Un altro falso allarme.
Se ci stavate sperando, cari fan degli animali superpelosi, potete mettervi l’animo in pace, pure a questo giro vi ha detto male. Niente ritorno per la band di Cardiff anche se questa volta, nell’anno del ventennale, ci siamo andati davvero vicini. C’erano gli spunti, l’intonazione pareva quella giusta, ma ci si è scordati di fare i conti assieme all’oste, uno col vizietto conclamato per le svolte impreviste e un’insofferenza patologica verso qualsivoglia principio di linearità. Per Gruff Rhys i concept lambiccati devono rappresentare proprio una tentazione irresistibile, vista la frequenza con cui torna ad abbracciarli. E così, dopo l’autobiografico sacrario di ricordini alberghieri che ha ispirato la memorabile collezione di melodie della penultima fatica a suo nome (oltre a un furbo manufatto spacciato per arte a una galleria della sua città) e la celebrazione in salsa electro-pop dei controversi John DeLorean e Giangiacomo Feltrinelli, imbastita con il progetto Neon Neon, il Nostro ha moltiplicato la posta in gioco con uno sforzo creativo che, considerata la grandeur progettuale dell’insieme, sarebbe riduttivo definire ambizioso.
Oggetto della sua proverbiale mania di sceneggiatore sono in questo caso le vicissitudini dell’esploratore e cartografo John Evans, presunto avo di Gruff, che nel diciottesimo secolo cercò invano lungo il corso del fiume Missouri le tracce di una fantomatica tribù discendente del principe Madoc del Galles (che, stando alla leggenda, sarebbe giunto in terra americana con oltre tre secoli di anticipo su Cristoforo Colombo), dando vita a un’incredibile avventura a piedi nella natura selvaggia (una sorta di “Into The Wild” ante litteram) e offrendo un contributo assai prezioso – col senno di poi – alla fortunata spedizione verso il Pacifico di Lewis e Clark. Due anni fa Rhys ha compiuto una sorta di pellegrinaggio a tema condito da una serie di concerti negli stessi luoghi, con tanto di presentazione PowerPoint e pupazzo dell’antenato (investigative concert tour), e dall’esperienza di questa “duplice odissea” ha poi tratto un documentario, un libro (definito psychedelic historical travelogue, di fatto il suo secondo diario di viaggio dopo l’escursione in Argentina di “Separado”, sulle orme del songwriter René Griffiths, altro ipotetico parente), una app (!) e naturalmente un album vero e proprio, questo “American Interior”: un disco solido anche a prescindere dalla vena pioneristica e da quel filo rosso che lega i vari brani, un’opera al solito audace e divertente, con a margine riflessioni tutt’altro che banali sul senso d’identità, individuale e nazionale, sulla mistificazione di chi dia forma a un mito per soli interessi politici, e sui confini labili che separano, non di rado, storia e leggenda.
Tantissima carne al fuoco, insomma, e consueto superlavoro per il recensore cui spetti l’onere di un’adeguata trattazione ad ampio raggio. Archiviati però gli ingombranti preamboli concettuali, resta da rendere conto della parte prettamente musicale, ambito che vedrà per forza di cose semplificate le prospettive dai limiti stessi di un personaggio così riconoscibile, nonostante (e per merito di) una creatività onnivora e fervida come raramente se ne incontrano. Che il punto di partenza sia lo stesso pop sofisticato e viscoso del fuoriclasse di “Hotel Shampoo” lo suggerisce la title track, tra malinconiche reminiscenze Electric Light Orchestra, straordinaria morbidezza nel tocco, rutilante chitarrismo e armoniose decorazioni d’archi, impressione poi ribadita a più riprese da un’interpretazione sempre tendente al velluto (si veda in “Liberty” l’apoteosi di tanto scintillante crooning dagli anni dorati, quelli delle ubriacature in soft-focus, dei lustrini brillanti e gli spectorismi a profusione). Ancora più limpido è quell’altro numero a elevato coefficiente di tipicità che risponde al titolo di “The Last Conquistador”, la cui ambientazione riporta con prepotenza ai tardi Seventies mentre seduzioni pianistiche e moderati ciangottii di complemento arredano la scena, ma non meno deliziosa appare la scaltra e abbacinante “The Swamp”, con la sua tastierina rubata ai Grandaddy e un’autentica perla di ritornello.
