Musicista e compositore tra i più interessanti nel panorama sperimentale italiano, il marchigiano Paolo Tarsi, classe 1984, è da sempre affascinato dalla prima musica minimalista americana (Terry Riley, Philip Glass, Steve Reich). E' autore di musica elettronica e cameristica, scrive per il teatro e la video-arte lavorando regolarmente con artisti visivi, dj, film-maker, gallerie e musei d’arte contemporanea. Lo abbiamo incontrato per questa chiacchierata sui progetti musicali e sul suo approccio artistico complessivo.
Quando hai iniziato ad ascoltare musica e quando hai deciso di intraprendere la carriera di musicista/compositore?
Fin da bambino ho provato un’attrazione molto forte per i suoni. Accanto a Beatles e Rolling Stones ascoltavo con devozione i dischi dei Pink Floyd, che contenevano molto di più che semplici canzoni, per me erano come degli autentici scrigni sonori. Grazie ad artisti come loro, attraverso la musica, mi sembrava si potesse influenzare il cambiamento. Anche se avevo una predisposizione particolare per le arti visive, dato che nella mia città non era presente un liceo artistico, mi orientai verso lo studio del pianoforte.
Parlami delle tue prime registrazioni, quali erano le idee di allora e come si sono modificate nel tempo?
Le mie prime registrazioni erano di natura sperimentale, attente ai notevoli interstizi artistici sorti tra il mondo delle avanguardie e il rock sperimentale, tra la kosmische musik e il minimalismo. All’interno di questo cammino, la produzione che va dalla fine del 2014 a tutto il 2020 esplora a fondo l’universo sonoro degli strumenti acustici accanto alle volate elettroniche sui sintetizzatori. Ora tutte quelle esperienze, principalmente strumentali, sono confluite in un nuovo percorso volto a condensare in un unico universo musicale lo spirito sperimentale di quei primi lavori e la forma canzone. Come potrai immaginare, sento tutt’altro che assopito il mio spirito di ricerca.
Oggi come non mai il rapporto uomo/AI è argomento quotidiano quasi ovunque. Tu sei sempre stato interessato a ciò. Avevi previsto una tale evoluzione?
La tecnologia è un riflesso, l’eco di ciò che accade nella società. Presto saremo completamente invasi – e, a dire il vero, lo siamo già – da video e immagini di cui sarà sempre più difficile capire quali saranno reali e quali generati dall’intelligenza artificiale. Le conseguenze di tutto ciò mi preoccupano e mi spaventano. Ma la pistola non spara mai da sola e l’intelligenza artificiale può diventare un mezzo meraviglioso. Siamo noi, come al solito, che prendiamo invenzioni stratosferiche e le roviniamo perché le usiamo malissimo, ci mancano responsabilità e consapevolezza. La cosa più stupefacente per me è vedere che la profezia di George Orwell si stia avverando davvero, il Grande Fratello ci sta guardando e la poca privacy che abbiamo ora a breve sarà completamente evaporata.
Come vedi il futuro dei social media? Che rapporto hai con essi?
Il modo di usare i social network è in gran parte legato ad aspetti generazionali, per questo muta rapidamente in maniera molto diversa. In passato le cose dovevi dirtele in faccia, non c’erano alternative al rapporto diretto. Adesso si resta chiusi in casa, dietro una tastiera apparentemente liberatoria, ma che di fatto ti tiene in gabbia. Più siamo interconnessi tra noi, più il livello del dialogo sembra abbassarsi per arrivare rapidamente agli estremi. È un processo di tribalizzazione, prodotto certamente dalla connessione delle persone attraverso i social media a cui fanno da contraltare l’assuefazione e l’indifferenza. Ogni artista è figlio del suo tempo e io sono figlio di un momento storico diviso tra due ere, tra l’analogico e il digitale. Ora la musica sembra essere quasi solo una mera opportunità di carriera per influencer. Davvero, non lo avrei mai pensato. Ed ecco che oggi, chi ha talento, a differenza di un tempo, non sa più se prima o poi ce la farà. Nella musica come nella pittura, nel cinema o nella letteratura. Ad esempio, credo sia molto bello aver accesso alla musica in qualsiasi momento, ma al contempo penso sia dannoso perché non credo che il pubblico ora dedichi alla musica lo spazio necessario. I miei gusti musicali si sono formati in un certo modo, proprio perché non avevo accesso a tutta la musica del mondo. Ascoltavo quello che riuscivo a trovare e se compravo un disco che non mi piaceva, era un problema. Siccome ci avevo investito i miei risparmi, che mettevo da parte con fatica, dedicavo più tempo ai miei dischi, li studiavo e dopo un po’ li capivo.
Perché il titolo “Unnatural Self”. Che significato ha per te?
È un lavoro che arriva a quattro anni di distanza dal precedente Ep “I Can’t Breathe” ed è come se fosse il best of dei quattro album che avrei potuto fare in questi anni. A causa della pandemia, ho interrotto la mia abitudine di pubblicare un lavoro all’anno. Non era mai il momento giusto e allora continuavo a lavorare in studio, a fare e rifare andando alla ricerca del Santo Graal di ogni musicista, ovvero il suono. Ora, per la prima volta, anche i testi svolgono un ruolo importante, paritario con la musica. Da sempre apprezzo le canzoni che contengono più chiavi di lettura, quando si aprono a più di un solo significato. Brani di questo tipo possono raggiungere molte più persone e questo è affascinante, perché ognuno ci trova sempre qualcosa di diverso. Ed è proprio ciò che accade con la title track di questo mio nuovo lavoro. I feedback che ricevo vanno ad arricchire il significato che attribuivo originariamente a questo brano in una maniera per me nuova e sorprendente.
