Elettricità, tridimensionalità e movimento. Onde trasmesse e percezioni condivise con la macchina. Ci sono alcune parole chiave con cui si possono perfettamente definire i set live di Suzanne Ciani col suo strumento performativo prediletto, il Buchla 200E, evoluzione del primo strumento da lei adoperato e nato dalla collaborazione col genio dei sintetizzatori Don Buchla. Ciani in più occasioni ha ribadito come la performance sia espressione della relazione tra lei e la macchina, un’esperienza che avviene “qui e adesso” alla presenza loro e nostra, rigorosamente spazializzata in quadrifonia: “I’m a purist”, ribadisce durante la nostra intervista. La scintilla è tutta elettronica e corre lungo i cavi colorati di moduli, i controlli, i pad che Ciani gestisce dal vivo attraverso una macchina “calda”, che “ha un suo cervello” e una sua “architettura”, come dice lei stessa. La performer-compositrice crea dal vivo relazionandosi con la macchina e trasformando segnali e note nel tempo attraverso lo spazio: dal loro incontro dal vivo il 6 aprile 2024 al Cinema Massimo di Torino – una collaborazione tra Jazz Is Dead!, Inner Spaces e Museo Nazionale del Cinema – nasce una lunga suite di oltre 60 minuti in quadrifonia, in cui a dominare è il movimento, tra i suoni, tra le frequenze, tra i parametri, tra i quattro monitor distribuiti nella stanza. Waves, onde. In qualsiasi senso tecnologico e metaforico si possano interpretare. Prima della performance, abbiamo dialogato con Ciani nella sala del cinema. E ci ha condotti per mano dentro un mondo in buona parte inedito. Un microcosmo di cavi e risacche che esplicano forme d’arte ibride, a valle di una carriera lunghissima, densa di snodi, intuizioni e voli dell’anima.
Avere l’opportunità di intervistarti ci emoziona molto. Iniziamo dall'inizio della tua carriera. Durante la laurea triennale al Wellesley College, quando studiavi come compositrice classica, hai scoperto il suono di uno strumento classico elaborato da un computer grazie a un professore del MIT, giusto?
Sì, stava provando a fare dei suoni col computer.
Come ti ha aperto la mente quel suono? Ha dato l’avvio a un tuo nuovo percorso creativo come compositrice o performer, o entrambe?
Per prima cosa mi ha posto una domanda: cos’è? Dove si trova? Dove lo trovo? È lì che ho capito che c’era qualcosa di nuovo di cui volevo sapere di più, ma allora non riuscii a trovare altro fino a che non mi sono trasferita nella Costa Ovest, e lì ho incontrato la musica elettronica.
Potresti descrivere il contesto artistico di Berkeley nella seconda metà degli anni 60, dove hai sviluppato la tua visione pionieristica?
Nel 1968 quando studiavo alla laurea specialistica (alla University of California, Berkeley) non c’era e non veniva insegnata la musica elettronica, sono dovuta uscire dalla scuola per trovarla. L’ho trovata prima di tutto al San Francisco Tape Music Center, che era uno studio ad accesso pubblico, in cui avevano gli strumenti: il primo Buchla, il 100; il Moog 15; altri congegni elettronici con cui potevi suonare; e un registratore a nastro. Quindi andavo là e trascorrevo del tempo con questa strumentazione. Non era un luogo d’incontro come molti pensano, ma era un luogo privato, dove ti mettevi in una stanza con l’attrezzatura e trascorrevi il tempo con le macchine. Mi lasciarono anche prendere uno strumento per l’estate, il Moog. Ma il momento cruciale per me fu quando incontrai Don Buchla, che ebbi l’opportunità di conoscere perché un mio amico era suo vicino di casa e mi portò nel suo studio. Quando entrai, pensai: “O mio Dio!”. Ero sopraffatta! Ho visto tutti i moduli che aveva nello studio e ho pensato: “Questo è il luogo al quale appartengo. Devo tornare”. Così quando mi sono diplomata, sono tornata a lavorare per lui.
