Nell'aprile del 1993, mentre i Suede danno alle stampe l'omonimo album con cui si aprono le porte della stagione britpop, dall'altra parte del mondo un ragazzo dell'alta borghesia londinese di nome Crispian Mills si sta imbevendo della cultura e della spiritualità indiane: in modo più o meno diretto, i due eventi che si svolgono in concomitanza risulteranno fondamentali per le sorti del gruppo che di lì a poco prenderà il nome di Kula Shaker.
Esattamente quattro anni dopo, nell'aprile del 1997, nel corso di un corposo tour negli Stati Uniti d'America, Crispian Mills rilascia dichiarazioni contraddittorie al New Musical Express riguardo la presenza di svastiche (simbolo, va ricordato, radicato nella medesima cultura indiana) sul palco durante i concerti. Le frasi vengono probabilmente fraintese, e le scuse del biondo frontman inglese arriveranno a breve giro di posta, comunque troppo tardi. Nel giro di quattro anni, l'ascesa e il declino di una delle migliori band del decennio sono compiuti. E poco importa che la formazione londinese sia ancora in grado di scrivere grandi canzoni: il pubblico e la stampa sono già rivolti altrove.
Nel frattempo, però, Mills e soci - Alonza Bevan al basso, Paul Winter-Hart alla batteria e Jay Darlington alle tastiere - hanno fatto in tempo a dare alle stampe il loro capolavoro. "K" esce il 16 settembre del 1996 e abbatte due record, diventando il debutto più venduto nella prima settimana e, ancora più bizzarro, piazzando per la prima volta nella top 10 britannica un singolo completamente recitato in sanscrito, "Govinda". Il brano fotografa alla perfezione la ricerca di un precario equilibrio tra il misticismo che guida spiritualmente il quartetto e la relativa trasposizione sui canoni britpop imperanti a metà anni Novanta. Una ricerca che trova nell'arioso ritornello uno dei suoi vertici assoluti.
Pubblicato su etichetta Columbia, che scrittura la formazione dopo averla sentita suonare dal vivo a un contest per band emergenti, "K" sintetizza fin dalla copertina, disegnata da Dave Gibbons, l'insita mescolanza di elementi sacri e istanze pop contenuti nel disco. Se al centro campeggiano due krishna, tutt'attorno è un fiorire di ritratti ben più terreni, veri o inventati che siano, tutti accomunati dalla lettera iniziale: la "k", appunto. King Kong, J.F. Kennedy, un paio di cavalieri (knights in inglese), Kareem Abdul-Jabbar, Martin Luther King, Karl Marx, Boris Karloff e così via, gli uni accanto o sopra gli altri.
Se però "K" vende 850mila copie nel Regno Unito, e almeno altrettante resto del mondo, lo si deve alla forza prorompente dei singoli che nei mesi precedenti ne anticipano l'uscita. A cominciare da "Grateful When You're Dead": la scomparsa di Jerry Garcia dei Grateful Dead, avvenuta l'anno prima, diventa un valido pretesto per inscenare un libero omaggio, che sconfina dal travolgente funk-rock della prima parte alla compassata psichedelia della seconda (presente in vero solo nella versione su album, accompagnata dal titolo "Jerry Was There" e impreziosita da echi floydiani).
La rivelazione arriva con "Tattva", numero 4 in classifica. Intriso di spiritualità e psichedelia, sorretto da un groove sornione benché quasi indolente, il pezzo incarna alla perfezione il manifesto musicale dei londinesi, coniugando al lato ricercato e "dotto" quello più catchy e pop-rock. La musica inglese degli anni Sessanta viene riletta secondo i dettami dei Novanta, coniando un gusto tutto nuovo e talmente estroverso da permettersi di poggiare anche qui su metriche sostanzialmente funk.
"Hey Dude" va al numero 2, grazie a una cadenza d'assalto, tutta sincopi di chitarra e wah wah. L'ingresso di Mills è epocale, il suo timbro nasale cambia continuamente espressività, dall'aggressione al sussurro, mentre le parole scivolano in un'euforica altalena prosodica.
