Non ci fossero stati i Residents ad accoglierli a braccia aperte nella loro etichetta, anche a San Francisco (come nella natìa Bloomington, Indiana) per gli Mx-80 Sound sarebbe stato difficile sbarcare il lunario… Il contratto con la Island era andato in malora, a causa di quell'"Hard Attack" che nel 1977 aveva venduto sì e no un centinaio di copie. (Per non parlare del loro primo Ep, "Big Hits", ancora più radicale e scevro da compromessi).
Eppure, dentro c’era un mondo, non dico nuovo (chiedere ai Pere Ubu per delucidazioni…), ma alquanto intrigante: poltiglia immatura (ma come sa esserlo solo la giovinezza) di art-punk con tanto di succose e febbrile scorciatoie rumoriste. Eppure, neanche a dirlo, si erano scavati la fossa con le loro stesse mani. Nell’Indiana, d’altra parte, non è che ci fosse una scena capace di sopportare le loro torture soniche. Ok, i Gizmos erano stati tra i progenitori della new-wave, ma quella era ancora roba di culto; e molto sotterraneo, a dirla tutta.
Bruce Anderson era senza dubbio il massimo responsabile del loro sound: le sue divagazioni chitarristiche, per lo più orbitanti attorno a un nucleo tematico dissonante, lo avvicinano più a certo free-jazz che al rock. Il secondo chitarrista, nonché cantante e sassofonista, Rich Stim, era completamente oscurato dalle velenosissime improvvisazioni del collega. Completavano la formazione, Dale Sophiea al basso e Dave Mahoney alla batteria.
A San Francisco, non c’erano solo i Residents. Chrome e Tuxedomoon completavano la magica triade, che, nel 1979, grazie ad un articolo di Michael Goldberg sul "New Musical Express", divenne – con l’"adozione" ufficiale della band di Anderson - un quadrato perfetto. Delle quattro, era proprio la band "immigrata" quella meno rivoluzionaria. Tuttavia, era nondimeno capace di provocare una sensazione di disagio, di angoscia opprimente, che, anche sulla west-coast, creava dei seri problemi di "orientamento". Il loro era il rock della disumanizzazione. Il "rumore" era il simbolo più evidente del disagio.
E’ proprio su "Out Of Tunnel" che viene a galla tutto il potenziale della band. Le citazioni, più o meno scoperte, non si contano: dai Velvet Underground (troppo facile…) agli Stooges, dai Black Sabbath ai Blue Oyster Cult (le chitarre "incandescenti"), dalla scuola sperimentale dell’Ohio (Pere Ubu su tutti) a certe esperienze (anche piuttosto "eccentriche") del krautrock (su tutte, le "invention" chitarristiche di Manuel Göttsching degli Ash Ra Tempel) e le escursioni "cosmico-psichedeliche" della diade Karrer/Weinzierl (Amon Duul II).
Mentre il resto della band imbastisce un sound spigoloso ma tutt’altro che ermetico, le fughe chitarristiche di Anderson (a metà strada tra la psichedelia "isolazionista" di Peter Laughner e le derive avant-jazz di John MacLaughlin) spargono una fittissima coltre di feedaback e di distorsioni, spesso così impenetrabile e ossessiva da far pensare a una versione ante-litteram dello "shoegaze" - ma senza il minimo barlume di "trascendenza", dato che nel mondo degli Mx-80 Sound la realtà si risolve tutta nell’angoscia della nientificazione.
Si parte con "It’s Not My Fault", probabilmente il pezzo punk che Beefheart non ha mai avuto voglia di scrivere. Vorticose inflessioni "heavy" sono evidenti soprattutto in alcuni passaggi di chitarra e batteria. "Follow That Car" sfodera un ritornello "appiccicoso", insolente. Il brio è quello tipico della new-wave: furioso, ma, nello stesso tempo, irrimediabilmente malsano.
La sfiancante e tumultuosa "Fender Bender" può essere divisa in due tronconi: da un lato, le evoluzioni inarrestabili del sax di Stim (a tratti proteso verso atroci dissonanze, che sembrano spostare irreparabilmente il baricentro del brano verso un punto di definitivo non-ritorno); dall’altro, la sezione ritmica (sincopata, metallica, protagonista) e la chitarra (qua e là disposta ad assecondare Stim, ma sempre pronta a declinare insidiosi fraseggi al vetriolo – potreste anche vederci il fantasma di Helios Creed…). Un trillare meccanico è quanto di meglio ci possa essere per introdurre "I Walk Among Them", torbida e monocorde, come la stessa voce di Stim, qui più "loureediana" che mai.
Ma il capolavoro risponde al nome di "Someday You’ll Be King", (all’epoca uscito anche come singolo, in coppia con "White Night", pereubiana fino al midollo): tra uno stacco e l’altro, la sei corde incalza vigorosa, convulsa; a suo modo epico, implacabilmente emozionale, il brano, pur avendo sembianze power-pop (ma più Husker Du che Replacements), resta comunque un assalto all’arma bianca, ma di quelli che sono catartici fino alle estreme conseguenze.
Le improvvise e ripetute digressioni fanno del noise-rock di "Frankie I’m Sorry" un mostruoso esperimento di destabilizzazione sonora. Il massacro diventa rituale orgiastico nel finale di "Gary And Priscilla": Anderson ingaggia un duello all’ultimo sangue con la sezione ritmica: precisa eppure schizoide, quest’ultima; estremamente degradata e cacofonica la chitarra del primo. Un sax "deforme" aumenta ulteriormente il tasso alcolico.
Il "crazy saxophone" di Stim torna su "Man In A Box" (intralciata anche da spastiche bordate "metallurgiche"), mentre "Metro Teens" ha un basso che è pre-Sonic Youth, e un solo viscerale di Anderson che è pura "scrittura automatica".
In chiusura, "Face Of The Earth": rullare "ferroviario" di Mahoney, declamazioni brechtiane di Stim e dissonanze maligne di Anderson. Come dire che, in fondo, siamo sempre nell’era della paranoia post-industriale; e che la loro San Francisco non era, in fin dei conti, troppo distante da quella oscura e glaciale che le altre grandi band dell’epoca stavano passando al setaccio con formule musicali a dir poco rivoluzionarie e decisive per lo sviluppo del rock. Come lo è stata, anche se solo per brevissime illuminazioni, quella degli Mx-80 Sound, Bloomington, Indiana.
Con tanti saluti e ringraziamenti...
02/11/2006