Emiliana Torrini

Love In The Time Of Science

1999 (One Little Indian)
pop, trip-hop, downtempo

Se nel 2023 qualcuno vi chiedesse quali musicisti vi vengono in mente pensando all'Islanda a chi fareste riferimento? Sicuramente pensereste subito a Björk e ai Sigur Rós, i più attenti forse citerebbero il compianto Jóhann Jóhannsson o la fresca di Oscar Hildur Guðnadóttir, per non parlare di una scena black-metal assurta a vera e propria scuola. A ben vedere, la terra del ghiaccio e del fuoco negli ultimi venticinque anni è stata un'incredibile fucina di talenti, i quali hanno finito con l'influenzare tutto il mondo della musica indipendente (e non) in maniera indelebile. In questo crogiolo di creatività entra di diritto anche un'artista ben distaccata rispetto al chiacchiericcio dei circuiti di punta, capace però di porsi come voce autorevole (quando non di successo) in materia di squisitezze pop. E dire che la sua storia non era partita minimamente con ambizioni internazionali...

 

Certo, di primo acchito il nome dell'artista in questione ha molto poco a che vedere con le latitudini prese in esame. Nata da madre islandese e padre italiano, Emiliana Torrini cresce in una piccola città vicino Reykjavik ed esibisce sin da subito un prezioso talento vocale, oltre che una curiosità onnivora che la porta a spaziare dagli standard jazz interpretati dal nonno alle eccitanti sonorità pop conosciute tramite Mtv. Già all'età di sette anni si unisce a un coro della Capitale come soprano, fino a quando, a quindici, comincia a frequentare il Conservatorio, con l'obiettivo di diventare cantante lirica.
Il paese è piccolo e la carriera della giovanissima cantante fa presto a spiccare il volo. È solo il 1994, quando, a 17 anni, diviene famosa vincendo un concorso canoro per giovani talenti grazie alla sua interpretazione di "I Will Survive". Da qui in poi gli eventi si susseguono in maniera precipitosa.

 

In un'attenta operazione di scouting che vuole supplire a una fame crescente di suoni dall'Islanda, il nome di Emiliana Torrini giunge alle orecchie sempre attente di Derek Birkett, fondatore della One Little Indian (etichetta di Björk e dei Sigur Rós, freschi di debutto e di parallela distribuzione internazionale) che scorge in questa incontenibile pulsione al canto il veicolo di una personalità pop di tutto rispetto. Detto fatto: è il 1999, e i sogni raminghi di una ventunenne prossima ai ventidue convergono alla volta delle rive del Tamigi, sede centrale dell'etichetta di Birkett e allora brulicante crocevia delle più moderne tendenze pop. In questa Londra vissuta con disincanto, ma anche con tutta la fremente curiosità di una giovane adulta, Emiliana Torrini e un entourage di tutto rispetto (con nientemeno che Roland Orzabal dei Tears For Fears a coordinare il lavoro di produzione) realizzano il debutto, quantomeno dal punto di vista di contributi originali, di un'interprete che si trova di punto in bianco a impugnare una penna e diventare autrice. In questa fase di vita che dissolve i confini tra innocenza e malizia, disagio e spensieratezza, l'album che ne scaturisce finisce col definire un'intera stagione pop.

Con un titolo che richiama il capolavoro del 1985 di Gabriel García Márquez, "Love In The Time Of Science" arriva in un periodo in cui gli anni 90 stavano giungendo al loro capolinea, lasciando un sapore agrodolce a livello di "atmosfera", permeando molta della musica uscita a livello europeo. In quegli anni venivano gettate le basi del trip-hop, una musica ambivalente che si è consolidata in forme più eleganti e rarefatte, capace di esprimere un affascinante quanto ambivalente mix che dal disagio esistenziale sfocia nella malinconia. Al confine con la musica industrial, fra accenni di "Mezzanine" dei Massive Attack e le articolazioni noir dei Portishead, il Bristol sound viene scoperto alla luce di un potenziale pop che sfrutta a proprio uso e consumo l'ossessività ritmica e il carattere narcotico dei bassi. Morcheeba, Hooverphonic, finanche i Moloko pre-exploit del remix di "Sing It Back": la strada spianata da mamma Neneh Cherry e Robert Del Naja ha già trovato i suoi epigoni, pronti a conquistarsi il proprio spazio, a incanalare le strutture del genere alla volta delle più disparate commistioni.