Il testo è un quadro della vita moderna e delle sue nevrosi, in particolare dei simboli di potere che hanno finito per riassumerla (soldi, automobili, gioielli e via dicendo), culminante nel verso "Un venerdì sera ho visto tutti quanti alla ricerca di un po' di miele, per alleviare il dolore". Il miele dei Kula Shaker non è necessariamente la droga, come molti all'epoca sbrigativamente supposero, sembra piuttosto rappresentare la ricerca stessa del divertimento, un obbligo che diventa parte dell'ansia spersonalizzante che dovrebbe curare. Non a caso in quella stessa strofa Mills, o meglio il suo alter ego, descrive le persone a passeggio per la città come una serie di foto per lapidi.
Anche se sono tutti troppo impegnati a ballarla, soggiogati dalla torrenziale fisicità della sezione ritmica, si tratta di una delle canzoni più introspettive del decennio.
Sette brani su tredici vedono alla regia John Leckie, uno dei più importanti produttori della storia del rock (Be-Bop Deluxe, Xtc, Felt, Fall, Stone Roses, Elastica e Radiohead, solo per dirne alcuni). Leckie è probabilmente colui che ha spinto la band alla realizzazione di un affresco curato nei minimi dettagli, approccio che non era raro nell'epoca d'oro del britpop, ma che non era scontato nel caso di una band dalla forte attitudine alla presa diretta (non a caso i loro concerti sono forse i più potenti e meglio suonati dell'intera corrente).
"K" è un'esplosione in technicolor, dove scovare i suoni più inusuali. Sul sarod del maestro indiano Wajahat Kahn si poggia la strumentale "Sleeping Jiva". Il Mellotron di Darlington colora "Tattva" (imitando sia i flauti, sia gli archi) e affoga nella malinconia la pianistica "Magic Theatre", così come sembrerebbe fare con la conclusiva "Hollow Man", salvo vederla mutare in vignetta acustica prima e jam elettrica poi. Anche quando i canoni britpop prendono il sopravvento per un attimo, come in "Start All Over", l'arrangiamento riesce a deragliare, nello specifico con interventi fiatistici vagamente barocchi.
Se l'organo elettrico sospinge le convulsioni garage rock di "303", quasi un antipasto degli Hives, il pianoforte martellante di "Knight On The Town" trafigge un luminoso rock'n'roll, forse un suggerimento agli Stone Roses del fallimentare secondo album.
Indicativa della volontà contaminatrice dell'opera è "Temple Of Everlasting Light", che fonde trame acustiche dal sapore andaluso, influenze raga, tappeti di tabla e assoli elettrici con distorsione.
Un approccio transculturale sottolineato all'epoca in molte recensioni, da Nme, che li descrisse come "i Verve in ethno-berserk", a Q che sottolineò la natura blues di molti riff (evidente, ma mitigata dal resto dell'impalcatura, piuttosto distante da quei territori). Non tutta la stampa fu entusiasta, a ogni modo - Melody Maker pubblicò per esempio un articolo delirante firmato da Neil Kulkarni, che mescolava insulti e battute criptorazziste.
Oggi come oggi, a distanza di molti anni dagli entusiasmi iniziali, i Kula Shaker vantano un pubblico che li segue volentieri dal vivo e godono dell'amore di qualsiasi appassionato di britpop che si rispetti, ma la critica se ne ricorda saltuariamente, solo durante qualche retrospettiva sugli anni Novanta, ripescandoli come bizzarra cartolina d'epoca.
Eppure "K" fu molto di più. Se si scorrono gli ultimi vent'anni di musica rock ci si accorge che non c'è un solo album, se non i successivi della stessa band, che si possa dirgli somigliante.
Il simbolismo era sì ostentato, ma mai in malafede. Mills sarebbe tornato in India e rimane ancora oggi a stretto contatto con musicisti e religiosi locali, dimostrando come non si trattasse di una sbandata stagionale. Visto che la produzione non si discute e la qualità degli arrangiamenti neanche, darà forse fastidio l'entusiasmo quasi adolescenziale sottinteso in questo vulcano d'armonie?
Sarebbe un peccato, perché se i giornalisti di Nme nel 2016 non ci arrivano, quelli di Nme del 1996 avevano viceversa capito tutto: "Possenti, verticali groove di power pop multidimensionale. Grandi come l'orizzonte stesso. Incredibilmente convinti, musicalmente dotati, gloriosamente edonistici".
10/09/2016