Prima di passare al periodo da Buchla, eravamo curiosi di sapere se in quegli anni avevi partecipato a progetti multidisciplinari e multimediali, magari qualcosa che coinvolgeva le immagini in movimento (video, film)? Questo prima sia della colonna sonora di “The Incredible Shrinking Woman” di Joel Schumacher (1981), sia della tua lunga carriera nel mondo della pubblicità.
L’amico che mi ha presentato Buchla era uno scultore, Harold Paris. Doveva realizzare una mostra a Bruxelles, in Belgio (nel giugno del 1970), e mi propose di fare un progetto insieme. Facemmo un disco che si chiamava “Voices Of Packaged Souls” (1970). Mi dette il concept del disco e una lista con circa 13 idee – il suono del calore, il suono del freddo, il suono di un uomo anziano che ama, il suono di un fiore che cade… – così presi questi spunti e ci lavorai alla stazione radio di Berkeley, l’emittente pubblica Kpfa, da mezzanotte all’alba che era l’orario in cui mi potevano dare lo studio. Ho usato piccoli frammenti di suoni che avevo fatto col Buchla al San Francisco Tape Music Center, avevo dei suoni registrati e avevo anche elaborato dei suoni al computer all’Artificial Intelligence Laboratory di Stanford University. L’Intelligenza Artificiale era ai primordi e là c’era un laboratorio in cui si tenevano corsi. Un’estate ne frequentai uno con Max Mathews, il padre della computer music, e con John Chowning, che divenne noto per il suo lavoro sulla modulazione di frequenza (Fm), quindi le scoperte con le Fm furono inserite in molti strumenti che avevano come la (tastiera) Yahama DX7 – quindi è Stanford che ha dato la licenza di queste tecnologie ai giapponesi – e io ero là in quel momento. Era perfetto! Così ho fatto il progetto e prodotto un Lp usando tutti questi elementi, Lp che è stato ristampato tempo fa da Finders Keepers Records.
Potresti raccontarci la tua esperienza da Buchla in cui facevi la saldatrice e, allo stesso tempo, stavi concependo lì il tuo strumento musicale? Immaginarlo e farlo.
Stavamo costruendo i modelli 200, che venivano spediti a CalArts – una nuova scuola – e in studi in Norvegia e in altre parti del mondo. Molti artisti, soggetti singoli, non lo compravano perché era uno strumento troppo costoso. Ma io ne volevo uno, così il mio lavoro era orientato a guadagnare affinché potessi comprarne uno. Avevo un motivo, ero guidata dalla passione e dall’amore! Così ho imparato come guadagnare, ed è lì che sono venute le pubblicità: facevo le pubblicità e venivo pagata bene. Avevo provato ad avere un lavoro normale, ma non ci riuscivo. Avevo provato a essere assunta come ingegnere del suono, ma non volevano una donna. Ho tentato anche di fare la cameriera, ma mi reputavano troppo qualificata a causa della laurea specialistica. Non c’erano molte possibilità per le donne, ma la musica elettronica mi ha dato una grandissima chance. Non me ne rendevo conto allora, ma era una straordinaria esperienza sinergica: essere innamorata di uno strumento e avere l’opportunità di essere sostenuta da questo strumento! È uno strumento costoso, le persone più giovani me lo dicono sempre.
Nelle tue interviste parli dei costi della sostituzione dei singoli pezzi quando si rompevano, mentre eri in viaggio. È così intrigante che tu abbia lavorato là come saldatrice: conosci la componente materiale di una tecnologia musicale. Nel film “Sisters With Transistors” (2020) definisci la macchina come “calda”, ha quindi molto a che fare con la relazione.
Sì, l’elettricità è parte della nostra vita adesso, non ci rendiamo neanche conto che è lì, ma quando se ne va, sentiamo che le nostre vite diventano tristi e cupe. In alcuni momenti è piacevole (che non ci sia), mi siedo di fronte all’oceano, ma in generale l’elettricità porta vitalità alle nostre vite. E questi strumenti hanno bisogno dell’elettricità.
