dum dum boys?
Hey, are you alive or dead?
Have you left me the last
Of the dum dum daze?
1976. La Fun House è chiusa definitivamente, e Iggy Pop è solo. I figli dei fiori puzzano di marcio e il giro di boa verso un nuovo decennio è alle porte. Un uomo può a trent'anni salutare calorosamente il pubblico e ritirarsi a vita privata? Ma certo che no. A volte dalla depressione bi-polare possono venir fuori capolavori. Con un piccolo aiuto di qualche amico, beatlesianamente, ce la si può fare a restare in gioco e imparare a camminare nelle gelide notti berlinesi. David Bowie, già dietro le quinte, nel 1973, di un "Raw Power" ammalato di eccessi e rimaneggiamenti nella line-up degli Stooges, è in America, durante il tour promozionale di "Station To Station", e Iggy Pop continua a cazzeggiare, facendosi di Quaalude e divertendosi a provocare, rimediando pestaggi, principi d'overdose e sprofondando in una forma di auto-annientamento gaio e disperato.
Le mani tese appaiono quasi sempre troppo interessate a succhiare il midollo di quest'animale accidioso e strabordante d'energia divina, che mille volte ricade e mille volte ritenta la sorte, alternando la depravazione del corpo e dello spirito con una posticcia dieta macrobiotica e un'improbabile attività fisica, in una forma di schizofrenica antitesi tra auto-distruzione e istinto di sopravvivenza. Ma l'invito di David Bowie, dopo una prima, strategica ritrosia, non può cadere nel vuoto, perché indizio di una fiducia rimasta indenne dallo spregio del proprio Ego, e perché sintomo di un possibile rapporto alla pari, piuttosto che di un conflitto tra vanità, di un duello a colpi di reciproca, per quanto diversificata, genialità. Iggy parte in tour con Bowie, che, affascinato dall'espressionismo tedesco e dall'estetica teutonica degli anni del nazismo, decide di trasferirsi per un po' a Berlino.
Bowie, impeccabilmente ripulito fuori e lucidamente intossicato dentro, spettrale ed essenziale, è lì ad assorbire i fuochi fatui e la decadente trasgressione della Mitteleuropa, che faranno da sfondo alla trilogia berlinese (nell'ordine, "Low", "Heroes", "Lodger"), nella quale interverrà, come strabiliante deus ex machina, Brian Eno. Iggy è meno elegante. Più fisico. Accelerato. Un punk di prima generazione. Un randagio refrattario a ogni tipo di guinzaglio. Un visionario volutamente incapace di esercitare il controllo creativo sull'abuso di stupefacenti. Un eroinomane per vocazione. Un guerriero disperato, orgoglioso del suo disadattamento. Due identità antitetiche, una contrapposizione di yin e yang che intreccia la presunta e wildiana bisessualità di Bowie con le marchette e i leggendari, allegri scoli presi da Iggy, ai tempi dell'omonima, prima uscita, trastullandosi con Nico.
La capacità del Duca Bianco d'avere assoluta coscienza anche nella più perversa delle situazioni è il quid che, sino a quel momento, era sfuggito a Iggy, inadatto a qualsiasi forma d'auto-contenimento, convinto che la grandiosità abitasse nel lasciarsi trasportare dal Caso, nel vivere come kamikaze, rifiutando a priori la benché minima consapevolezza di sé, martiri della propria, inaudita energia. Ma l'Iggy Pop che giunge in Europa è un uomo convalescente da se stesso, prima che da qualsiasi altra sostanza, un individuo di quasi trent'anni illuminato dall'accecante, fascinoso e glaciale auto-controllo bowiano.
La luce cambia, insieme con gli umori. David Bowie è produttore e arrangiatore di "The Idiot", mentre la paternità delle liriche, sospese tra provocazione, nichilismo e ricerca di una nuova identità da solista di Iggy Pop, resta, all'oggi, l'affascinante arcano che alimenta il conflitto tra le diverse fonti (Iggy, come si suol indicare? Bowie? Iggy con Bowie? Iggy "attraverso" Bowie? e si potrebbe continuare utilizzando molte altre formule). L'album viene registrato, per metà, nel glorioso Chateau d'Herouville, in Linguadoca, costruito nel XVIII secolo, e acquistato nel 1962 dal compositore Michel Magne che ne aveva impiantato uno studio di registrazione molto frequentato negli anni successivi da numerose rockstar: Elton John, Pink Floyd, lo stesso Bowie, con "Pinups", nel 1973, e nel 1977 Iggy Pop con "The Idiot". La seconda metà del disco viene, invece, registrata negli Hansa Tonstudio di Berlino. Cosa sia accaduto durante le passeggiate crepuscolari nella città di Christiane F., non ci è dato sapere, ma forse quei demoni forsennati si assottigliano per infilarsi in uno spleen meno ridondante, più algido e dosato con narcotica consapevolezza.
