Robert Fisher è un narratore di storie; lo è da più di dieci anni coi suoi Willard Grant Conspiracy, una delle più emozionanti e capaci band del panorama folk-rock statunitense, e lo è stato durante l’ora abbondante in cui ho chiacchierato con lui in un albergo milanese, in un assolato pomeriggio primaverile.
E’ un fiume in piena quando parla, sempre appassionato e infinitamente profondo e gentile, un conversatore di quelli che ben raramente si incontrano. Stare ad ascoltarlo e discorrere con lui è stato davvero un piacere enorme.
Dopo sette album e più di dodici anni di carriera, si può ben dire che siete in giro da un bel po’! Ti aspettavi di arrivare così lontano quando avete iniziato?
Non ne avevo nessuna idea, ci speravo più che altro. Vedi, ho iniziato negli anni Ottanta a suonare, e prima che qualcuno si accorgesse di quello che facevo, molti anni e anche diverse band erano andate. In qualche modo, l’approccio è sempre stato diverso da quello di altre formazioni; non ho mai pensato in termini di "ora mi cerco un contratto, faccio un disco, poi andiamo in tour". Fin dall’inizio era una sorta di forza interiore che mi spingeva a fare musica, era ed è qualcosa che ho dentro e che deve uscire fuori. Quando facciamo un disco, spero sempre che alla gente piaccia, ma non c’è nulla di strutturato dietro e io, comunque, continuerei a suonare anche senza un contratto.
E’ un qualcosa che ha più a che fare con la tua vita che non con una carriera…
Sì! E poi non la definirei neppure una carriera. Io vivo facendo un altro lavoro, quello che si guadagna col gruppo viene sempre reinvestito nel gruppo stesso, spesso sono più le spese che gli introiti. L’idea stessa di carriera è un po’ limitante per me. E’ davvero un onore essere conosciuti sia in patria che all’estero, poter girare il mondo portando la propria musica a persone che sai che ti seguono e l’ascoltano. Come musicista, tutto ciò ti fa sentire una grossa responsabilità nei confronti del pubblico e anche della musica stessa.
Con "Pilgrim Road" avete abbandonato le atmosfere elettriche di "Let It Roll" per riconnettervi piuttosto a un disco come "Regard The End". Mi puoi dire come è nato quest’ultimo disco?
La tua è una giusta osservazione. Mentre "Let It Roll" era un album con un feeling da live band, "Pilgrim Road" ha le stesse radici e parte dalle stesse idee di "Regard The End". Già quando registrammo quel disco, sapevo che in futuro sarei tornato su quelle idee per elaborarle ulteriormente e spingerci oltre. Proprio durante il tour di "RTE" ci trovavamo a Glasgow, al 13th Note, per uno show; fu uno di quei concerti in cui tutto va male fin dall’inizio, con un sacco di problemi tecnici e una serie d’intoppi assortiti. Al termine del concerto, che portammo a termine facendo del nostro meglio, venne a parlarmi sto tizio molto timido che parlava a voce bassissima. Si presentò come compositore classico e mi offrì di collaborare con noi. All’inizio ero piuttosto scettico, nei nostri dischi avevamo già usato archi, fiati, piano, e come ti dicevo prima, non pianifico mai nulla con largo anticipo. Quel tizio era Malcolm Lindsay che ha co-scritto con me l’intero "Pilgrim Road".
Il nuovo disco espone nuove influenze rispetto al solito; ha sempre le radici nel suono americana ma poi va a toccare lidi cameristici e qualche sfumatura jazzata…
Non credo ci sia del jazz.. Io lo vedo come una combinazione di diversi elementi. Malcolm è un musicista classico, ma ha anche suonato la chitarra in gruppi rock, è un conoscitore della musica folk. Abbiamo un background simile. Quando collabori con qualcuno, porti con te tutte le tue esperienze precedenti. Per questo disco ci siamo messi a scrivere e a registrare tutto nello stesso tempo, con molto istinto e poco ragionamento. Volevamo evitare di fare come quelle band che scrivono il pezzo e poi chiamano un arrangiatore ad appiccicargli gli archi sopra, io volevo che quelle parti fossero parte integrante della struttura stessa delle canzoni, una loro significativa voce emozionale. Volevo usare le viole, i violini, il violoncello o il vibrafono in modo inusuale e non convenzionale e inserirli in strutture anch’esse non classiche. Un pezzo come Painter Blue, ad esempio, non ha il ritornello. O meglio, esso è rappresentato da una partitura musicale, come in un movimento sinfonico. Poi, ovviamente, ci sono anche pezzi più tradizionali, che puoi canticchiare facilmente, canzoni dall’appeal pop inserite in un contesto un po’ diverso. Un’altra cosa a cui abbiamo prestato attenzione è stata quella di mantenere un approccio minimale, evitando di suonare pomposi e magniloquenti. Abbiamo ragionato secondo il motto jazz less is more.
