In una mite serata dell’autunno zurighese ho incontrato Soph Nathan per parlare del secondo disco della sua band Our Girl. Nathan è in tour con le Big Moon, le quali stanno aprendo i concerti europei dei Glass Animals. Quando le faccio notare che tra le persone che attendono in fila l’apertura delle porte della sala concerti si scorgono molte e molti teenager e in generale un pubblico particolarmente giovane, lei scherza dicendo: “Sì, ci sono un sacco di persone giovanissime che non hanno mai sentito parlare di noi! Ma è una buona cosa!”. Dal debutto che Soph ha realizzato con Our Girl sono passati sei anni, ma la band non vede l’ora di portare le canzoni di “The Good Kind” sui palchi (si spera anche sul continente) e di sperimentare anche con nuovi arrangiamenti pensati proprio per le performance dal vivo.
Mi piace che l’album si apra con un’immagine di vicinanza. Sembra quasi che l’intenzione sia quella di confortare non solo la persona nel testo, ma anche chi vi ascolta.
Esatto! Spero proprio che possa confortare chi ascolta e che permetta anche di iniziare una sorta di conversazione.
“It’ll Be Fine” si collega tematicamente alla seconda canzone, ma più in generale mi sembra che l’essere vicini ad amici e amiche che soffrono – sia fisicamente che emotivamente – sia un tema centrale in questo nuovo album.
Sì, è un’ottima descrizione. Quando scrivevo non me ne sono accorta, ma per tutto il disco si nota in modi diversi questo movimento di conforto verso se stessi e le persone che ci circondano. Per me, scrivere canzoni è un po’ uno strumento per processare le mie esperienze, molto terapeutico in questo senso. È naturale, quindi, che nelle mie canzoni si riversino le relazioni presenti nella mia vita, la mia partner e le mie amicizie. Ma in “Relief” scrivo direttamente a una giovane versione di me.
Come avete scelto il titolo dell’album? Per il vostro primo disco avevate usato un estratto dal testo di una canzone; ora “The Good Kind” è anche il titolo di un brano.
Volevamo cercare di sottolineare come in realtà un po’ tutte le canzoni posseggano sempre una sfumatura positiva e speranzosa. Ci sembrava che le parole the good kind riassumessero bene le emozioni del disco.
La canzone “Relief” è probabilmente molto personale, ma mi chiedevo se per te rappresentasse anche una sorta di atto politico: cantare su un palco che le persone queer non sono sole nell’affrontare le discriminazioni presenti in una società ancora molto etero-normativa racchiude un messaggio di empowerment per la comunità LGBTQ+ e ci riporta a quel movimento di conforto e di vicinanza di cui abbiamo parlato all'inizio dell'intervista.
Sì, suppongo che si tratti di una questione politica. Sono consapevole di essere molto fortunata a vivere in un’area di Londra dove c’è molto spazio per le persone queer di esprimere apertamente la propria identità, mentre purtroppo non è così in altre parti del mondo.
È complicato per te suonare dal vivo le canzoni più personali?
Non così tanto, in realtà. “Relief” è stata la prima che abbiamo pubblicato dopo sei anni di assenza dalle scene come gruppo e mi sono sentita un po’ esposta quando ho capito che il pubblico l’avrebbe ascoltata e interpretata in maniera autonoma. Ma, quando siamo sul palco, non ci penso così tanto: queste sono le canzoni della band e le suoniamo come gruppo, anche se in realtà sto praticamente cantando di alcune mie esperienze personali.
Per gli aspetti visivi avete puntato tutto sui colori rosso, arancione e giallo. Come mai?
L’artista Sophie Hurley-Walker ha realizzato i dipinti e ha collaborato con la fotografa Katie Silvester per gli altri aspetti visivi. Lauren e io siamo abbastanza ossessionati dal colore arancione e dai colori autunnali. Volevamo un dipinto per la copertina del disco e sapevamo che doveva essere arancione e questo è quello che abbiamo detto a Sophie. L’immagine avrebbe anche dovuto trasmettere un senso di calore, perché per noi a livello sonoro “The Good Kind” è un lavoro “caldo”.
Come musicista e chitarrista hai un approccio differente quando lavori su una canzone delle Big Moon o su una per la tua band Our Girl?
Sì, è molto differente, anche perché Juliette Jackson scrive le canzoni per le Big Moon. Ora il processo è più collaborativo che all’inizio, ma ho comunque sempre apprezzato il mio ruolo nel cercare di ricreare il suono che lei ha in mente. In generale, mi piace lavorare nelle session di altre band e aiutarle a realizzare la loro visione. Mentre per le canzoni con Our Girl ovviamente il discorso è completamente diverso.
Per concludere questa intervista, vorrei parlare con te di una delle vostre vecchie canzoni, “Boring”. Mi piace molto il fatto che chiuda con tanta energia il vostro album di debutto. Come siete arrivati all’arrangiamento finale per questa canzone?
È stata una delle prime canzoni che ho scritto e una delle prime a cui abbiamo lavorato come band. Per l’outro Lauren ha iniziato a fare questo strano e cool beat di cui inizialmente io e Joshua non eravamo convinti, visto che era completamente inaspettato. Ora, però, quando la suoniamo dal vivo, la reazione è sempre super-positiva. L’outro di “Boring”, come altre parti esclusivamente strumentali nei nostri pezzi, sono frutto della sinergia che si crea quando noi tre suoniamo insieme in una stanza ed entriamo in una sorta di loop ipnotico durante una jam. Molto spesso dobbiamo poi tagliare alcune parti, come è stato per “Who Do You Love”: in studio di registrazione ci eravamo lanciati in una jam di una decina di minuti!
(Photo credits by Katie Silvester; intervista pubblicata l'8 novembre 2024)
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