Le copertine dei tuoi dischi sono molto curate, che importanza dai al packaging degli album? Come scegli le immagini?
Tutti gli artwork dei miei lavori hanno un significato specifico, collegato direttamente alla musica, il rapporto con le arti visive è sempre stato molto forte per me. Fin dagli inizi della mia carriera, ho avuto l’enorme fortuna di poter collaborare con un grande fotografo come Roberto Masotti, legato a etichette come Ecm e Cramps Records, e in seguito con Ahmed Emad Aldin, designer di “The Endless River”, l’ultimo lavoro in studio dei Pink Floyd, un disco che amo moltissimo. Un altro incontro importante è stato con Emil Schult, l’artista che ha curato le copertine degli album più iconici dei Kraftwerk, che per me ha realizzato nel 2018 la cover di “A Perfect Cut In The Vacuum”. Ma l’album di cui sono più soddisfatto per qualità e coerenza, sia sul piano visivo quanto sotto il profilo strettamente musicale, è senza dubbio “Unnatural Self”. È il frutto di un lavoro accurato svolto insieme al fotografo Rossano Ronci, al grafico Giancarlo Cagliero, entrambi autori di alcune copertine per i Subsonica, e all’artista Roberto Rossini. In particolare, è stato prezioso l’incontro con Gianfranco Cagliero, alias “Delavie”, che a Torino lavora in uno studio di grafica specializzato nella creazione di copertine per album musicali. Insieme abbiamo avuto uno scambio molto intenso, anche sul piano sonoro. Giancarlo è infatti il cuore pulsante dei [ MONOTONOISE ], duo di musica elettronica votato all’ambient e alla techno di cui fa parte insieme a Enrico “Urz” Vaudet, e ha realizzato il video ufficiale del loro remix di “Unnatural Self”. I [ MONOTONOISE ] hanno prodotto inoltre alcune tracce significative del mio nuovo album, con loro si è creato davvero un bel clima e spero che potremo lavorare ancora insieme nel futuro.
Quali sono i tuoi fotografi/pittori che più ti hanno ispirato e perché?
Adoro la pop art come fotografia della società consumistica del mondo occidentale nel dopoguerra, così come il mondo fluttuante nel Giappone dell’Ukiyo - e attraverso le stampe di Utamaro, Hokusai e Hiroshige. Se la prima si sofferma solo sul mostrare la realtà, il secondo allude al ciclo continuo di morte e rinascita a cui gli esseri umani sono condannati e al quale dovrebbero scampare rifuggendo dalle passioni e dai beni materiali. Due fenomeni artistici tanto opposti e contrastanti quanto, in un certo senso, vicini. Amo molto anche il cinema come opera d’arte totale. Per questo mi ha fatto molto piacere prendere parte alla colonna sonora di “Wanted” del regista Fabrizio Ferraro, un film prodotto da Vivo Film con Rai Cinema, presentato alla 18esima edizione della Festa del Cinema di Roma e attualmente in distribuzione nelle sale italiane, prima di essere trasmesso anche in tv.
Hai in progetto concerti in giro per l'Italia?
Sì, certo. Per presentare il nuovo album “Unnatural Self” ho dato vita alla mia band Paolo Tarsi’s Ballet Mécanique di cui fa parte Alessandro Gerbi, ex-percussionista dei Csi e batterista dei Diaframma. Insieme suoneremo il 15 marzo al Teatro Rossini di Pesaro. In solo, invece, sto ritornando a sonorizzare dal vivo film muti come “Il gabinetto del dottor Caligari”, il capolavoro dell'espressionismo tedesco di Robert Wiene. Ma sto anche proponendo un live audio/visual, intitolato "I Can't Breathe In The Vacuum", che racchiude i primi miei tre lavori pubblicati con Anitya Records, che negli ultimi tempi ho portato un po’ in giro, da Amsterdam a Torino, passando per Germi, il locale di Manuel Agnelli nel cuore di Milano. La trilogia, che si avvale dei visuals dell’artista Roberto Rossini, è costituita da un album e due Ep cronologicamente consecutivi - "A Perfect Cut In The Vacuum" (2018), "Artificial Intelligence Ep" (2019), "I Can't Breathe Ep" (2020) – ed è un viaggio sonoro tra ambient, kraut-rock, sperimentazione elettronica ed electropop.
Furniture Music For New Primitives(Cramps Records, Rara Records, 2015) | ||
Petite Wunderkammer(Coward Records, 2016) | ||
A Perfect Cut In The Vacuum(2×Cd, Anitya Records, 2018) | ||
Artificial Intelligence(Ep, Mondo Groove, 2019) | ||
I Can't Breathe (Ep, Anitya Records, 2020) | ||
Unnatural Self (Anitya Records, 2024) |