A giudicare dalle considerazioni della firmataria, il terzo album di Emiliana Torrini non partiva necessariamente con questo tipo di premesse. Anzi, vi era un certa ritrosia da parte sua riguardo le ripetute osservazioni di chi la voleva autrice di un disco totalmente allineato ai dettami del trip-hop. Eppure, per quanto si voglia presentare l'album come raccolta di canzoni pop, questo finisce con l'essere giocoforza influenzato dalla temperie creativa in cui si inserisce, anzi, ne diventa uno degli esempi più sfavillanti. L'album si configura come una collezione tanto immediata e accattivante quanto capace di assorbire le più disparate influenze e di restituirle a immagine e somiglianza di una giovane curiosa del mondo, di una visione che fa dell'assoluta singolarità (lirica, ma in fondo pure sonora) il suo punto cardine. Pensieroso e riflessivo, eppure mai dimentico di una certa solarità che distinguerà tutta la carriera della musicista islandese, questo vero esordio riesce a centrare le sensazioni di un'intera generazione di appassionati, sublimandone le percezioni in un abbraccio caldissimo.

Tutt'altro che il disco creato con lo stampino, insomma, anzi, l'opera si prefigura come la versione alternativa delle tante starlette teen-pop lanciate con successo altalenante in quegli anni. Malgrado modalità realizzative che avrebbero potuto suggerire una rincorsa ai piani alti delle classifiche, l'intero processo si rivela invece rispettoso della personalità dell'autrice, con un team di assoluto livello (oltre a Orzabal, figurano Eg White, lo storico ingegnere del suono Mark O'Donoughue, Siggi Baldursson, il batterista dei furono Sugarcubes, e pure un Jóhann Jóhannsson pre-debutto) che riesce a trarre vantaggio dall'assoluta inesperienza alla scrittura della cantante per esaltarne tutta la freschezza, piena di delicati chiaroscuri e di una sensuale ambiguità.
Tutte queste considerazioni sono condensate già nell'iniziale "To Be Free", che con il suo calore discreto dà l'abbrivio all'album. In questo brano sono condensati suoni e sapori che spaziano dal trip-hop all'electro-pop, fino al pop-rock più canonico, il tutto perfettamente impastato dalla voce della cantante islandese, che impreziosisce il brano con tonalità basse e mai invadenti. La musica è briosa, candida, frizzante, effervescente senza strafare, il pezzo risulta riflessivo ma mai sopito. In poche parole, sembra di ascoltare una versione più sommessa, ma allo stesso tempo più strutturata, di molti artisti che in quel periodo sfondavano nelle classifiche con proposte similari.

Sulla falsariga del precedente brano, si fa largo la ballata "Wednesday's Child", la quale assume un tono agrodolce, quasi amaro, caratterizzata da un incedere ritmico più sostenuto, paradossalmente quasi uptempo. Nell'operare di contrasti, nel volteggiare su timbriche più agili, raccontando di dolore e depressione, Torrini circoscrive al meglio la forza che possono assumere sentimenti tra loro contrapposti, l'assolutezza che li caratterizza. Giovane sì, ma la sua consapevolezza è tale che in fondo la luce in fondo al tunnel è bella visibile: come da testo, "Ain't gonna die". Simili considerazioni possono essere mosse commentando anche "Baby Blue", brano che assume nuovamente fattezze da ballad, ma con una caratura sonora diversa. Nei momenti di quiete, infatti, la canzone si veste di toni jazz (evidenti i rimandi alla sua formazione e ai due dischi di cover), si fa docile, sorniona, fino alle esplosioni corali del ritornello, in cui la voce, gli archi e la chitarra si schiudono dando al pezzo un'ariosità davvero sorprendente, per poi tornare alla quiete dove pochi elementi sorreggono la struttura strumentale. Tale complessità strutturale è sapientemente gestita e tutto risulta pienamente giustificato, supportato anche da un tema lirico che non fa sconti a nessuno, in primis all'interprete stessa. Lontana da tentazioni gotiche e da richiami escatologici fuori contesto, la canzone riesce a richiamare il dolore di un aborto spontaneo con il senso di smarrimento e pena che tale perdita comporta, dosando ogni parola con la dovuta accortezza.

Con la stessa naturalezza di chi è consapevole di non aver niente da perdere, Emiliana e il suo team mettono sul piatto "Dead Things", canzone tra le più potenti della raccolta, giocata nuovamente su un'affascinante ambiguità interpretativa che la carica di molteplici significati. Tra accettazione e rifiuto, evasione e fatalismo ("bad things, sad things, dead things have to happen") la canzone veleggia fra flebili fruscii di synth, una drum-machine a basso impatto ritmico e deflagrazioni industrial rumoriste, dissonanti ma perfettamente nel contesto. Echi di Björk? Possibile: rimandi a "Post", in particolare, non mancano, ma è l'unico momento che può richiamare la straordinaria connazionale: la corsa al raffronto che ha portato in tanti a ritenere Torrini un'emula della ben più celebre collega (causandole non poco affanno) può finire tranquillamente qui.