Quando prima dicevo jazz, lo intendevo infatti come mood…
Sì, "Jerusalem Bells" ha un mood jazz senza esserlo, così come anche "Water And Roses". "The Great Deceiver" ha, per contro, un mood blues pur essendo strutturalmente una folk-song.
Chi è la ragazza che canta in "The Great Deceveir"?
Brava, eh? Si chiama Iona MacDonald, è parte di un duo, formato col suo ragazzo che suona la slide guitar; si chiamano Dog House Roses, sono di Glasgow e tra un paio di mesi dovrebbe uscire un loro disco. Ci eravamo conosciuti attraverso My Space e così, mentre ero a Glasgow a registrare il disco, ho notato che suonavano e sono andato a vederli. Da lì a proporgli di collaborare al disco, il passo è stato breve.
C’è una gran cura per gli arrangiamenti in "Pilgrim Road".
Io e Malcolm ci abbiamo lavorato intensamente per dieci giorni, senza essere inutilmente puntigliosi ma dandoci la possibilità di lavorare a fondo su di essi e di essere il più possibile articolati. Stavolta, poi, ho voluto essere un po’ meno passivo del solito con gli altri musicisti: ho consegnato loro delle parti strumentali da eseguire precise e definite, specificando che avrei accettato dei suggerimenti, ma sempre partendo dalle parti che gli avevo presentato.
Mi sembra che un po’ tutte le canzoni di "Pilgrim Road" affrontino il tema della spiritualità. Diresti che c’è una connessione evidente fra le varie canzoni che compongono l’album?
Non particolarmente. Non tutte le canzoni affrontano lo stesso tema e anche quando lo fanno, hanno punti di vista differenti. In "The Great Deceveir" il protagonista della canzone chiede che gli sia mostrato il diavolo per poter riconoscere Dio, il che ne fa una sorta di inno rovesciato e la rende diversissima da "The Pugilist", dove al centro della scena c’è un lottatore che si batte per realizzare i propri desideri, pur tentando di conservare dentro di sé la propria spiritualità. Forse sono argomenti inconsueti ma, se ci pensi bene, temi come quello della fede sono molto dibattuti oggigiorno nel mondo. Comunque, non ho scritto premeditamente di queste cose, in qualche modo, alla fine della realizzazione del disco, io stesso me ne sono meravigliato. Ho solo tentato di scrivere nel modo più onesto possibile, senza curarmi troppo del risultato finale e dell’affresco che poi ne sarebbe venuto fuori.
Ci sono alcune parole che ricorrono spessissimo nelle recensioni dei vostri dischi: triste, malinconico, gotico. Che ne pensi? Ti dà fastidio la cosa?
Penso sia una scappatoia molto facile metterla giù in questo modo, dire: è triste! Malinconico è un termine che invece ritengo appropriato: molta musica, film, libri, specie degli anni 50 e 60 è malinconica, termine che porta dentro di sé una certa dose di dolcezza, anche se oggi viene usato quasi esclusivamente in un’accezione negativa, cosa che ritengo sbagliata. E’ un termine che in realtà sottende una qualche forma di riflessione; la gente spesso non ha tempo e voglia di riflettere sulle cose che non funzionano, pensa solo a trovare una soluzione veloce ai problemi, non meditando a fondo su cose come la perdita, il dolore. Giù una pillola e tutto è risolto. Invece attraverso queste cose c’è molto da imparare su se stessi, sulla vita. Alla fine, la gente, leggendo quelle parole in una recensione, finisce per associarli a cose come la noia o la tristezza fine a se stessa, cosa che ovviamente non è.
Probabilmente molti di quei termini vengono usati anche come sinonimo di intenso, emotivo...
E’ un po’ lo stesso problema di quando si mettono le etichette ai dischi. Come quando dici a qualcuno che odia il country che quello è un disco country e questo basta a indurlo a non approfondirne la conoscenza, magari precludendosi la possibilità di scoprire qualcosa che potrebbe esser anche per lui significativo. Io preferirei che non si dicesse di cosa parlano le mie canzoni, lascerei al pubblico la possibilità di interpretarsele da solo e di metterci dentro qualcosa di loro stessi.
Molto spesso hai registrato i tuoi dischi in Europa; cosa ti lega al Vecchio Continente in questo senso?
