Lo stavamo aspettando con una certa impazienza, questo passaggio italiano di Gruffydd Maredudd Bowen Rhys, meglio noto con il più agevole alias Gruff Rhys. In primo luogo – e non poteva essere altrimenti – per il personaggio e il suo (ormai ragguardevole) repertorio di canzoni, assenti dal nostro paese da qualcosa come otto anni. A spingerci a cerchiare in rosso la data sul calendario era stata tuttavia anche la non indifferente curiosità legata al fantomatico Investigative Concert Tour, trasposizione live del recente “American Interior” già proposta in mezzo mondo, in merito alla quale ci siamo imbattuti in rete in commenti sempre puntualmente entusiastici. Capire una volta per tutte perché il soggetto in questione vada così pazzo per le opere a tema (nel conto rientrano in agilità anche l’avventura in Patagonia di “Separado”, i due ritratti su lunga distanza griffati Neon Neon e, un po’ più alla lontana, la collezione di ricordini di “Hotel Shampoo”) non poteva che valere, evidentemente, come stimolo ulteriore.
Limitandoci a considerare la grandiosità finzionale del progetto, e provando a ignorare quanto letto nei report di cui sopra, saremmo stati indotti a immaginare uno spettacolo magari fracassone ma alquanto partecipato, elaborato non certo meno del concept picaresco e multimediale che il cantante gallese ha partorito con fervore fanciullesco a partire da un mito fasullo ma affascinante. Beh, tanto per chiarire il punto prima di dilungarci, diremo soltanto che lo show si è rivelato tutt’altra cosa. Niente band a supporto, nessuna gustosa ospite femminile per duetti o svenevolezze corali (l’ultima volta non si erano razionate le risorse, con le connazionali Cate Le Bon e Lisa Jên a ingentilire la serata) e un profilo scenico ridotto alla sostanza di uno sgabello, un tavolaccio, una chitarra acustica, quattro gingilli e un faretto bianco, immobile. Nessuna licenza d’esagerazione insomma, almeno sulla carta. Una delusione, quindi? Nemmeno per sogno. Avrebbe potuto esserlo per chi sia così incauto da tratteggiare la propria previsione senza averla preventivamente cucita addosso al mattatore di Haverfordwest, proverbiale scheggia impazzita assai poco incline ai formalismi e alle rigidità di protocollo. In fondo non rientrava nella prassi già quel trolley abbandonato in bella vista a fondo palco, simbolo esso stesso dell’artista in cammino che abbia scelto di viaggiare leggero. Un’intrusione del retropalco nella ribalta che raccolta molto di lui, abituato a rendere inservibili simili demarcazioni a tal punto consolidate. Un buon segnale, insomma.
Ma andiamo in cronaca. Introdotto dal battagliero mantra etno-pop di “Allweddellau Allweddol”, Gruff ci si presenta sotto le spoglie ferine con cui abbiamo familiarizzato negli ultimi mesi – maschera e orecchie di lupo a mo’ di copricapo, ciliegina bizzarra su una mise altrimenti elegante – solo per lanciare un documentario d’annata sulla leggenda del principe Madoc del Galles e della sua fantasmagorica scoperta dell’America nel 1170, introduzione necessaria ma potenzialmente letale a mente ancora sgombra da più frivole sollecitazioni. Per fortuna il supplizio dura giusto una manciata di minuti, e si chiude col ritorno in scena del cantante armato di cartello con sopra la foto del pupazzo ispirato al suo presunto avo John Evans, protagonista del disco e della serata di canzoni che sta per aprirsi. E il babaccio ci viene anche mostrato in spugna e stoffa, per un millisecondo, prima di essere esiliato mestamente dietro le quinte. Il videoproiettore, grazie al cielo, non ha ultimato il suo servizio e il bello, visivamente parlando, deve ancora venire. Grazie a uno smartphone e alla app creata apposta per una fruizione di questo tipo, aiutare i presenti a seguire il filo della narrazione con immagini e slide testuali (in italiano) è praticamente un gioco da ragazzi: persino superfluo per quanto riguarda la parola scritta, sempre in leggero ritardo rispetto all’esposizione orale del musicista, ma semplicemente geniale per il contributo (quello sì puntuale) delle fotografie di viaggio dell’avatar di Evans, oltreché per le manipolazioni grottesche delle stesse (zoomate e passaggi in campo lungo) curate in tempo reale dall’abile regia di Rhys, con una vocazione alla facezia a dir poco prodigiosa.