È affascinante l’idea che in quegli anni ci fossero gli strumenti musicali elettronici ma anche gli strumenti video elettronici, sperimentati da artiste come Steina Vasulka e Laurie Anderson. E c’era l’idea di personalizzare i propri strumenti.
Avevamo un gruppo che si chiamava E.A.T. Experiments in Art and Technology, lo conoscete?
Sì, c’era anche Robert Rauschenberg, giusto?
Sì e Frank Oppenheimer, il fratello di Robert, che era dietro al progetto. Ci incontravamo tra ingegneri di grandi compagnie, come la Hewlett-Packard, e artisti. Io ho lavorato con un videoartista che aveva creato un prototipo di sound sensitive visual Tv.
Il periodo dei media elettronici è così affascinante! L’elettricità è una chiave, l’intermedialità è una chiave, le interfacce sono una chiave; era un contesto collaborativo, e poi c’era il momento in cui, da compositrice, avevi la necessità di trascorrere individualmente del tempo coi tuoi strumenti.
Esattamente, è ciò che fanno i compositori. Se devi comporre per strumenti acustici tu devi conoscere quegli strumenti, devi conoscerne la gamma (range), l’ampiezza (width), i punti più duri. Da compositore porti tutte queste conoscenze dentro la tua composizione che può essere performata. Io sono stata formata per farlo, per conoscere tutti questi aspetti, e quando sono passata agli strumenti elettronici, le mie orecchie erano felici di sentire quel range. Non c’è alcuno strumento che può ripercorrere tutta la gamma dal fondo alla cima! E l’ampiezza alta è davvero alta, il basso è davvero basso. È semplicemente una palette magnifica, se la pensi in termini di suono tradizionale! Questa è stata una grande apertura dal punto di vista del suono.
Quanto il conoscere i primi software di computer music ha arricchito la tua immaginazione?
Era il campo di Mathews, Max veniva dai Bell Labs, ma si trattava di pura computer music. Il mio obiettivo invece era la performance. E il Buchla era unico, perché era stato concepito da Don Buchla per essere uno strumento performativo. Era speciale! Le luci ti forniscono molte informazioni, ci sono un sacco di cavi codificati colorati, con due tipologie di cavi diversi. È veramente uno strumento comunicativo: quando lo suono, so cosa sta accadendo dentro la macchina, c’è un sistema di feedback. È il concept di Buchla. Questi strumenti non erano considerati “performanti”. Quando hanno inserito una tastiera – Moog l'ha fatto – le persone pensavano che i sintetizzatori si suonassero tramite la tastiera. Ma non è il modo in cui li suoni. Ci è voluto molto tempo per capirlo, fino ai giorni d’oggi, in cui torniamo a considerare il potenziale di questi strumenti.
Nel documentario a te dedicato, “A Life In Waves” (2017), dici una cosa specifica riguardo al suono generato dai sintetizzatori: “Non riguarda il suono, riguarda il movimento”.
Riguarda il modo in cui il suono si muove. Se pensi al suono di uno strumento ti sembra “congelato”: suona come un flauto, suona come un violino… Lo suoni alla tastiera e rimane in qualche modo “bloccato”. Ma per me in questi strumenti, dal momento che riguardano l’elettricità e il controllo del voltaggio, il modo in cui controlli il suono è attraverso il voltaggio. Non è come lo strumento tradizionale in cui hai delle limitazioni fisiche, qua hai un ampio spettro per il controllo. Il suono si muove sempre e non è propriamente bloccato, si muove, va di qua, va di là, e si muove nello spazio. Stasera, ad esempio, suonerò in quadrifonia.
L’unicità della musica elettronica riguarda anche il concetto di “colore”, che permette di operare una sinestesia e riconnettersi alla nostra immaginazione.
