Ti giuro, chi li ha sentiti nelle scorse date mi ha detto che il concerto di stasera non c’entra nulla con gli altri!
Questa la frase che sentiamo pronunciare più spesso mentre il Teatro delle Logge di Montecosaro (Macerata) si svuota. I volti rilassati, come al risveglio dopo un lungo ma piacevole stato di incoscenza.
Con grande coraggio l’organizzazione di
Mount Echo, la kermesse musicale che a ragion veduta si definisce “rassegna artistica d'ascolto, di viaggi, contaminazioni e sovrapponimenti”, ha ospitato con successo
The Necks, dopo aver regalato negli scorsi mesi una selezione di tutto rispetto comprendente
Marta Del Grandi e
Anna B. Savage. Il programma, evidentemente figlio di un’attenta scoperta delle proposte musicali più interessanti e ricercate dello scorso anno, completerà l’opera con i
Drahla il prossimo 19 maggio più un’annunciata sorpresa in arrivo per il 25.
Per il resto non fatichiamo a credere a quanto ci è stato confidato. Prepararsi a uno spettacolo dei tre australiani è un compito prevedibilmente complesso. Era chiaro che non avremmo assistito a un concerto nel senso canonico del termine, con la trasposizione dal vivo di una serie di composizioni come nel tipico spettacolo pop-rock. Ma questo era facilmente preventivabile per una pura questione di definizioni, essendo noi in attesa di un collettivo che si muove tra
jazz minimalista, avanguardia e molto altro ancora. Tuttavia, leggendo qualche testimonianza di date all’estero o anche solo provando ad ascoltare gli spezzoni disponibili in Rete, il sospetto che l’ottimo “
Travel” sarebbe stato preso e accartocciato era più che una sensazione a pelle.
L’ingresso sul palco è stato minimalista come la loro musica: poche smancerie, concentrazione sui volti severi e, dopo qualche lungo minuto durante il quale i tasti del pianoforte venivano sfiorati da Abrahams, Buck avviava il mantra picchiettando i piatti della sua batteria con le spazzole, cosa che avrebbe fatto con impressionante continuità per una buona mezz’ora. Sopra questo continuo e delicato sferragliare, come una leggera pioggia su un tetto di lamiera, Swaton eseguiva un giro su una-due corde, mentre Abrahams, contrariamente al cliché che vorrebbe il pianista come portatore della melodia, picchiettava sui tasti d’avorio accennando brevi e accennate scale di percussioni.
Uno stato di ipnosi che ha vissuto poche vere grandi rivoluzioni, ad eccezione di un accenno di accelerazione che tale è rimasto fino a riprendere il fiato e sgonfiarsi al termine di un primo atto di 40 (molto abbondanti) minuti, prima della pausa per la seconda parte.
Rileggendo l’
intervista che ci concesse Swaton su queste pagine, risulta improvvisamente chiaro il perché ci siano reazioni così differenti a un tale messaggio sonoro: dallo stato di
trance alla meraviglia; e giureremmo che qualcuno possa anche essersi “arrabbiato”.
Non pochi avventori durante la probabilmente doverosa pausa sigaretta commentavano “aspettavo un’esplosione che puntualmente non arrivava mai!”, ma il tono non era in realtà deluso o contrariato quanto più stupito.
Ciò che rende speciale l’esperienza con The Necks sta proprio nella capacità del trio di Sydney di tenere tutti i presenti costantemente sulle corde senza mai davvero tirare il colpo del ko. Una sorta di lungo ma perversamente piacevole stillicidio, dove aspetti che Abrahams avvii una qualche melodia per poi rituffarsi nel mare in tempesta di dissonanze. E’ proprio quello oceanico il tema che ha dominato la seconda parte, almeno nella percezione di chi scrive, dopo aver finalmente deciso di approcciare in modo differente la serata: inutile osservare l’esecuzione, il pizzicare delle corde o lo sfiorare tasti nel tentativo di catturare o anticipare il movimento di quella creatura che si muove nervosa e imprevedibile. Meglio gettare la spugna, chiudere gli occhi e abbandonare i sensi, percependo le vibrazioni nel corpo e abbandonarsi alla lunga e cupa turbolenza ricreata dal passaggio insistito al registro basso del piano, spalleggiato dal borbottare del contrabbasso al centro del palco. Eccezionalmente calzante è la definizione che dà Kitty Empire del
Guardian a una loro esecuzione: “Lo scricchiolio e il gemito di una grande barca di legno, o il respiro di un’enorme creatura”.
E’ probabilmente vero: un’ora e quarantacinque minuti, pausa compresa, che saranno di certo stati totalmente diversi dalla serata precedente. Ci rimane un gradevole torpore, con una voglia matta di rivederli presto per scoprire le mille altre sfaccettature della loro creatura marina.
Contributi fotografici di Ricky Antolini