Il posto in cui registro, in realtà, è dettato solo da motivi di comodità legata agli impegni del momento. Ho registrato un po’ ovunque, Glasgow, Boston, la Slovenia, l’Olanda. Registrare in giro per il mondo, molto spesso mentre sono in tour, ti apre possibilità che non ti aspetteresti, un po’ come per il caso dei Dog House Roses che ti dicevo prima. Ultimamente ho registrato la mia voce per un pezzo di Cesare Basile mentre ero in Olanda, mentre lui era in studio con John Parish chissà dove. E’ stata una cosa completamente improvvisata e quasi accidentale ma bellissima se ci pensi. La moderna tecnologia ti permette queste cose ed è una vera conquista, fantastica da usare. Anche Jackie Leven aveva una canzone che assolutamente voleva cantassi io; così ce ne siamo andati in Galles, in un cottage in mezzo alla neve, a registrare. Sono tutte grandi avventure e belle esperienze, che danno forma a una sorta di community, di grande famiglia. "Pilgrim Road" è stato registrato a Glasgow perché Malcolm vive lì e io ero in tour in Europa. Dove si registra non ha molta importanza, ci si affida a una sorta di geografia mentale, anche se l’atmosfera particolare, grigia e piovosa, di Glasgow un po’ ha influito sul risultato finale.
Trovi differenze tra il pubblico americano ed europeo?
Cambia molto da paese a paese; in posti come l’Irlanda o l’Olanda la gente continua imperterrita a parlare durante i concerti, in Germania sono tutti molto tranquilli. Io sono uno storyteller e quindi, in paesi come la Spagna o l’Italia, mi devo un po’ limitare perché so che non tutti parlano inglese. Io però, più che alle differenze, preferisco pensare all’universalità del linguaggio musicale e a come questo possa essere recepito in maniera sostanzialmente simile, a prescindere dai contesti culturali, dalla lingua parlata, dalla storia di quel paese. E’ tutta una questione di onestà della presentazione, d’intensità emotiva, di qualità tecniche ovviamente. Recentemente sono stato in Portogallo e mi sono appassionato al fado, pur non comprendendo una sola parola di quello che viene detto nelle canzoni. In questo senso, generalmente, gli americani tendono a rifiutare la musica non in inglese, la cosa li spiazza, non fanno molta fatica. Nel resto del mondo ci sono paesi che hanno conservato le proprie radici musicali, come l’Italia dove puoi ascoltare ottima musica cantata in italiano e dove avete una tradizione culturale ricchissima, e altri dove invece la propria tradizione musicale è stata abbandonata a favore dei modelli globali dominanti.
Sei interessato all’aspetto politico delle canzoni?
Bella domanda! Io, generalmente, tendo a scrivere canzoni svincolate da un aspetto temporale. Credo che i testi debbano poter fluttuare nel tempo in modo che anche fra cent’anni o in qualsiasi altro momento possano risultare freschi e attuali. Non scrivo mai di politica in maniera specifica; quando affronto argomenti politici lo faccio senza entrare nell’attualità, senza specificare date o avvenimenti precisi, tentando di affrontare la cosa in maniera più universale.
C’è qualche produttore con cui ti piacerebbe lavorare?
Non saprei rispondere.. Io stesso lo sono e, secondo me, il ruolo del produttore è quello di facilitare e sviluppare ciò che c’è nella mente del gruppo, spingendoli oltre i loro confini, verso territori inesplorati. E’ una vera e propria sfida! Ora, se questo è quello che cerco in un produttore non saprei chi scegliere, perché dovrei conoscerli personalmente per sapere se possono fare qualcosa per me. Non sono affatto interessato al nome del produttore di grido, a quello che ha quello specifico suono che farebbe suonare il mio disco in quella precisa maniera. Io, piuttosto, cerco una sorta di purezza, di suono naturale degli strumenti.
E invece, gli artisti di qualsiasi disciplina che sono stati importanti per te?
Oh, la lista potrebbe essere lunghissima, lungo un asse che va da Robert Rauschenberg fino a mio nonno (che era un suonatore di contrabbasso e fino a due anni fa neanche lo sapevo!), che mi ha influenzato come persona, non come musicista. Devi sempre avere dei modelli alti; quello a cui servono gli eroi, a prescindere dal talento che hai, è lo spingerti a fare sempre meglio e andare oltre le tue capacità. Loro mi spingono ad avere il loro stesso coraggio e la loro stessa ambizione, senza imitarne il suono però, ma attingendo piuttosto dalla loro attitudine e acquisendo il loro coraggio di sperimentare. Molte band fanno l’errore di voler imitare il suono della musica che amano, evitando di andare invece a cercare la propria vera voce.