Angela Bowie lancia fulmini e saette sulla neo-coppia di bambolotti rock, quasi ad avvalorare la pretenziosità di "Velvet Goldmine", pellicola che gioca sulla verosimiglianza del rapporto tra i due protagonisti con le dinamiche intercorse tra David e Iggy. Ma ridurre il tutto a una mera, carnale ed estemporanea corrispondenza d'amorosi sensi sarebbe realmente banale. Di sicuro, quell'incontro tra l'edonismo decadente di Bowie e la selvaticheria di Pop non era visto di buon occhio da Angela, disgustata da questa simbiosi così inattesa e quasi improbabile, così risentita da, a distanza di anni, attribuire all'ex-marito una fantomatica adorazione del nazismo, piuttosto che della sua mirabile estetica (e soltanto quella, è doveroso aggiungere).
Ogni congettura intorno a "The Idiot" va a farsi fottere già dal primo ascolto, dove la temperatura è così fredda da bruciare, in un improbabile ossimoro reso credibile dalla gestazione e dalla registrazione dell'album. Un album che non conosce in nessun punto il peccato della ridondanza, concentrato in circa quaranta minuti di inferno in bianco e nero, nel quale pare di respirare nel gelo, producendo anelli di vapore, in quella che è una notte qualunque oppure una singolare mattina di non sole. Il possibile tutt'uno con la trilogia berlinese trova conferma nelle tensioni di "Sister Midnight", facilmente accostabile all'intro della "Fantastic Voyage" che aprirà, di lì a due anni, "Lodger", mentre "Nightclubbing" alza il sipario sul blues freddo, trasformando il burlesque depravato, messo in scena da Iggy, in un modo d'essere assolutamente cool ("Nightclubbing we're nightclubbing/ We're an ice machine/ We see people brand new people"), poco dopo degnamente coverizzato da Grace Jones. E quant'è nervosa, sospesa tra dramma e dolcezza, "Baby", ballata sfocata, drammatica richiesta di non precipitare in un abisso fin troppo noto ("Baby there's nothing to see/I've already been/ Down the street of chance).
"China Girl" (in seguito interpretata anche dallo stesso Bowie in una versione più ironica, forse mitigata dall'edonismo degli ‘80s in "Let's Dance") è un manifesto d'esotica e affascinante sensualità, dal lirismo profondamente visionario e ispirato ("I'd feel tragic/ Like I was Marlon Brando/ When I'd look at my China Girl/ I could pretend that nothing/ Really meant too much/ When I'd look at my China Girl").
"The Idiot" ha poi il gran pregio di contenere una perla generazionale, nascosta tra le pieghe di un tessuto sonoro che diventa sempre più ammaliante: "Dum Dum Boys" è la ruvida dichiarazione d'amore a una razza altra, a uno sparuto gruppo di disadattati guardati con diffidenza e, per questo, oggetto di contrastante attrazione per la massa ("People said we were negative/ They said we would take but we would never give/ But we'd sing da-da-da-da-da-da dum dum day/ We'd sing da-da-da-da-da dum/ And hope it would pay/ We'd sing Da-da-da-da/ It's been a dumdumdum day/ Dum dum day"). La voce di Iggy Pop si fa altera e strafottente, sfoderando l'antico senso di superiorità e indifferenza al pensiero dei più, per poi accondiscendere al gioco dei sintetizzatori che apre la lunga, dilatata chiusura di "Mass Production", surreale viaggio al termine della notte ("Before you go/ Do me a favour/ Give me a number/ Of a girl almost like you/ With legs almost like you/ I'm buried deep in mass production/ You're not nothing new/ I like to drive along the freeways/ See the smokestacks belching/ Breasts turn brown/ So warm and so brown").
Rimettere a posto "The Idiot", già dopo il primo ascolto, diventa un gesto meticoloso, in cui nulla è lasciato al caso, dove non c'è ordine alfabetico che tenga, perché il suo locus naturalis è lì, accanto alla trilogia, con una lieve forma d'indulgenza soltanto nella più o meno consapevole scelta di seguire un criterio cronologico che lo ponga vicino a "Heroes" e "Low" e prima di "Lodger", quale possibile anello mancante di una trilogia allargata, oppure di una quadrilogia mancata, come se Bowie avesse per un attimo mostrato una sorta di alter ego più sordido e selvatico.
Con il piccolo aiuto del proprio amico, Iggy Pop rinasce a nuova, mirabile vita, capace di segnare, senza bisogno alcuno d'alzar la voce, un fondamentale lustro nella storia della musica, e a offrire a Ian Curtis, nel 1980, la colonna sonora del proprio suicidio, in un gelido scambio d'opinione sulla possibilità di una futura esistenza.
"The Idiot" va, così, a classificarsi nella leggenda come capolavoro uno e trino, nel quale confluiscono, in magmatici rimescolamenti, le tensioni di David, Iggy e anche Ian.
(07/02/2010)