
Poco dopo le 22, in (quasi) perfetto orario, appaiono i nostri: Beth Gibbons, t-shirt nera e jeans, sempre lei, unica nel suo camuffarsi timido dietro a quei capelli che le ciondolano davanti al viso e a quelli mani perennemente giunte, ad avvinghiare il microfono. Dietro di lei, l'uomo della macchine Geoff Barrow, glaciale e silente, a reggere i fili. Poi il fido Adrian Utley, alla chitarra e la solida sezione ritmica che completa la line-up, un sestetto, con il "quarto uomo" Dave McDonald, ingegnere del suono, ormai parte integrante.
Il tris d'avvio riproduce fedelmente la tracklist dell'ultimo, memorabile "Third", il disco con la P gigante in copertina uscito nel 2008 a rinnovare (e aggiornare) il rito bristoliano dieci anni dopo. L'intro in portoghese di "Silence" è il passepartout per schiudere questa misteriosa e variegata music box. Perché è limitativo, ormai, riferirsi ai Portishead con l'espressione "trip-hop". La loro è musica totale per il nuovo millennio. Come quella che sale vertiginosa sul rullante di "Silence", sfregiata dalle scudisciate delle chitarre, con gli interventi vocali di Beth a stemperare, ma solo per un attimo, quell'aura meravigliosamente sinistra che è poi il fil rouge dell'intero "Third". Musica e immagini si fondono in diretta, con sequenze video filtrate, distorte, virate spesso in bianco e nero. Niente è lasciato al caso, in un equilibrio audiovisivo rigoroso.

È dura, stavolta, reggere alla commozione, anche perché quella perfida ammaliatrice, quasi con nonchalance, ci rifila un altro colpo basso: "Sour Times", la chiave di tutto, il brano che nel 1994 svelò al mondo la galassia-Portishead. "Nobody loves me, it's true, not like you do" è quasi un grido generazionale, l'invocazione degli ultimi romantici del secolo, quelli che mentre imperversavano i chitarroni e le camicie di flanella del grunge si aggrappavano a quelle colonne sonore da spy-movie immaginari, a quella gelida eleganza retrò, tremendamente nostalgica nel suo inseguire un passato impossibile con le macchine del futuro.
Poi, di defaticamento, una "Magic Doors" impeccabile, ma forse un po' fredda, a differenza della successiva, superlativa "Wandering Star": Beth Gibbons è rannicchiata sul palco, a confessarsi in intimità, con un arrangiamento dimesso che, paradossalmente, acuisce il pathos. Ora è solo lei la protagonista, con la sua voce spettrale e dolente a dispensare brividi. Il pubblico è in delirio e applaude con un calore che fino a quel momento aveva trattenuto a stento, quasi nel timore di invadere quell'intimità sofferta.

Ma c'è tempo ancora per ritornare dalle parti dell'ingiustamente trascurato "Portishead", l'album della conferma del 1997, per rispolverare una "Over" che conserva intatta tutta la sua tensione sotterranea. Tensione che si scioglie definitivamente nel tripudio in coro di "Glory Box", l'altro prodigio downtempo di "Dummy": "Give me a reason to love you, give me a reason to be a woman", tutti a cantare, donne e uomini, come se quel rosario di dolore fosse uno slogan universale da condividere insieme. I video svelano tutte le smorfie di una Gibbons in formissima con i suoi quarantasette anni, ormai perfetta front-woman, capace di domare con ritrosa maestria una platea adorante, che probabilmente fino a qualche anno fa l'avrebbe terrorizzata. Impareggiabile, anche quando non canta e si gira verso i suoi musicisti, dando le spalle al pubblico.
Spiazza piacevolmente il kraut-rock di "Chase The Tear", il brano pubblicato nel 2009 a supporto di Amnesty International. Irretisce, ancora una volta, quella voce metallica, quasi distorta che s'incunea tra gli scratch e i rumori dell'acidissima "Cowboys". E spaventa la rabbia che prorompe in "Threads", l'ultimo atto, a metà tra mestizia blues e furore metal.
Si spengono le luci, saluti rapidi. Ma senza troppe pantomime e cori d'invocazione, rieccoli lì, a snocciolare una "Roads" tenerissima, una ninnananna avvolta nel blu elettrico delle luci, mentre sullo sfondo il volto di Beth si trasfigura in un gioco di movenze e dissolvenze. Non è trip-hop, è musica senza tempo, di quella che ti fa toccare il cielo con un dito. E celestiale è anche la chiusura, stavolta davvero definitiva: il canto dimesso della Gibbons accompagna la prima parte dell'incalzante "We Carry On", per poi svanire, soppiantato dall'impetuoso crescendo strumentale, mandato in gloria da muri di chitarre noise-rock alla Sonic Youth.
Ed è allora che succede l'inimmaginabile: Beth scende dal palco e corre a salutare e abbracciare il pubblico. Un gesto inaudito, che spezza quel diaframma di pudore e riservatezza che si era creato fino a quel momento e fa letteralmente impazzire il pubblico. Tutti accorrono a sfiorare per un attimo il mito, si crea il vuoto, mentre sul palco scorrono le immagini di quegli abbracci pieni di riconoscenza e sincero stupore.
Finisce qui, in piena euforia, ma con un pizzico di delusione. Magari un quarto d'ora in più? Magari qualche altro brano da "Portishead" ("Humming"?, "All Mine"?). Ma il rito si è compiuto e l'incanto, ancora una volta, è riuscito.
C'è una grossa P stampata nel cuore, nell'afa di questa notte romana. Speriamo di poterla conservare a lungo.