Oltre dieci anni di attività e sei album alle spalle non sono stati sufficienti a far emergere l’ampio collettivo raccolto intorno al cantautore ed eccellente vocalist americano Robert Fisher al di là del pur vario e popolato contesto alt-country.
Eppure, negli undici brani di “Pilgrim Road”, si ritrovano tanti elementi che nel frattempo hanno fatto la fortuna di autori e band che dell’incontro della tradizione americana con il cantautorato e con una sensibilità orchestrale hanno fatto il loro tratto distintivo. Basti pensare a Micah P. Hinson, ai Lambchop e, in parte, anche ad Antony & The Johnsons.
Invece, il barbuto Fisher è quasi sempre rimasto nell’ombra, da perfetto anti-personaggio, continuando a declamare i suoi sermoni biblici, supportato dalle decine di musicisti che negli anni lo hanno accompagnato, e trovando riscontri ottimi ma non sufficienti a far elevare i suoi Willard Grant Conspiracy a un rango paragonabile a quello riconosciuto agli artisti sopra citati.
Si può pertanto essere facili profeti nel prevedere che anche “Pilgrim Road” incontrerà la medesima sorte, nonostante le sue discrete potenzialità diffusive e un’espressività ai massimi di quella finora dimostrata dalla band.
L’album, cui hanno collaborato una ventina di musicisti, si presenta incentrato su arrangiamenti orchestrali, che incastonano la voce profonda di Fisher in un romanticismo morbido e confidenziale, accentuato dalla presenza del pianoforte, in veste di preponderante e in alcuni casi unico supporto a melodie pensose e notturne. Nonostante l’ariosa strumentazione impiegata per la realizzazione di questo lavoro, la band rifugge con grande naturalezza ogni rischio di magniloquenza espressiva e, senza farsi prendere la mano da derive orchestrali eccessivamente pompose, riesce a creare tante ballate di scarna intensità, costruite intorno a poche note e raccolte in un’atmosfera quasi ovattata, dominata dagli archi, tenebrosa ed abbagliante al tempo stesso.
Accanto all’approccio orchestrale, comune denominatore di tutto il lavoro, i brani di “Pilgrim Road” hanno il merito di non fossilizzarsi su schemi troppo rigidi, alternando invece diversi registri espressivi, che vanno dalla compunta teatralità di “Phoebe” e “Jerusalem Bells” al gioioso folk bandistico di “Painter Blue”, passando per il sinuoso romanticismo di “Miracle On 8th Street”, preziosa cover degli American Music Club, che rappresenta anche l’episodio più lungo e meglio riuscito del lavoro, con il suo ritmo più movimentato e le sue aperture armoniche in crescendo, che quasi rimandano ai Tindersticks.
Non mancano, inoltre, passaggi in cui la voce di Fisher assurge a protagonista di brani dalle vesti sonore peculiari: è il caso della poetica “Water & Roses”, tanto soffusa ed elegante da far pensare a David Sylvian, e del sorprendente gospel “The Great Deceiver”, unica ballata in classico stile alt-country dell’album, ma impreziosita dai cori e dall’implorazione a un “God and saviour” in duetto con la voce femminile di Iona MacDonald.
Queste ed altre caratteristiche, racchiuse nei curatissimi solchi di “Pilgrim Road”, non saranno forse sufficienti a far assurgere Willard Grant Conspiracy ai meritati riconoscimenti, ma possono senz’altro costituire un punto di partenza per la scoperta di un artista in un certo senso “minore”, eppure dotato di valide doti scrittorie e di una espressività per nulla comune.
01/07/2008