Doverosa introduzione: cover
Quando l’entusiasmo nasce già dalla copertina di un disco… Chi ha avuto la fortuna di tenere tra le mani una copia in vinile di “Blood Fire Death” avrà passato del tempo ad ammirare il dipinto “Asgardsreien” di Peter Nicolai Arbo, magnifica rappresentazione di una “caccia selvaggia” degli dei nordici, pregustando il contenuto dei solchi. Non era la prima volta in cui una cover creava nell’acquirente l’aspettativa di essere trasportato in un passato legato alle saghe fantasy o alle leggende norrene. Il più delle volte, almeno in ambito heavy metal, frustrate! “Hard Attack” dei Dust (copertina ad opera di Frank Franzetta tra le più belle di sempre), così come i dischi degli Heavy Load o “Borrowed Time” dei Diamond Head, pur essendo tutti egregi lavori, richiamano nei loro brani atmosfere indiscutibilmente moderne e urbane. Per trovare un album che mantenga le promesse esteriori, bisogna attendere le ridicole mise dei Manowar di “Into The Glory Ride” e il loro metal “hyboriano”. Non a caso, proprio il secondo lavoro di Joey DeMaio e soci, assieme ad altre opere più oscure del movimento epic come “King Of The Dead” dei Cirith Ungol, sarà la principale influenza per realizzazione di “Blood Fire Death”. E, da allora, le copertine con spade, elmi e barbe vichinghe cominceranno finalmente a rappresentare degnamente il sound che emerge dal disco contenuto.
Una progenie sconfinata
Ci sono stati pochi artisti capaci di realizzare capolavori in diversi generi musicali. Ma trovare chi, in una manciata d’anni, ne abbia addirittura codificati due (di cui uno praticamente dal nulla) è un rebus che si risolve solo tirando fuori il nome di Quorthon e dei suoi Bathory. Se infatti, i primi tre album definiscono, con qualità crescente tra l’altro, la prima forma del black metal (genere che si può dire perfettamente compiuto con lo splendido “Under The Sign Of The Black Mark”, anche se il mastermind negherà per anni la paternità del genere, probabilmente per non essere accostato agli eccessi della scena norvegese) sulla base dei soli primi lavori dei Venom, lo scarto compiuto con opus n. 4 del 1988 ha segnato l’inizio di una nuova epocale rivoluzione nel mondo dell’heavy metal, che continua, dopo oltre un quarto di secolo, a influenzare un numero spropositato di artisti.
Tutto ciò che viene definito “viking”, “pagan” e, in parte, anche “folk-metal”, nasce qui. E, come tutti gli appassionati ben sanno, non parliamo di una nicchia, ma di quello che oggi è, forse, il sottogenere più frequentato di quello che è, indubbiamente, uno tra i generi musicali più frequentati.
Non sarebbe azzardato, pertanto, definire i Bathory il gruppo rock più influente di sempre in ambito metal, se si guarda tutta la produzione che, in un modo o nell’altro, deve qualcosa alle intuizioni di Quorthon. I Venom sono stati responsabili della chiamata alle armi, ma fu la one man band svedese a indicare la direzione per le prime linee. E, dopo ben 25 anni, l’assalto non è ancora finito…
Forma e sostanza
Insomma, dalle copertine e dai testi (almeno… tendenzialmente dai testi) spariscono caproni, pentacoli e fiamme eterne. E la musica si adegua. Il disco non è più introdotto da un oscuro pezzo ambientale come i primi tre lavori, ma da un magniloquente brano orchestrale accompagnato dal nitrire di cavalli, dall’addensarsi di nubi e dal soffiar di venti. Il titolo dice tutto: “Odens Ride Over Nordland”. Preludio di guerra, così come l’arpeggio che introduce “A Fine Day To Die”. La voce di Quorthon segna una seconda novità: il frontman abbandona lo stridulo scream che aveva sempre usato fin a quel momento, azzardando un cantato pulito, insicuro, certo, e tecnicamente discutibile, ma indubbiamente funzionale alle nuove atmosfere. Ben presto gli indugi vengono spazzati via da tuoni di distorsioni che trasformano il brano in un’epica marcia, accompagnata ora dalla voce declamante, ora da una chitarra solista basilare ma terribilmente efficace - in mezzo un break melodico che mozza il fiato come un raggio di sole apparso all’improvviso sul campo di battaglia.
La rivoluzione nordica è iniziata! E la cavalcata folle acquista velocità con una serie di brani ferocissimi e isterici fino al parossismo: “The Golden Walls Of Heaven”, “Pace ‘til Death” e, soprattutto, “Holocaust”, apparentemente legati al passato del gruppo, in realtà molto più strutturati e tecnicamente ambiziosi del lurido black-thrash degli esordi. Atmosfere vichinghe tornano a far da padrone nel midtempo “For All Those Who Died”, riff spaccaossa e una ritmica che, pur non esagerando nei giri, è un continuo assedio ai nervi, come una molla che si carica per il nuovo, pauroso assalto di “Dies Irae”. Tutto fantastico e già più che sufficiente per passare alla storia.
Ma la definitiva immortalità “Blood Fire Death” se la conquista con la monumentale title track, ode ai caduti che attendono nel Valhalla la battaglia finale. Aperto da un arpeggio dal fascino misterioso ed evocativo, accompagnato da tastiere e da un coro femminile, il brano prende il volo quando la chitarra di Quorthon si ammanta di elettricità per squarciare il cielo con uno dei più bei giri tirati fuori nell’ambito del metal estremo. Da lì è superba narrazione, a ritmo cadenzato ma implacabile, suonata con un’intensità che penetra l’anima e benedetta dagli dei (nordici) del rock ‘n’ roll. Fino alla distruzione finale che non lascia vivi né divinità né uomini.
L’eredità di Quorthon
Lo scorso giugno è stato il decennale della morte di Thomas Forsbeg, alias Quorthon. Quasi nessuno, anche nel mondo heavy metal, sembra averci fatto caso. Il che, alla fine, è quasi coerente: per anni, è stata una figura, se non rimossa, quantomeno data per scontata. Eppure, buona parte della musica che io e millanta metallari amiamo (a partire proprio dai dischi dei Bathory) non sarebbe esistita senza lui.
A “Blood Fire Death” seguiranno altri lavori, formalmente anche un pelo migliori (il successivo “Hammerheart”, il malinconico “Twilight Of The Gods” oppure i due volumi di “Nordland”) che consolideranno la svolta vichinga. Ma il senso di meraviglia che dovette colpire l’ascoltatore in quel 1988 ascoltando brani come “A Fine Day To Die” o “Blood Fire Death” era difficilmente superabile persino per lo stesso Quorthon. Che, tuttavia, era riuscito nell’impresa di trasportare perfettamente in musica il dipinto di Arbo. Basterebbe questo a certificare l’assoluta magnificenza del disco.
28/09/2014