Perché siamo esseri umani e per capire il suono abbiamo bisogno di concettualizzare, lo facciamo per comprendere le cose. Ma io non penso al suono in termini visivi. Io collaboro con la macchina e penso solo alla relazione con la macchina: cosa può fare la macchina, cosa posso fare io con la macchina, cosa possiamo fare che possa funzionare. Quando stai performando, è come una coreografia: fai dei movimenti e ascolti continuamente, se c’è qualcosa di sbagliato, capisci e lo aggiusti.
Molte volte fai riferimento alle onde (waves), sono anche una specie di simbolo.
Sì, perché le onde sono diventate una forma abbreviata dell’universo, tutta l’energia della galassia sembra muoversi attraverso onde: il sistema energetico è quindi un’onda. Abbiamo onde in una gamma udibile, le possiamo sentire ed è straordinario, ma ci sono anche onde (che non udiamo): sto lavorando a un progetto con un gruppo di astrofisici a Tenerife, che ha scoperto le onde di frequenza delle galassie.
Raccontaci un aneddoto legato all'importanza della casa di Bolinas con la vista sull'oceano che ha un peso nella tua musica.
Il Buchla è uno strumento fantastico per produrre il suono delle onde. Molti pensano che io abbia campionato le onde, ma io non campiono. A volte mentre suono le mie onde in studio, sento a distanza le onde dell’oceano. È tutto connesso: sento le onde dentro e fuori. Adesso però ho un problema con la casa, perché quest’anno ha piovuto molto e la scogliera si sta abbassando, a causa di un’erosione. È un posto magnifico, ma non so se potrò continuare a starci…
La presenza del mare come uno stato mentale.
È esattamente quello! È una grande palette, uno spazio libero e sicuro per creare. Un luogo magnifico.
Cosa ricordi dei tempi in cui è uscito “History Of My Heart” (1989)? È il primo album in cui compaiono anche tanti altri strumenti. Come guardi oggi a quel periodo della tua vita artistica?
Il mio primo album è stato di pura elettronica ("Voices Of Packaged Souls"). Senza che me ne accorgessi, senza alcun concept o obiettivo, gradualmente ho iniziato ad aggiungere strumenti acustici. Il primo album in cui è accaduto è stato “The Velocity Of Love” (1986), in cui suonavo il pianoforte, ed è stato molto apprezzato. Così ho fatto un album con solo piano (“Neverland”, 1988). “History Of My Heart” è venuto fuori naturalmente, non so perché avessi iniziato ad aggiungere altri strumenti, ma questo processo ha portato direttamente a “Dream Sweet” (1994), che è sostanzialmente acustico e che ho realizzato con un’orchestra registrata in Russia.
“Seven Waves” (1982) è una pietra miliare per il nostro sito, e per tutta la musica. Come e quanto sei legata ancora oggi a quell'album? Che ruolo ha avuto nella tua carriera?
È stato propriamente il mio primo album e quando l’ho realizzato credevo che sarebbe stato l’ultimo, perché ho pensato: “Questa è la mia dichiarazione, l’ho fatta e adesso sono a posto”. Non immaginavo quanto la vita fosse ancora lunga e quante cose sarebbero potute accadere… Recentemente ho fatto due concerti in cui ho integrato parte dei materiali preparatori del disco – quando ho ordinato il mio archivio, ho trovato le registrazioni originali, proprio le sessioni multitraccia – e le ho trasferite in digitale, così ho avuto accesso ai singoli suoni dell’album. Ho fatto un concerto in cui li ho usati. Sono una purista, quindi non amo usare dal vivo suoni pre-registrati, ma erano bellissimi! Non lo farò al concerto di stasera, ma mi piacerebbe tornare a proporlo perché è come se fossero due mondi che collidono. (Agli inizi) avrei voluto registrare i primi Buchla in quadrifonia, ma non è accaduto perché non avevamo il registratore a nastro, i quattro canali, il contratto discografico. Nel momento in cui ho avuto l’opportunità di registrare un disco, avevo superato la fase dei Buchla, ero a un nuovo stadio, e l’ho registrato come un album da studio. Adesso che suono parte di “Seven Waves” col Buchla funziona benissimo, è sorprendente! E il pubblico ama questa commistione, perché, sì, amano il Buchla ma “Seven Waves” è molto emozionante, così quando combini insieme le due cose il risultato è davvero potente. Mi spiace non farlo stasera.
