24/05/2007

Mike Patton’s Mondo Cane

Teatro Rossini, Lugo (Ra)


Mike Patton è un dio. Arriva sul palco con la consueta chioma nera imbrillantinata, camicia scura, completo bianco immacolato, angolo di fazzoletto (nero) che spunta con discrezione dal taschino (bianco) dalla giacca. Ma che dire delle scarpe. Nere, eleganti, di vernice. Nessun uomo ha mai avuto scarpe più lucide delle sue. Ipnotizzato dalle scarpe, passo lunghi minuti a osservarle, abbagliato, e nel frattempo attorno al cantante si prepara a suonare una compagine musicale di quelle che si vedono raramente.
Al centro palco siede l’orchestra d’archi, disposta a ventaglio di fronte al direttore, mentre poco dietro c’è il quadrilatero del tastierismo elettro-vintage-chic, governato da Enri, anche lui impeccabile in cravatta porpora. Mani sull’Hammond C3 (completo di Leslie), alla sua sinistra ha un organetto Farfisa, a destra un Clavinet sormontato da un MiniMoog, e alle sue spalle un pianoforte a coda. L’ala sinistra del palco srotola in prima fila due chitarre polivalenti (che diventeranno via via fender da surf-music, chitarracce da stornello, cetre da ambientazione onirica…), poi il contrabbasso/basso Hofner, la batteria e le percussioni.
In fondo, in profondità, si vede il banco dell’elettronica (theremin, stupendo, e laptop, un po’ meno). A destra, a partire dalle retrovie, spicca il bussolotto delle campane tubolari e, lì vicino, si dispongono il coro, i flauti e i tromboni. Infine, tornando in prima fila, all’angolo destro, speculare a Patton, in completo nero e capelli ingellati, abbiamo Roy Paci, con tromba e flicorno.

Ho già detto che Patton è un dio? La sua voce si staglia potente e sicura fin dall’iniziale "Cielo in una stanza", con il timbro inconfondibile eppure felicemente calato nel contesto musicale del progetto. "Mondo Cane" è una celebrazione delle canzoni italiane dell’età dell’oro degli anni 50 e 60, e Patton si confronta, più o meno direttamente, con ugole come quella di Domenico Modugno, di Edoardo Vianello, di Mal, di Adriano Celentano, di Gino Paoli, di Luigi Tenco. Lui li sintetizza, li comprime in un’unica figura complessa ed enigmatica. Il suo accento italiano è lodevole (i testi si capiscono bene), seppur ancora imperlato di qualche residuo anglofono. Ma niente di meglio per incarnare sottilmente l’americanismo post-seconda guerra mondiale, un classico dell’Italia anni 50, segnale della voglia di lasciarsi alle spalle il conflitto, di ricominciare, guardando ammirati alle frivolezze d’oltre oceano, juke-box, chewing-gum e compagnia bella. Ma attenzione, Patton gioca le sue carte con sapienza, e quando arriva il turno del pezzo di Mal ("Yeeeh!") sfodera giustamente l’accento più comico e vistosamente esterofilo, mentre quando si raccoglie per un siparietto con la sola chitarra classica, eccolo accostarsi languido il microfono alle labbra per piagnucolare "Scalinatella", credibilmente in napoletano.

Patton è sopra le righe, certo, ma mostra anche un indubbio godimento, nonché sincera ammirazione per gli originali (prova ne sia la diligente cover di "24mila baci" con cui animava già anni fa i concerti dei Mr. Bungle). A seguire, in "Con le pinne il fucile e gli occhiali" agita il burattino meccanico di Edoardo Vianello, che pronuncia "occchiali" con tre "c", mentre in "Sole Malato" scandisce malignamente le inquietudini di "Mimmo" Modugno. Sì, perché, nella sua personale sintesi della voce anni 50-’60, Patton fa emergere anche quel lato inquietante, quella consapevolezza drammatica, abilmente mescolata in canzoncine un po’ ipocrite, che si cela nell’animo del più sorridente dei frontmen. E, per completare la gamma, in "Urlo negro" sbraita con cattiveria inaudita, occhi sgranati, tono niente meno che demoniaco. Insomma, vabbè, ci siamo capiti, Patton stasera è nell’olimpo.