L’elettronica falsifica con gentilezza una nuova rassegna di canzoncine frivole ma implacabili, a base di arzigogoli armonici, micidiali refrain in falsetto e consueta inclinazione alla pacchianata, squillante ma di classe (“The Whether (Or Not)”, paradigmatica). Affettato e nondimeno intelligente, Rhys si conferma artista che ama spiazzare grazie ai più inattesi cortocircuiti, incroci contradditori di alto e basso, nobile e infimo (dettaglio comprovato dagli effetti dozzinali che orlano un po’ tutti gli episodi), e da sempre si prodiga nel confezionare operine kitsch di grandiosa levatura: intriganti, ben congegnate, eccentriche e profondamente radicate in una vivacissima dimensione retrofuturista, per come sanno combinare l’instancabile revival con una sensibilità, un gusto per la sperimentazione e il meticciamento, che non si potrebbero immaginare più attuali: se sono emblematici i Fleetwood Mac che incontrano il modernariato synth-wave dei Neon Neon in “Lost Tribes”, secondo la stessa logica non apparirà meno notevole “Iolo”, sorta di spaghetti-western sinfonico che vede Gruff cannibalizzare l’ossessivo autismo del suo omologo yankee Wayne Coyne, migliorandolo, inglobandolo mirabilmente nel quadro di un’orchestrazione a tutto campo.
Curioso che si citi pur di sfuggita il frontman dei Flaming Lips a proposito di un album che registra un innegabile apporto di follia e robustezza dietro ai rullanti proprio per merito del (recentemente epurato) batterista della band dell’Oklahoma, Kliph Scurlock. Un contributo determinante il suo, ne sono una prova i ritmi arrembanti di “100 Unread Messages” in aperto contrasto con l’infettivo populismo di stampo rockabilly che il brano ostenta. Il risultato, in questo caso, è un irresistibile pastrocchio, incrocio bislacco di traditional e smaccato easy-listening, confezionato con spavalda veracità battendo a tratti la medesima pista di esplorazione Americana già percorsa ai tempi del gustoso “Love Kraft”. Ancora una volta è fortissimo l’effetto diorama, pure chiaramente ricercato. Rhys costruisce il contesto con una precisione che ha del maniacale, ma è poi l’indole goliardica caratteristica dei Super Furry Animals a denunciare la natura funzionale di questi mirabolanti artifici e a regalare loro un alito di vita vera, antidoto smaliziato e antiaccademico ai rischi della maniera. Il culmine, in tal senso, arriva con “Allweddellau Allweddol”, che spinge apertamente verso il tribalismo, la propulsione etno-pop, l’esotismo da battaglia à-la M.I.A., con in supplemento un pizzico appena di weirdness gallese stile Gorky’s Zygotic Mynci (ma si potrebbe citare anche il vecchio “Mwng”, per restare in tema).
Nelle battute conclusive, in numeri a velocità più blanda (che gli riescono sempre egregiamente), il cantante si muove come col pilota automatico. Anche così il suo leziosismo riesce tuttavia scevro da connotazioni che non rientrino nella sfera dell’aggettivo “entusiasmante” e offre anzi all’ascoltatore una prospettiva più rilassata sul suo navigato istrionismo, tra trucchi svelati al ralenti nel singalong e rinnovati languori tradizionalisti in un finale che sa di lenta dissolvenza country.
Come suonerebbe “American Interior” se Gruff non avesse finito per ritrovarcisi troppo coinvolto, procrastinando inevitabilmente il ritorno della sua band, non lo sapremo mai. Sappiamo però come suona anche senza gli altri animali superpelosi. Beh, in qualità di premio di consolazione, preme riconoscere che non è niente male.
10/06/2014