Ritornerai per farlo!
Certo!
È cambiato negli anni il tuo approccio verso la sperimentazione tecnologica? Personalizzi ancora gli strumenti che adoperi?
La tecnologia è sempre la stessa, nel senso che (di base) cambia continuamente e tu devi sempre mantenerla. È come avere un’automobile. Oggi viene fatto tutto sostanzialmente dai computer. Comunque richiede un’attenzione costante e cambia costantemente.
Cosa pensi che le donne, dagli anni 60, siano state in grado di esprimere nella musica attraverso i dispositivi elettronici? Attraverso la musica e i media elettronici.
Penso che alla fine abbiamo capito che le donne erano particolarmente coinvolte nell’elettronica, perché, come spiega magnificamente Laurie Spiegel in “Sisters With Transistors”, non si adattavano e non appartenevano ad altri contesti. E così potevano fare e avere il controllo completo di quello che stavano facendo. Era una cosa estremamente allettante per le artiste. Allora non c’era comunicazione, non sapevamo dell’esistenza l’una dell’altra, fino all’uscita di quel film! Abbiamo scoperto la nostra storia. È scioccante sapere quanto strada era stata fatta senza saperlo. In tutto il mondo c’erano musiciste elettroniche: in Danimarca, in Islanda, ovunque! In tanti luoghi diversi le donne operavano con questi strumenti, che erano tutti differenti: lavoravano con l’idea di esplorare una relazione intima con questo tipo di tecnologia.
Strumenti che si potevano “customizzare”.
Certo, loro li hanno tutti personalizzati! E siamo tutte diverse! È la caratteristica di questa tecnologia. Puoi comprare strumenti pre-settati per iniziare, ma dal momento che puoi personalizzarli non c’è limite a quello che puoi fare. Se ho bisogno di qualcosa, perché è comunque una forma d’arte collaborativa, mi rivolgo agli ingegneri per implementare i tools. Trovi la persona giusta – non è facile! Io l’ho trovata – la persona che fa esattamente ciò di cui hai bisogno.
Fantastico! Pensando al mondo del video, mi viene in mente anche cosa hanno fatto Nam June Paik e Shuya Abe con la progettazione dell’Abe/Paik Video Synthetizer.
Sì! Con Charlotte Moorman che suonava il violoncello, era magnifico…
Che consigli daresti a chi è giovane e si avvicina al mondo dei sintetizzatori?
Gli direi di passare del tempo con gli strumenti che ha a disposizione. A volte si bloccano e continuano a comprare moduli, che va bene, ma è necessario trascorrere del tempo con i moduli che hai. Non importa da cosa parti, l’importante è conoscere ciò che hai a fondo, esplorarlo. Non è una cosa ovvia. Quindi (direi) conoscere i propri strumenti e spenderci tempo.
Conoscersi anche a vicenda, no? Perché suonare quegli strumenti è un processo relazionale.
Assolutamente sì!
Immagina di incontrare un amico d'infanzia, che non vedi da tempo, e che non sa che sei un musicista. Quale canzone gli suoneresti per introdurlo alla tua musica?
Ho due identità: una è quella romantica-neoclassica, l’altra è quella performativa del Buchla. Penso che “Seven Waves” possa essere un’ottima introduzione a quei mondi. Anche “The Velocity Of Love” potrebbe essere un ottimo inizio, perché è elettronico e romantico. Ho suonato a Mirabella dalla mia famiglia (il paese di origine), ho fatto un concerto al piano e lo hanno amato, è stato meraviglioso. Adesso, anche se non apprezzano particolarmente la musica elettronica, si sentono in dovere di fare anche il concerto elettronico, quindi vediamo cosa succede!