Era lecito credere che l’evento speciale dedicato ai Sunn O))) rimanesse un’occasione isolata nel panorama concertistico dark del nostro tempo. Alcuni mesi fa, invece, l’annuncio di un nuovo appuntamento nel cuore del Labirinto di Franco Maria Ricci, a Fontanellato (Pr): il ritorno in Italia di un altro capitale culto, i lupi norvegesi Ulver, giunti all’ennesima imprevedibile svolta stilistica con il coraggioso concept “The Assassination Of Julius Caesar”.
Un lavoro in studio più che mai divisivo, al punto di far desistere diversi fan dall’acquisto dei biglietti in prevendita (taluni, per non sbagliare, si sono giocati la scusa della finale di Champion’s League, in ogni caso trasmessa in loco prima dell’inizio del concerto). Nonostante tutto, certo anche sull’onda del grande rituale dronico dello scorso settembre, il chiostro sormontato dalla piramide è stato ben presto riempito da centinaia di spettatori affezionati e di nero vestiti.
Solo a breve distanza dalla data è stato comunicato che il concerto sarebbe stato introdotto da un set solista del norvegese Stian Westerhus, eccentrico chitarrista sperimentale d’inventiva rara pubblicato lo scorso anno dalla stessa House Of Mythology che ora accoglie gli ultimi tre album degli Ulver.
La breve performance – poco più di venti minuti – non sembra aver incontrato il favore di molti: di fatto Westerhus ha in qualche modo astratto ed esasperato ulteriormente la fragile forma-canzone di “Amputation”, concentrando i suoi sforzi quasi soltanto nella singolare delivery vocale, giocata su grida e falsetti quantomai sofferti. La struttura già in origine sfilacciata di brani come “Kings Never Sleep” e “Infectious Decay” è qui del tutto elusa, assieme alle occasionali ritmiche elettroniche, così che i versi si presentano in forma libera nel mezzo di tessiture con l’archetto, bordoni abissali e singole note acute e taglienti, scagliate con violenza dagli amplificatori. Una scelta espressiva al rilancio, estrema e lontana dal nitore sonoro degli headliner, che se anche non ha fatto breccia nel cuore degli astanti si farà certo ricordare come un gesto artistico potente e fuori dal comune.
Con l’ingresso nell’ombra degli altri membri dell’attuale formazione capitanata da Kristoffer Rygg, lo sfociare senza soluzione di continuità nel beat di “Nemoralia” strappa un applauso entusiasta e sollevato: ai fari verticali color blu elettrico si sostituiscono proiezioni laser spettacolari, che se sul telo bianco sopra il palco disegnano linee e simboli elementari, nello spazio prospettico generano l’effetto di sculture tridimensionali in dialogo col moto difforme dei copiosi fumogeni.
La scaletta scombina di poco l’ordine della tracklist pubblicata in aprile: “Southern Gothic” e “1969” rimangono tra i momenti più rappresentativi di questo densissimo dialogo tra storia, mito e religione, tenuto insieme dall’inedita incursione nel più scuro synth-pop anni 80. Seguono un climax ascendente anche le epiche “So Falls The World” e “Rolling Stone”, l’una con la sua chiusura sfacciatamente ballabile, l’altra con un ritornello che è subito entrato di diritto nell’immaginario ulveriano (“Poor little sister, I hope you understand/ The baby in the woods will be taken by a wolf”).
Con assoluta coerenza l’eccezione alla ferrea regola di “Julius Caesar” è quella che divide in due il live: grida e applausi salutano l’ampio strumentale “The Future Sound Of Music” da “Perdition City”, album di svolta che diciassette anni fa indicava la strada della rinata creatura musicale in direzione della sperimentazione elettronica; i visuals tracciano variazioni della geometria piana che identifica il Labirinto, attribuendo così alla performance un ulteriore carattere di unicità.
Il sentiero prosegue poi con una sorta di dittico a tema sacrale: “Transverberation”, dedicata alle figure delle sante Teresa d’Avila e di Lisieux, proietta i loro profili rivolti l’uno verso l’altro, mentre “Angelus Novus” rievoca la ritirata di Dunkerque accostandola all’immagine sinistra dell’angelo redentore di Paul Klee.
Rimangono stabili solo principio e fine: “Coming Home” si trasforma in un interminabile sipario su questo capitolo della storia degli Ulver, estendendo le ultime note in una jam piuttosto ripetitiva che, purtroppo, fa presagire la più cocente delusione dell’evento, ovvero l’omissione di qualsivoglia bis.
I volti del pubblico parlano chiaro: se anche “Julius Caesar” ha dimostrato di essere una valida prova da presentare in questo contesto, il culto della band norvegese ha le sue basi più solide in lavori di almeno un decennio fa; il miraggio di uno spettacolo anche solo vagamente rassomigliabile a quello della Norwegian National Opera è rimasto tale, quando è evidente che una location così unica meritava una scelta più “celebrativa”, condivisibile da tutti.
Se i Sunn O))) avevano coscientemente ecceduto nei loro 140 minuti di assordante trascendentalismo, con altrettanta inflessibilità gli Ulver si sono attenuti a un programma prestabilito, interamente dedicato a un album che quasi di certo non si ripeterà, come l’evento di questa sera. “E per fortuna”, avrà forse pensato qualcuno.