Con l’ausilio di pochi, semplici accorgimenti, Gruff da così forma a una sorta di bolla invisibile nella quale ci ritroviamo piacevolmente intrappolati. E’ la stessa intimità che solo l’amico più guascone sa regalarti quasi senza sforzi, in virtù di quel carisma che è pura arguzia e simpatia. Ingredienti contagiosi ma assai rari questi, merce di cui l’artista gallese non difetta, al pari delle melodie assassine. E allora poco male se non sentiremo chitarre elettriche, e se la batteria dell’ex-Flaming Lips Kliph Scurlock non si è unita alla festa, rimpiazzata (solo occasionalmente) da una drum machine o dalle scansioni ritmiche di un metronomo che il Nostro si premura di tarare appositamente a seconda della canzone (moderate in “If We Were Words (We Would Rhyme)”, arrembanti nella conclusiva “100 Unread Messages”).
Anche nella nudità della veste acustica, appena appena sporcata da innocue adulterazioni sintetiche, i brani brillano di luce scintillante e regalano belle nuance cromatiche grazie ai (contenuti) virtuosismi armonici del cantante, uno che con il falsetto ti apparecchia il buonumore in un amen. Eccoci quindi con gli occhi inchiodati al proscenio, impazziti come palline da ping-pong in uno scambio serratissimo tra il cono di luce, sotto il quale Rhys giostra a piacimento con i suoi ammennicoli, e il telo che raccoglie le assurde immagini del fantoccio, incaricato di strapparci quante più risate nei suoi panni di improbabile turista (sulla falsariga del nano da giardino ne “Il Favoloso Mondo di Amelie”).
“American Interior” è riproposto quasi per intero, anche se Gruff ne riorganizza la sceneggiatura a piacimento, non più vincolato dalle logiche di appetibilità che le scalette su disco inevitabilmente comportano. La fabula ha modo di svilupparsi con notevole profitto in quanto a narratività, arricchendosi di dettagli e contestualizzazioni che nelle liriche si sarebbero tradotti in lungaggini non tollerabili, mentre nel quadro di un’esibizione live pure così raccolta (a proposito, avremmo sperato in una platea più nutrita) trovano una loro piena ragion d’essere.
Arriva a vampirizzare anche episodi tratti dai precedenti due lavori, “imbucati” di straforo ma senza inficiare la coerenza del racconto (vedi “Shark Ridden Waters”, riadattata a colonna sonora della lunga traversata oceanica dell’eroe), anzi. L’intreccio rivoluzionato per l’occasione funziona e offre scampoli di gloria anche alle figurine marginali (come il poeta e ideologo oppiomane Iolo Morganwg) che nel progetto dell’album galleggiavano troppo pallidamente.
Certo, le vicende dello sventurato Evans – che inventate di sana pianta non sarebbero riuscite tanto pazzesche – perderebbero molta della loro strampalata efficacia senza il cristallino talento nonsense di uno storyteller vecchia scuola come Gruff, sensazionale anche per la giustezza delle invasioni metatestuali adottate quasi per caso (l’impresa di cambiare la batteria a uno dei suoi marchingegni, opportunamente sovrapposta agli assurdi cimenti richiesti al mite esploratore).
La qualità delle affabulazioni di Rhys è tale che ci ritroviamo in più frangenti spiazzati, deliziosamente, non del tutto convinti che a fare da intermezzi siano davvero le parentesi parlate, e non piuttosto i segmenti musicali. Gli uni e gli altri sono amabili, surreali e delicati alla stessa maniera. Ci conforta la convinzione che il giusto atteggiamento di fronte a una simile performance sia prendere tutto quel che viene con il medesimo stupore, come il multiforme artificio poetico che è in fondo.
Il cantastorie gallese ama il personaggio e si serve della sua disgraziata parabola per dire cose nient’affatto banali sul senso d’identità, sui labili confini che separano storia e leggenda, sulle mistificazioni politiche operate dai creatori di miti e sulla beffarda natura di una sorte che ricompensi i meriti sempre e solo a posteriori. Il tono comunque è lieve come il vibrare del nylon sulla chitarra di Gruff, come il suono della sua voce nel canto, come i vinili piazzati sul piccolo giradischi solo per prestare un fondale pianistico o la farsa gentile che le sue guasconate disegnano con tanta disinvoltura (una per tutte, la tastiera fatta a bocca sulle note di “The Swamp”). John Evans muore solo, giovane e incompreso in una bettola di New Orleans. Lo sapevamo, ma è lo stesso una ferita, che accogliamo peraltro con un sorriso largo così. Rhys esce e rientra accolto urla di giubilo. Chi abbia ancora voglia di favole appalachiane dovrà comprarsi il bel vinile di “American Interior” al banchetto, o meglio ancora quel psychedelic historical travelogue che promette esaurienti appendici alla novella.
Qui e ora c’è spazio solo per una terna di bis meravigliosi, per un’armonica cestinata dopo appena un assaggio e per il controcoro angelico di “Honey All Over”, registrato in tempo reale e riprodotto a oltranza dal delay, in un tripudio melodico alla saccarina. Ovazione doverosa alla fine per questo interprete straordinario, per i suoi cartelli sibillini e per il fantoccio di Evans redivivo, forse i migliori compagni di viaggio in cui potevamo sperare di imbatterci, almeno per una sera.