Credo che nella musica dei Willard Grant Conspiracy ci sia una forte componente cinematica. Mai pensato di scrivere una colonna sonora?
Sarebbe molto divertente farlo. Spero sempre che qualcuno prima o poi me lo chieda. La musica ha una componente visiva molto forte e mi piace molto l’idea che essa possa creare spazi e tempi nella mente dell’ascoltatore e che una sola canzone lo possa fare in miriadi di modi diversi a seconda dello stesso.
Un pezzo come "Vespers" ti fa sentire come se stessi mettendo piede dentro una cattedrale!
E’ una canzone molto strana quella, solo due viole e quella specie di austero coro maschile russo con dentro Jackie Leven. La parte musicale è un estratto dalla musica per un balletto che Malcolm aveva scritto in Scozia e su cui vedeva benissimo la mia voce. Dal momento in cui mi propose la cosa alla sua realizzazione non passarono che poche ore: i versi li scrissi tutti di getto come in una specie di trance e registrammo la voce la sera stessa sulla partitura di viole. Tutto è andato alla perfezione, una sorta di dono dal cielo. E’ una canzone che amo molto, intensa, oscura, non facile. A volte un po’ mi spaventa, come un po’ tutto il disco.. Mi chiedo: "Non avrò esagerato?". Pezzi come "Jerusalem Bells" o "Water And Roses", a risentirli, mi domando come abbia fatto ad arrivarci. Verra capito? Spero di sì!
Scrivere ti viene facile oppure no, generalmente?
E’ essenziale tenersi ricettivo verso qualsiasi fonte d’ispirazione. La nostra vita è programmata molto intensamente e quindi quando questa arriva, non è detto che tu abbia il tempo di recepirla e agire su di essa. Spesso non si ha neppure la possibilità di riconoscerla perché si è concentrati su altro; in qualità di songwriter, pur avendo la stessa vita complicata di qualsiasi altro, cerco di lasciare degli spazi per riconoscere e agire sull’ispirazione. Bisogna essere abbastanza onesti anche da capirne la qualità: quello che un giorno ti sembra fantastico, il giorno dopo potrebbe rivelarsi pura spazzatura. Sembra facile ma non lo è.
Come vedi il music business oggi e dove si collocano i Willard Grant Conspiracy all’interno di esso?
Se fosse un palazzo, probabilmente in cantina! [risate] Non credo che il music business sia particolarmente diverso dagli altri tempi oggi: c’è un sacco di merda ma anche un sacco di roba ispirata, come sempre, con una predominanza della prima sulla seconda (fanno eccezione gli anni 60 e l’era punk, ma quelli erano tempi fuori dal comune). Quello che è realmente cambiato è il contesto culturale: la gente non sa più riconoscere la qualità perché è stata abituata a degli standard molto bassi, come se si trattasse di fast food. I discografici cercano di vendere il più possibile e nel più breve tempo immaginabile, fregandosene del coltivare artisti a lungo termine ma cercando di sfruttare al massimo il momento immediato; per fare questo hanno livellato la qualità su standard bassissimi, attraverso prodotti vuoti e incosistenti ma il più largamente possibile vendibili e comprensibili.
Per finire, mi devi proprio togliere una curiosità: come mai "Malpensa" si intitola così, come l’aeroporto internazionale di Milano?
[scoppia in una risata fragorosa] Bé, è una storia divertente.. Dovevo andare da Zurigo a Malta ed ero stato costretto a fare scalo a Malpensa dove avevo un’attesa di più di quattro ore, prima di potermi imbarcare. Il mio bagaglio era già stato spedito, il libro che stavo leggendo l’avevo finito e stavo sentendo musica nel mio i-Pod mentre guardavo fuori dalle vetrate il paesaggio e gli altri passeggeri intorno a me. E poi, bang, di colpo, mi viene in mente una melodia! Accidenti, mi dico, questa è una canzone! Non avevo con me né carta né penna, né alcun modo per registrarla o fissarla da qualche parte. Sono andato avanti per le cinque ore successive, fino a che non sono giunto in albergo e ho potuto metter mano al registratore, a canticchiarmela fra me e me, ininterrottamente. Quando raccontai questa storia a Malcolm, mi suggerì di chiamare la canzone così, in onore di quella che, in tutto e per tutto, era stata la madre della canzone, Malpensa! E per una canzone che parla di lasciarsi le cose alle spalle, il nome di un aeroporto mi sembra proprio azzeccato! [risate] Di tutti i problemi riguardanti l’abbandono dei voli di Alitalia e di tutti gli aspetti politici della faccenda so poco e nulla. Non era questo il tema della canzone!