Un salto indietro nel tempo. Forse basta solo questo per capire quanta storia c’è dietro certa musica. Febbraio 1967: gli Who arrivano in Italia per la prima tournée sul suolo tricolore. Allora erano giovani e ribelli, sfrontati e coraggiosi adolescenti che con la forza delle loro canzoni, assieme ad altri illustri colleghi, provavano a cambiare il mondo. Una promessa folgorante della musica inglese nella scintillante Swinging London di allora.
Lunedì sera, per il concerto del cinquantesimo anniversario di carriera a Milano, tutto questo era solo un ricordo. Leggenda, se vogliamo.
I “ragazzi” - quelli rimasti, Pete Townshend e Roger Daltrey - insieme hanno più di 140 anni. Il tempo ha cancellato tanto: la scomparsa di Keith Moon e John Entwistle, per molti, è una mancanza incolmabile. Capita sempre così, quando sul palco tornano grandi del passato. Per qualcuno meglio il ricordo che la possibile e sfacciata realtà del tempo, con il rischio di rovinare anche la memoria. In fondo, una leggenda non ha il volto sfigurato dagli anni. Non è permesso. E così per tanti la domanda era: “Saranno ancora in grado di suonare canzoni come una volta?”.
La risposta non era del tutto scontata, ma è arrivata subito. A fugare qualsiasi dubbio. Gli Who sono sempre in forma, quasi a loro agio in formato live, come se rughe e lustri non fossero nulla confronto al culto che hanno creato 52 anni fa. Sul palco di Milano arrivano persino con dieci minuti di anticipo. Qualche parola gentile per il pubblico da parte di Townshend. E poi la musica. Giusto per fare capire che il tempo è qualcosa che il rock a volte non conosce.
Il primo mulinello di chitarra parte con “I Can’t Explain”. Basta il primo riff per mandare in visibilio il Mediolanum Forum di Assago: giovani e meno giovani, ragazzi dell’epoca e figli di quella generazione che oggi vedono negli Who gli inventori di un sound. “Molte di queste canzoni sono state scritte quando non eravate ancora nati”, scherza al microfono Pete Townshend. Per alcuni è così, ma il rock – appunto – non conosce stagioni. E allora la sequenza diventa qualcosa di folgorante per tutti: “The Seeker”, “Who Are You”, “The Kids Are Alright”, “I Can See For Miles”, “My Generation”, “Behind Blue Eyes”, “Bargain”.
Sono riff di chitarra, cori, melodie che tutto il pubblico conosce, come se non ci fosse distinzione tra generazioni. E il concerto è uno spettacolo: un muro del suono con l’ottimo Pino Palladino al basso (per lui un’ovazione quando a fine concerto viene presentata la band) e Zak Starkey, il figlio di Ringo Starr, alla batteria.
E’ un concerto che alterna solo grandi classici in scaletta, lasciando poco spazio tra un brano e l’altro e qualche volta, sul finale di alcune canzoni, con inaspettate jam session.
Dagli schermi, scorrono immagini di repertorio: da giovani in parka e Lambretta anni Sessanta al ritmo di “My Generation” ai colori psichedelici di “Who Are You”. Piace quel tornare indietro nel tempo e piace soprattutto la voglia di non autocelebrarsi con pose affettate o troppe parole.
Anche Roger Daltrey non cede alle lusinghe: fa roteare il microfono, accenna a qualche passo, ma più che altro guarda sempre il suo amico Townshend alla chitarra, pochi metri più in là. Insieme, si intendono ancora alla perfezione.
Quanto basta per affrontare il finale: un lungo viaggio attraverso classici come “The Rock”, “Amazing Journey”, “The Acid Queen”, “Pinball Wizard”, “See Me, Feel Me”, “Baba O’Riley”, “Won’t Get Fooled Again”. Omaggi a capolavori come “Tommy” e “Quadrophenia”.
Due ore di concerto e un appuntamento con la storia che è valso come una conferma: “The kids are alright”.