare alcune parti dell'album?
Siamo sempre alla ricerca di posti belli dove andare per rilassarci e fare musica. Fare musica con tempi programmati, in studio, ci viene molto difficile; preferiamo andare da qualche parte dove non ci siano pressioni, dove possiamo star seduti e mangiare e suonare, e se non viene fuori niente di buono pazienza, va bene lo stesso. Avevamo sentito di questo festival in Estonia sulle rive di un lago, così abbiamo chiesto di poterci suonare e restare lì per un po'. Stavamo in una casa stupenda, del quattordicesimo secolo, era meraviglioso: non ho ben capito perché, ma c'era sempre pieno di gente indaffarata, gente che lavorava, che cucinava e ci dava cibo, birra, vino. Noi stavamo in due vecchie stanze col caminetto e facevamo canzoni, qualcosa di magico, un posto come lo sognavamo da anni!
Per quanto riguarda la Finlandia, le cose sono un po' diverse. Il nostro batterista è finlandese, e ha uno studio privato su un'isola: il posto migliore dove registrare le parti di batteria era dunque quello. Abbiamo fatto tutto in un solo viaggio: Estonia e Finlandia. Per lo scorso album eravamo stati in un'altra isola finlandese, dove avevamo affittato un vecchio asilo per due settimane.

Nei vostri ultimi album intravedo una direzione nuova, più corale. Backing vocals, melodie folk e sinfonismo strumentale creano la sensazione che la musica esprima un "noi" piuttosto che una somma di individualità.
E' un'ottima descrizione di quello che cerchiamo di creare con la nostra musica. Questo potenziale comunitario della nostra musica è una conseguenza diretta dell'impostazione aperta della band, ed è qualcosa di cui ci siamo accorti attorno a "Summer Make Good" e abbiamo iniziato a sfruttare più esplicitamente con i due album successivi.
Il titolo dell'album si riferisce proprio a questo: avremmo un mondo nettamente migliore se accettassimo di aprirci, cantare assieme ad altri canzoni che ancora non conosciamo. Anche quando ha paura o non sa quel che dovrebbe fare, ognuno dovrebbe cantare con gli altri, essere parte attiva di qualcosa di comune, del mondo.
È una cosa che sta iniziando a succedere in Islanda, un poco alla volta. La situazione negli ultimi dieci anni è stata molto brutta, la gente pensava unicamente a fare soldi. L'anno scorso però le cose sono cambiate, la gente ha iniziato ad accorgersi di aver trascurato per tutto quel tempo le cose più importanti.

Dunque la cosidetta "crisi" ha portato qualcosa di buono, un'occasione di rinnovamento?
Assolutamente sì! Molte persone in Islanda la vedono a questo modo, è una cosa estremamente positiva! La stampa internazionale guarda unicamente all'aspetto economico della situazione, ma la qualità della vita non è solo questione di quel che hai e quel che puoi avere. Molti artisti sono andati ripetendo a lungo che c'è molto di più nella vita di quello che era al centro delle opinioni degli islandesi: le banche, la forza delle banche... Quando le banche sono collassate, all'improvviso, moltissime persone si sono sentite perse, ma si sono alzate in piedi e si sono accorte che le cose importanti erano altre: la crisi ha portato molta disoccupazione e reso difficili le importazioni, ma gli islandesi hanno riscoperto il bisogno di lottare, hanno abbandonato lo schermo della tv, sono usciti di casa per andare davanti al parlamento. In uno stato piccolo come l'Islanda, ognuno può davvero avere un ruolo attivo nella società, può prendere in mano la sua vita e fare la differenza.
Alcuni libri parlavano di questa necessità già due o tre anni fa. Allora c'era un'importante movimento per la natura: una grossa compagnia americana stava cercando di comprare molti terreni per costruire centrali elettriche, ma la cosa non ha avuto alcun impatto sulla società fino ad oggi. Ora la gente si è resa conto che non si trattava solo di chiacchiere...

Come avviene che un'isola di solo 300.000 abitanti abbia una scena musicale così fervida? È qualcosa di pressoché incredibile!

Il motivo ha senz'altro a che fare con le dimensioni molto contenute e con la storia ricca di canti e tradizioni. Nel 1945 la marina americana è sbarcata in Islanda e ha portato con sé la rivoluzione rock, piuttosto presto rispetto ad altri paesi. Poi la scena si è evoluta da sé, essenzialmente a Reykjavik, e con un'ottica molto positiva: quella di fare musica per i propri amici. Così ci sono molti stili e ognuno cerca di suonare con ciascun altro: per mantenere varie le cose, per non rendere la cosa noiosa. È assolutamente necessario, in un paese così piccolo!

Continuiamo la conversazione ancora per qualche minuto. Örvar mi spiega qualcosa sulle altre città islandesi, si raccomanda di visitare l'interno dell'isola nel caso dovessi venirci e pone l'accento sulla barbarie della caccia alle balene, non-usanza, introdotta su larga scala da pochi decenni, che non porterebbe alcun reale introito al suo paese: il mercato internazionale è molto limitato, ristretto praticamente al solo Giappone, e la maggior parte del pescato resta invenduto e viene gettato. Il governo la manterrebbe con una logica del tipo siamo islandesi, dobbiamo cacciare le balene; forse tra gli effetti positivi della crisi sulla popolazione islandesi ci sarà il prender coscienza dell'assurdità della cosa!

(30/08/2009)