 

La solarità si schiude definitivamente in una coppia di pezzi più canonici ma non per questo piatti o scontati, anche perché cuciti su misura sulla personalità della cantante. Se prima "Unemployed In Summertime" si mostra flessuosa, con note di basso pulsanti e uno svagato andamento elettronico, "Easy" gioca la carta del pop-rock chitarristico, impreziosito da brillanti commenti di synth. Affidate alla freschezza di una ventunenne pienamente conscia della sua posizione ("I've only just turned 21, I'll be OK") e dei propri desideri ("It's not an accident, you meant to touch me, and that's exactly why I'm here"), le due canzoni sono l'esempio lampante di un pop che non banalizza minimamente la voce della propria inteprete, ne esalta anzi la poetica e il fervore giovanile. È in definitiva la dimostrazione di come si possa fare musica fruibile e personale, canzoni magari senza la voce autoriale pienamente definita ma con una qualità rarissima: una grande melodia.

 

Giunge poi il momento di uno dei pezzi più rappresentativi dell'album: "Fingertips". In questo caso si affondano le mani pienamente nei suoni trip-hop: staffilate ritmiche cadenzate fanno da contraltare ai vocalizzi di Emiliana e alla dolcezza del suo canto, fra scratch, campionamenti di treni in corsa e vari suoni di contorno. Nonostante una stratificazione sonora abbastaza intricata, il pezzo fila via candido, emotivo e pieno di colori, in piena comunione panica con la terra e i suoi aspetti più tattili. È chiara, nella scrittura, la volontà di spingersi oltre, di superare le convenzioni (per quanto continuamente rimodellate) con risultati di pregio. Con lo stesso intento si srotola "Telepathy", una folgorante epopea scritta dal già citato Jóhannsson: qui la voce delle cantante islandese, come una novella Shirley Bassey, dà sfoggio delle proprie qualità in termini di estensione e potenza, toccando vertici da interpretazione bondiana d'altri tempi, mentre sulla scrittura la parte orchestrale/strumentale prende il sopravvento su quella elettronica, proponendo una sorta di pop-song ruvida e muscolare, capace però di placare le sue mareggiate regalando parentesi più sognanti.

 

Sul finire del disco gli umori si attestano su tonalità dolci e rassicuranti, giocate però su un lirismo tutt'altro che accomodante, quasi a voler accompagnare e allo stesso tempo colpire l'ascoltatore verso il commiato finale. L'arrembante rollare delle percussioni in "Tuna Fish" cozza con il cantato appena sussurato, che ammanta il depresso situazionismo del testo ("I am lying in my bed watching the spider eat the fly, I say "How is that its breakfast even for you") di una disarmante sincerità. "Summerbreeze" è una flebile e sognante ninnananna chitarra-voce, tutta giocata su un senso di assenza e abbandono che neanche la corta estate islandese riesce a dissipare del tutto. Il bellissimo minuto di quiete catartica di "Sea People" conclude degnamente un trittico finale in cui la pace dei sensi e la forza di un sentimento senza freni trovano il meritato posto conclusivo.

 

A conti fatti, "Love In The Time Of Science" non trova una collocazione precisa nel panorama musicale del periodo: non è abbastanza trip-hop da poter assimilato alla corrente del Bristol Sound, non è troppo lineare per essere inserito in una qualsivoglia corrente pop di fine millennio, non è nemmeno devoto al gusto per la sofisticazione per essere issato a oggetto proibito per soli appassionati. L'identità di questo album è sua esclusiva, e risiede nella rara capacità di aver attinto in maniera sapiente da varie fonti d'ispirazione, traendo il massimo da una voce unica e da diverse menti artistiche, sfornando una raccolta di canzoni di disarmante quanto turbata dolcezza.
Tutto e il suo contrario, "Love In The Time Of Science" sembra rappresentare un periodo rifuggendone ogni categorizzazione netta; a suo modo, è lo specchio di un'epoca piena di dubbi come furono gli anni a cavallo fra vecchio e nuovo millennio. Quel che è certo è che a livello musicale può solo essere ricordato come una raccolta di canzoni vivide, nuove, fresche e colme di trovate sonore: ciò che in fondo dovrebbe essere da sempre l'essenza del miglior pop.

12/03/2023

Tracklist

  1. To Be Free
  2. Wednesday's Child
  3. Baby Blue
  4. Dead Things
  5. Unemployed In Summertime
  6. Easy
  7. Fingertips
  8. Telepathy
  9. Tuna Fish
  10. Summerbreeze
  11. Sea People






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