L’altro mattatore della serata è Roy Paci. Ovviamente è un po’ più defilato rispetto al cantate ma, quando c’è, Paci è potentissimo, assolutamente trascinante. Lavora con tromba e flicorno su assoli e introduzioni d’atmosfera, intesse qualche botta e risposta con la voce e, come per Patton, il suo lavoro è mirabile, perché non cerca di sconvolgere nulla, semplicemente interpreta impeccabilmente i modelli aggiungendo quel carico di energia e di squilibrio che "una volta non si faceva". Ecco, a proposito di "una volta non si faceva", la presenza di Gegé Munari è in un certo senso esemplare. Batterista storico del jazz italiano e della musica per film anni 60, incarna una scuola d’altri tempi, ormai estinta. La sua presenza scenica suscita istantaneo affetto (occhialetti in punta di naso per leggere lo spartito, postura da ferroviere esperto), ma la sua ritmica, per gli standard attuali, è francamente legnosa, "indietro", si direbbe. Ma si tratta di una precisa scelta di stile, e a conti fatti potrebbe saltar fuori che molta dell’atmosfera del progetto la si debba in realtà proprio a lui.

In realtà quasi ogni musicista sul palco costituisce un’individualità a sé di un certo rilievo (e qui non c’è spazio per commentare tutti), anche se certamente il fatto di leggere le parti orchestrate costringe tutti, anche i più estrosi, a lavorare nei ranghi. Le chitarre sono piuttosto inquadrate, Enri fa sì un ottimo lavoro, ma senza strafare, l’orchestra esegue diligentemente. Il groove delicato dell’età dell’oro è inseguito, a volte raggiunto, a volte si indebolisce e si sfalda. "Con le pinne" per caso voleva essere ballabile? Non è facile ricostruire quel tocco leggero misto tra impostazione da conservatorio e debole influenza "nera". E probabilmente per questo motivo gli arrangiamenti non sono così avventurosi come promesso, poiché l’avventura sta tutta nel riscoprire il periodo d’oro - quello più creativo per l’orchestrazione da spettacolo all’italiana, in cui convivevano moduli accademici classici e attrazione naïf per i nuovi suoni provenienti dall’America (le chitarre elettriche, le tastiere). Non per nulla sono davvero tanti gli estimatori di quella fusione - a partire da Brian Wilson (che in "Pet Sounds" otteneva, per vie traverse, questi stessi risultati). Non per nulla ancora oggi Sean O’Hagan (High Llamas) e compagni retro-lover (Stereolab, Irma Records) continuano ad attingere a piene mani da quel repertorio.

In questo senso, il sound d’oro qui ammirevolmente ricostruito è davvero "contemporaneo". Certo, si dirà, tra solisti di classe e qualche italica ingenuità (ad esempio, la parte dell’elettronica "moderna", che qui rimane legata a qualche campionamento didascalico), siamo arrivati agli stessi timbri che High Llamas e soci usano già da dieci anni. Ma nell’eleganza globale e nella performance stratosferica di Patton, il risultato cela una complessità inaspettata. Il "mondo cane" che ne esce è davvero affascinante: nostalgico, sciocchino, enigmatico, a tratti brutale, sempre elegante. Inter-generazionale e tremendamente stratificato: non dimentichiamoci che "Mondo Cane" era il titolo di uno scioccante documentario ai limiti dello snuff-movie!
Non c’è niente da fare, Patton mugola "Dio, quanto t’ho amato" con la faccia (e la sensibilità!) del serial-killer. Che sagoma.

Setlist

  1. Canzone (Don Backy)
  2. Che notte! (Buscaglione/ Chiosso)
  3. Deep down (Morricone)
  4. Dio come ti amo (Modugno)
  5. Il cielo in una stanza (Paoli/ Mina)
  6. L'uomo che non sapeva amare (Fidenco/ Pallavicini/ Mogol/ Bernstein)
  7. Pinne, fucile ed occhiali (Rossi, Vianello)
  8. Legata ad un granello di sabbia (Fidenco/ Marchetti)
  9. Lontano, lontano (Tenco)
  10. Ma l'amore no (D'Anzi/ Galdieri)
  11. O Venezia (Rota)
  12. Ore d'amore (Bongusto/ Migliacci/ Sigman/ Kaempfert)
  13. Quello che conta (Salce/ Morricone)
  14. Scalinatella (Murolo/ Bonagura/ Cioffi)
  15. Senza fine (Vanoni/ Gragnaniello)
  16. Sole malato (Modugno)
  17. Storia d'amore (Celentano/ Beretta/ Del Prete)
  18. Ti offro da bere (Morandi/ Meccia)
  19. Una sigaretta (Buscaglione/ Chiosso)
  20. Urlo negro (Blackmen)
  21. 20 km al giorno (Arigliano/ Massara/ Mogol)
  22. Yeeaaah! (Tenco/ Sawyer/ Burton/ Bardotti)

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