09/09/2016

Sunn O)))

Labirinto della Masone, Fontanellato (Pr)


Due luoghi comuni del linguaggio critico - uno dei quali di vecchia data - ritornano costantemente nella pratica del live report : il primo, immarcescibile, riguarda l'uso assolutizzante del termine "esperienza", inteso come collettore indistinto di accadimenti e sensazioni positive (e.g. "Più che un concerto, un'esperienza"); il secondo, altrettanto in voga, è "rituale", vale a dire la successione di fasi preparatorie che conducono a un culmine, a un'estasi del momento verso cui l'intera esperienza è idealmente direzionata.
Se da un lato questo abuso lessicale da parte di chi scrive di musica è innegabile, ciò avviene anche in virtù degli obiettivi che sembrano prefissarsi (con risultati più o meno convincenti) molti organizzatori di eventi, nel tentativo di consegnare al pubblico qualcosa di davvero unico e memorabile nel marasma della produzione culturale, a ogni livello.

L'impresa - questo il termine giusto! - ideata dal giovane collettivo Solaris è da manuale di event planning: nell'ambito di un rilancio in gran stile del singolare Labirinto della Masone a Fontanellato (Parma), questo primo appuntamento della nuova stagione ha la valenza di un marchio a fuoco, come l'apposizione di una pietra d'angolo che rimanga elemento imprescindibile di un percorso variegato ancora a venire.
Insediare la potenza massiva dei Sunn O))) all'interno di un ambiente e un'architettura così singolari è la rivincita del genius loci sulle ammucchiate stellari dei festival da palazzetto dello sport, l'affermazione dell'uno sui tanti che annualmente ritornano e sempre si somigliano, anche al cambiare dei fattori.

"FINIS MUNDI", la scritta che campeggia a ogni angolo e sul cancello d'ingresso della struttura, davanti al quale troviamo il banchetto che fornisce i provvidenziali tappi per le orecchie customizzati. Varcata la prima soglia, un chiostro attraversato da lunghi drappi verticali si accende di un rosso avvolgente, e i grossi tamburi dei Fudentaiko rimbombano con forza tra le pareti gremite di gente ancora un po' spaesata, in cerca di viveri o di servizi igienici. È il primo annuncio dell'Apocalisse, seguìto da un altro ancor più esplicito: il montaggio audiovisivo alla base dell'installazione "Finis Mundi", a cura di N!03, colleziona sentenze e sequenze catastrofiche di repertorio cinematografico, sfruttando efficacemente la disposizione sfalsata degli stessi tendaggi trasparenti; il breve excursus si chiude, in maniera piuttosto didascalica, con l'elenco di dodici pratiche che stanno conducendo il nostro pianeta alla rovina (per mano dell'uomo, ça va sans dire).

Come un percorso a livelli, ora la bocca del labirinto si apre davanti a noi: la via è illuminata fiocamente da piccole lanterne sospese tra le siepi, e per ovvie ragioni di sicurezza non ci è concesso perderci, ahimé. La strada però è sufficientemente lunga e trafficata da far crescere l'attesa per ciò che ci attende al punto di arrivo. Le luci abbaglianti dei neon precedono il grande portico la cui vista è dominata dall'imponente piramide che si erge verso il cielo, così come i grossi fari blu proiettati nella stessa direzione. Ai piedi del monumento una fila di totem che fanno parte, tra il serio e il faceto, dell'iconologia musicale odierna: il muro di amplificatori che come un trademark identifica il duo di Greg Anderson e Stephen O'Malley, in questa e altre circostanze esteso a fedeli collaboratori parimenti incappucciati.

Il loro ingresso si fa volutamente attendere, per più di un'ora, tra una lunga fila al bar e una ancor più lunga al tavolo del merchandising. Alle 23 esatte le luci intorno si spengono, un fascio bianco investe la facciata triangolare della piramide: il funereo Attila Csihar intona un recitato-cantato gutturale, solenne e indecifrabile, anticipando col suo throat singing le assordanti risonanze delle chitarre, sfiorate da mani che poi si elevano con abbondante teatralità. Gli strumenti amplificati divengono maestosi scettri imperiali, che da tocchi così leggeri e dilatati nel tempo sono in grado di generare e moltiplicare un rumore totale, oggettivato nel volume e nelle distorsioni che rendono ogni esibizione dei Sunn O))) una seria minaccia per l'udito e per la struttura corporea nel suo insieme - almeno un soccorso medico si è verificato nel corso della serata.

Un drone (di quelli veri) volteggia intorno al perimetro del colonnato, presumibilmente col compito di immortalare lo scenario più unico che raro di questo rituale pagano: col gioco cromatico dei fari che attraversano le spesse coltri di fumo artificiale, sull'intera superficie del palco sembra imperversare un incendio, mentre i celebranti continuano a rivolgere il loro terrificante monito agli astanti. Un'atmosfera simile a quella delle estinte sagre paesane, coi fuochi, le maschere e i trampoli che per una notte rivivificano i culti e le leggende popolari dimenticate dalla civiltà.
Una così densa immersione sonora, col passare del tempo, non permette più di credere ai falsi finali che di volta in volta sembrano condurre la celebrazione al suo apice: lo spettacolo non concede tregue sino ai 140 minuti, a un punto in cui gli apparati percettivi hanno ormai assorbito completamente quella fatale mistura di frequenze vertiginose o abissali, sollevando una volta di più, tutti insieme, i palmi, i pugni e le corna in segno di vittoria - non nostra, ma del Suono che tutto investe e sovrasta.

Più d'uno ha lamentato l'eccessiva durata: io sostengo che questa fosse l'unica (letteralmente, unica) occasione in cui fosse lecito e anzi auspicabile esagerare, dare sfogo a tutto ciò che il drone-doom intransigente e trascendente dei Sunn O))) porta con sé. Persino il loro grato congedo, tra gli applausi di visibilio e lecito sollievo, hanno dimostrato che questo evento rimarrà indelebile nella memoria di chi vi ha preso parte.