01/07/2022

Terraforma 2022

Villa Arconati, Bollate (Milano)


Che ricordi, non ho mai vissuto un evento con una combo musica+location suggestiva quanto quella di Amnesia Scanner al Terraforma. Nel bosco della splendida e barocca Villa Arconati, a Bollate (Milano), la performance dell’esangue Lafawndah (vanamente sostenuta dal drumming di Valentina Megaletti e Sebastien Forrester) è appena terminato e la radura davanti al minuscolo palco da cui si è esibita si è pressoché svuotata. Il pubblico, prevalentemente venti-trentenne, sciama verso gli stand addetti al beveraggio conversando in un mix di lingue europee in cui l’italiano pare essere una maggioranza soltanto relativa. Dalle profondità oltre al tunnel di luci che connette il main stage al viale d’ingresso del parco, alcune raffiche di colpi sordi iniziano ad attirare l’attenzione dei presenti. Seguo la folla, accelerando un po’ il passo: sono venuto principalmente per assistere all’esibizione del duo finlandese Amnesia Scanner, e ci tengo a conquistare un buon posto.

 

La ressa è quasi ferma all’ingresso di un labirinto. Il suono, che si è fatto più martellante e industriale, proviene dal centro. Come diavolo si arriva al palco? In alcuni minuti disorientanti, la fiumana di ascoltatori sorpresi invade ogni passaggio e vicolo cieco del dedalo di siepi, mentre un largo totem di casse e schermi bombarda con percussioni industriali e lampeggi monocromo. La sensazione è, necessariamente, confusa e galvanizzante al tempo stesso. Dopo qualche giro a vuoto, giungo a un ribassamento della siepe che lascia vedere per intero l’impalcatura cilindrica che emette i suoni. Dei musicisti nessuna traccia. Il bosco, il labirinto, il cielo stellato mi suggeriscono un’associazione: quel monumento senza volto è il corrispettivo concertistico dell’enigmatico pavilion della copertina di "Horse Rotorvator" dei Coil. L'audio, torbido ed efferato, conferma l'evocazione.
Musica e immagini sono un assalto totalizzante. Visi distorti e mazzate hardcore techno, reggaeton putrefatto e occhi seviziati tipo “Arancia Meccanica”. Ogni tanto, una voce trasformata fino allo stadio di puro spettro cyberpunk. E’ un gorgo deconstructed club che lascia poco spazio alla fantasia, ma molto alla suggestione. Per tutta la prima mezz’ora di concerto, di presenze umane sul palco non se ne vedono.
Poi appare un tizio, è seduto su un’impalcatura, sembra farsi i fatti suoi. Uno del pubblico che si è detto senti, già che qua tanto non c’è niente da vedere, tanto vale farlo dall’alto? No, ha in mano un oggetto assimilabile a un microfono. Si sporge verso di noi, saluta: “Hi”. Segue una mezz’ora condotta dal figuro, che (si apprende dai materiali promozionali) risponde al moniker di Freeka Tet e presto sfodera un disturbante braccio fake impiegato come diretta estensione di quello vero. È una sezione di live più song-based (si fa per dire), in cui beat fratturati e sintesi granulare sono ancora presenti ma cedono il passo a una maggiore presenza della voce, sempre trasfigurata al di là dell’intelligibilità dall’effettistica digitale. Avere un frontman ad accentrare l’attenzione rende la situazione più convenzionale, e anche la musica sembra farsi meno suggestiva, una sorta di versione cyborg degli Animal Collective dei tempi che furono. Quando infine il ritmo si spegne, il vocalist spiega: “The guys are somewhere down there”, indicando l’area fuori dal labirinto da cui provengono i flash che ogni tanto hanno illuminato la scena.

Si ritorna al palco principale, perché è in arrivo il piatto forte della serata. Del tutto invisibili per la mancanza di illuminazione e il posizionamento all’altezza del suolo, sulla ristretta scena triangolare del main stage sono pronti gli Autechre. In tutta franchezza, non so cosa aspettarmi: sono fermo dalle parti dei mirabolanti “Confield” e “Draft 7.30”, e negli ultimi anni ho accuratamente evitato di sottopormi a lavori unanimemente celebrati come “monolitici” e impenetrabili. Incrocio le dita: comunque vada, sarà un’esperienza. E un’esperienza lo è certamente stata, se noia, perplessità e sconforto contano come tali. Un’ora e qualcosa di flusso ininterrotto di brandelli techno, nei quali non un timbro, non una melodia, non un ritmo e forse nemmeno un’atmosfera emergono come distintivi per più di qualche secondo.
Una sola cellula si ripresenta con una certa frequenza confusa nel magma, ed è il four-to-the-floor più trito. Come spesso nelle costruzioni iper-elaborate, la mente fa piazza pulita delle articolazioni percepite come random, ed evidenzia le strutture che riesce a carpire. In questo caso — limite mio — in tutto l’alieno mutare riesco profilarmi solo schemi estremamente banali. Per un po’ ci provo, tento di individuare un filo, e parallelamente di scorgere i musicisti o almeno il loro equipment; poi rinuncio, mi sfilo dalla calca e osservo. C’è chi tenta di ballare, inventandosi un tempo più seguendo gli altri che l’inesistente beat. Molti vanno a prendere qualcosa da bere. Un paio di ragazzi, sulle fasce laterali, inscena con discreto successo una danza di gesti ampi e lenti: avrebbe funzionato anche senza sottofondo musicale. Dopo un tempo che, senza orologio, mi sarebbe parso interminabile, il borbottio elettronico inizia a diradarsi: qualche minuto, e le casse sono spente. Dal pubblico giunge un sonoro applauso. Entusiasmo? Sollevamento? Insondabile anche questo.

Mi avvio all’auto. È mezzanotte e quaranta, e domani alle sei mi attende un treno, da Bergamo. Mentre riattraverso il tunnel di luci e poi cortili e atrii della villa, da lontano inizia a giungere attutito il battito dei Voices From The Lake. Ripenso a quanto appena vissuto: tre ore e qualcosa di bagno di folla in clima Erasmus fusion, fatto di giovani appassionati come di ragazzi attratti dal setting, dal campeggio, dalla città accanto. Più che un ordinario festival centrato sugli artisti, un lungo rave party legalizzato, con musicisti invisibili e una selezione elettronica molto coraggiosa, ma del tutto inadatta a un rave. Chissà se al termine della tre giorni il popolo delle tende a igloo sarà soddisfatto: mancano ancora due serate piene, e me le perderò. Nel brevissimo tratto di Autostrada dei Laghi che percorro prima di immettermi sulla A4, sarà l'orario saranno le sensazioni contrapposte, mi torna in mente l'inno ufficiale delle notti in macchina: “Chi si contenta gode/ Così così”.