Molte novità attendono gli ascoltatori che si avvicinano al quarto album dei Black Heart Procession, il primo e più evidente è il titolo: abbandonata la sequenzialità numerica dei precedenti 3 dischi, la band di Tobias Nathaniel e Pall Jenkins (ora Paulo Zappoli, cognome materno…) ha intitolato questa quarta opera con un titolo in italiano, anche se sgrammaticato, "Amore del tropico". Più in là nell'ascolto scopriremo che non si tratta di un cambiamento solo formale ma anche sostanziale, difatti dopo una brevissima introduzione, l'attacco del primo vero brano "Tropics of love" è da "clamoroso al Cibali" per chi conosceva i Black Heart Procession come i paladini di un genere che non è errato definire gotico-americano: qui si parte con ritmi e sonorità latine ai confini con la bossanova che a noi italiani può ricordare delle atmosfere alla Capossela, il dado è tratto perché da qui in poi ci aspetteranno altre sonorità e timbri inediti per il gruppo, come il synth ossessivo e molto anni ’80 di "Sympathy crime" e "The visitor", il rock brioso di "Did you wonder" che magari stupisce meno chi conosce il progetto parallelo di Pall Jenkins, i Three mile pilot.
Non si tratta però di una rivoluzione, dato che non mancano brani dall'atmosfera cupa e crepuscolare (i migliori esempi in "The water #4" e "The invitation"), quanto di un generale arricchimento timbrico nel suono della band, che si rintraccia anche in un uso maggiore degli archi e nell'aggiunta di cori femminili. Sonorità e atmosfere più solari confermate anche in ballate languide come "A cry for love", o nel perseguire la strada del primo pezzo in "Why I stay", con evidenti richiami ai Calexico.
Il cambiamento non solo non ha fatto scadere la qualità della musica dei Black Heart Procession, ma ne ha impreziosito la carriera, là dove il terzo album probabilmente aveva esaurito le possibilità del loro folk-gotico spettrale; magari non tutti i brani sono riuscitissimi, forse 2-3 pezzi in meno avrebbero realizzato una miglior messa a fuoco del nuovo corso musicale, ma se nel finale si avverte una certa ripetitività e stanchezza, la pazienza viene premiata dalla conclusiva "Fingerprints", che ci riconcilia con le atmosfere già note, un brano crepuscolare e malinconico come nella migliore tradizione del duo di San Diego, a completare nella classicità un lavoro che nella storia del duo è arrivato al momento giusto.